La volontà di fare il bene nella quale si risolve
sempre l’amore che deriva direttamente da Dio, come la cupidigia
si risolve nella volontà di fare il male, fece cessare quel dolce
coro e fece fermare il moto dei beati, i quali sono come le corde
di una lira che la mano di Dio allenta o tende.
Come potranno essere sorde alle preghiere dei
giusti quelle anime beate che, per invogliarmi a interrogarle,
furono concordi a cessare il loro canto? E’ giusto che soffra
eternamente colui che, per amore delle cose terrene che sono caduche,
si priva per sempre dell’amore di Dio.
Un'improvvisa immobilità
si sostituisce all'immagine del cielo di Marte che si volge intorno
a Dante come un immensa, scintillante scudo crociato e a quella
delle anime che hanno formato la croce luminosa nella quale "lampeggia"
la figura di Cristo, mentre il canto del l'inno di vittoria e
di risurrezione si interrompe improvvisamente: scompaiono, insomma,
tutti quegli elementi che avevano animato la grandiosa, e pur
liricamente vibrante, rappresentazione del canto precedente. Con
questa pausa narrativa ( una di quelle a cui il Poeta affida spesso,
nel Paradiso, il compito di preparare una particolare effusione
poetica) viene approfondito il tema della caritatevole benevolenza
dei beati, la quale anticipa l'intima disposizione affettuosa
di Cacciaguida, di Beatrice, di Dante stesso durante il loro colloquio.
pervaso da un senso di caritas che lo lega fortemente all'atmosfera
paradisiaca. La presenza di questo, come di altri motivi paradisiaci
( la luce, l'intensificarsi del sorriso di Beatrice, il mistico
eloquio di Cacciaguida ), concorrono a costituire " la base altissima
ed intensa su cui si attua la poesia dell'ultima parte, a elaborare
gli elementi di nobilitazione e santificazione della voce di Cacciaguida,
il tono epico-religioso e storicamente testimoniale in cui la
rappresentazione della Firenze antica può superare le condizioni
di un semplice e isolato idillio nostalgico...". (Binni). In queste
quattro terzine viene impostato ed energicamente evidenziato il
tema fondamentale non solo di questo canto, ma di tutta la trilogia
di Cacciaguida: contrasto fra cielo e terra, fra benigna volontade
e cupidità, fra mondo fallace e pace celeste, contrasto che troverà
la sua esemplificazione concreta, storica in quello fra la Firenze
sobria e pudica di un tempo e la Firenze corrotta del presente.
La storia della sua città diventa così per il Poeta l'esempio
di una verità universale e centrale del Paradiso, conferendo un
ulteriore rilievo " al mito della Firenze antica, la cui pace
nasceva per Dante non solo e non tanto da una situazione sociale,
economica, politica... quanto e più dall'adesione dei suoi cittadini
all'amore dei beni sostanziali, alla cristiana e civile carità"
(Binni) .
Come attraverso gli spazi sereni del cielo tranquillo
e limpido di tanto in tanto sfreccia improvvisa una stella cadente
attirando lo sguardo di chi se ne stava ozioso, e sembra una stella
che muti posto in cielo, se non che dalla parte dove si
è accesa non scompare nessun astro, e quella
presto si spegne, così dal braccio della croce che si protendeva
verso destra fino ai piedi di essa corse una delle luci della
costellazione (di spiriti) che risplende nell’interno della croce:
né quella
gemma si distaccò dal nastro luminoso (della
croce), ma corse via lungo la lista formata dai due raggi, sì
che sembrò una fiamma che risplende dietro ad un alabastro (trasparente):
Con la stessa manifestazione d’affetto corse
incontro (ad Enea, per abbracciarlo) l’ombra di Anchise, quando
nell’oltretomba riconobbe il figlio, se merita fede il racconto
di Virgilio, il nostro maggior poeta.
Recuperato il senso dello
spazio infinito con la visione di un sereno cielo notturno - che
diffonde su tutto il canto una pace superiore, un'arcana immobilità,
quasi ad aiutare l'evocazione di un mitico passato e la speranza
di un lontano futuro - ritorna l'immagine della croce luminosa,
delineata attraverso preziosi accostamenti ( la gemma, il nastro,
il foco che traspare dietro la diafana luminosità dell'alabastro)
che ripropongono le suggestioni lirico-visive delle metafore del
canto precedente. Infatti anche qui l'immagine non è fine a se
stessa, edonistico godimento dell'occhio che segue attento il
bagliore della gemma o le variazioni di luce prodotte dal foco
dietro ad alabastro. ma serve a determinare la situazione intima
di Cacciaguida, che, pur partecipando della beatitudine delle
altre anime (non si distacca, infatti, dalla croce, ma la percorre
per la lista radiai), nella sua sollecitudine affettuosa e paterna
''corre" verso il suo discendente, si illumina per un accrescimento
improvviso di caritas, "si porge", si protende verso Dante con
un gesto intenso di pietà, da padre a figlio. Sorge così, con
la naturalezza di un ricordo che affiora improvviso alla memoria,
il richiamo all'incontro nei Campi Elisi di Enea con il padre
Anchise (Virgilio, Eneide VI, 684-686), che gli profetizza i travagli
attraverso i quali dovrà passare prima di porre le fondamenta
di quella che diventerà Roma; anzi l'economia della Commedia l'incontro
di Dante con Cacciaguida assume la stessa funzione - rivelazione
di missione - che nel poema virgiliano rivestiva quell'episodio.
E' il momento centrale del poema sacro, è il momento nel quale
Dante riceve la sanzione del destino che Dio gli ha assegnato.
Nel canto secondo dell'Inferno il Poeta aveva obiettato a Virgilio,
che lo esortava al viaggio, di non essere né San Paolo né Enea,
coloro che ebbero il privilegio di vedere il mondo ultraterreno,
il primo per ricevere forza nella sua opera di diffusione della
fede, il secondo per contemplare la Roma futura. Ora egli è veramente
come San Paolo, come Enea: attraverso la visione del mondo sovrannaturale
attinge la promessa e la certezza delle cose future, la promessa
e la certezza di un rinnovamento del mondo, e Cacciaguida, il
martire della fede, conferma solennemente la sua missione. Ma
per rinnovare il mondo occorre un esempio da indicare agli uomini,
un modello che si possa realizzare concretamente: è il passato
della sua Firenze dentro dalla cerchia antica, quando si stava
in pace, sobria e pudica. Il discorso di Cacciaguida nel canto
XV "non è soltanto l'espressione di un rimpianto del tempo passato,
una fuga nella memoria di cose antiche abbellite dall'animo, un
moto di laudator temporis acti [lodatore del tempo passato], la
voce di un conservatorismo incapace di comprendere la presente
realtà" (Montano), perché, evocata dall'avo nell'animo del Poeta
"come un'immagine mitica, è la città della purezza e della fede
che muove la sua ansia e che egli vorrebbe restaurare". Osserva
ancora il Montano, che ha dato una fine interpretazione di tutto
l'episodio di Cacciaguida: "L'ansia profetica della restaurazione
e della riforma non può non rifarsi a un passato da far ritornare,
a una purezza originaria da riattingere". E questo è il puro mondo
fiorentino, anteriore ai guadagni e alla corruzione portata dalla
gente nova. In questo senso l'ideale ritorno a Firenze non è certo
una interruzione del moto di ascesa verso Dio, un indugio autobiografico
nel processo di elevazione spirituale, ma è un ritrovare, da parte
del Poeta, le ragioni della sua speranza, del suo sogno di un
futuro migliore, della sua stessa missione.
“ O sangue mio, o grazia di Dio (in te) infusa
in maniera singolare, a chi mai fu dischiusa due volte la porta
del cielo come a te ? ”.
L'esordio in latino, nel
quale l'espressione sanguis meus ripete quella rivolta da Anchise
a Cesare (Virgilio Eneide VI, 835), concorre a quella nobilitazione
epico-sacra che, a partire da questo momento, diventa la tonalità
caratteristica del canto.
Cosi parlò quello spirito: perciò io mi rivolsi
con attenzione verso di lui;
poi guardai la mia donna, e restai stupito da
una parte e dall’altra, perché nei suoi occhi risplendeva un un
sorriso tale, che io credetti di toccare con i miei il limite
estremo della grazia concessami da Dio e della mia beatitudine.
Poi quello spirito, che ispirava gioia a udirlo
e vederlo, aggiunse alle sue prime parole cose che io non compresi,
tanto era profondo il loro significato;
né si sottrasse alla mia comprensione di proposito,
ma per necessità, perché il suo pensiero andò oltre il limite
a cui arriva l’intelligenza di un mortale.
E allorché la tensione dell’ardente carità fu
sfogata, tanto che il suo linguaggio si rese comprensibile alla
nostra mente, la prima cosa intesa da me fu:
“ Sii benedetto, o Dio trino e uno, che sei tanto
munifico verso la mia discendenza del mio seme)! ”
E continuò: “ Un caro e antico desiderio, sorto
in me dall’aver letto (la tua futura venuta) nel grande libro
della mente di Dio dove non si aggiunge e non si toglie mai nulla
a ciò che è scritto, hai saziato, o figlio, in me che ti parlo
avvolto in questa luce, grazie a Beatrice, colei che ti diede
le ali per il grande volo.
Tu sei convinto che il tuo pensiero discenda
in me direttamente da Dio, che è l’Ente primo, così come dall’unità,
quando è conosciuta, derivano il cinque e il sei (e gli altri
numeri ): e perciò non mi domandi chi sono e perché mi mostro
a te più festoso di qualunque altro spirito di questa moltitudine
beata.
Quello che credi è vero, perché in questa vita
tutti gli spiriti, siano essi dotati di un grado minore o maggiore
di beatitudine, vedono in Dio come in uno specchio nel quale manifesti
il tuo pensiero, prima ancora che tu lo abbia concepito:
ma affinché l’amore divino nella contemplazione
del quale io veglio godendone perpetuamente la visione e che fa
nascere in me la sete del dolce desiderio (di appagarti), s’adempia
meglio, la tua voce esprima senza timore, franca e lieta la tua
volontà, esprima il tuo desideri, per il quale è già pronta la
mia risposta!”
Io mi rivolsi a Beatrice, ed ella comprese prima
che parlassi, e sorridendo mi fece un cenno che accrebbe il mio
desiderio.
Poi incominciai così: “ Non appena aveste la
visione di Dio, che è perfetta uguaglianza (perché tutti i suoi
infiniti attributi sono mente uguali e commisurati fra di loro),
in ciascuno di voi sentimento e intelligenza si corrisposero perfettamente
, poiché Dio, il sole che vi illumina con la luce (della sua sapienza)
e vi infiamma con il fuoco (del suo amore), è così uguale (nei
suoi attributi), che ogni somiglianza risulta inadeguata ad esprimerLo.
Invece nei mortali la volontà e lo strumento
per esprimerla adeguatamente, per il motivo che voi conoscete
( la limitatezza e l’imperfezione umana), sono provveduti di ali
di diversa potenza (cioè: la parola non sempre può realizzare
ciò che la volontà desidera);
per cui io, che sono ancora mortale, sento di
essere in questa disuguaglianza (tra volontà e parola), e perciò
non ringrazio che col cuore per l’accoglienza festosa e paterna.
Io ti supplico però, o spirito splendente come vivo topazio che
adorni questo prezioso gioiello della croce, di appagare il mio
desiderio di conoscere il tuo nome ”.
Allorché mi rispose, questo fu l’inizio del
suo discorso:
“ O figlio mio, nel quale mi compiacqui anche
solo aspettandoti, io fui tuo capostipite”.
Poi mi disse: “Alighiero, colui dal quale prende
nome il tuo casato e che gira da più di cento anni nella prima
cornice del monte del purgatorio, fu mio figlio e fu tuo bisavolo:
è proprio opportuno che tu gli abbrevi la lunga
pena con i tuoi suffragi.
Cacciaguida ricorda il
figlio Alighiero (o Allaghiero), dal quale derivò il nome di tutto
il casato. Il nome di Alghiero compare in un documento del 1189
e in uno del 1201, ma Dante dovette crederlo morto prima del 1200,
perché nel 1300 - data dell'immaginario viaggio oltremondano -
afferma che da cent'anni e più e si trova nel primo girone del
purgatorio, tra i superbi. Da Alighiero nacque Bellincione e,
da questo, Alighiero, padre di Dante.
Firenze chiusa dentro la cerchia delle antiche
mura, donde la città sente ancora il suono delle ore di terza
e di nona, se ne stava in pace, sobria e onesta.
La cerchia antica delle
mura fu costruita al tempo di Carlomagno sovra 'l cener che d'Attila
rimase (Inferno XIII, 149). Presso queste mura sorgeva l'antica
chiesa della Badia dei Benedettini che suonava le ore del giorno.
Dopo la morte di Cacciaguida furono costruite altre due cerchia,
nel 1173 e nel 1284 (quest'ultima terminata solo nel secolo XIV).
Le donne non usavano braccialetti, nè corone
preziose, né gonne ricamate, né cinture tanto ricche da essere
più vistose della persona che le portava).
Alla visione complessiva
delle passate virtù segue ora una descrizione dettagliata che,
scandita dall'epica energia di una serie di negazioni in crescendo,
presenta un quadro particolareggiato del contrasto fra la Firenze
antica e la Firenze attuale. Anche il Villani fu colpito dalla
suggestione di questi versi danteschi, che riecheggia in un passo
della sua Cronaca (VI, 70) allorché descrive la Firenze del passato
e i suoi cittadini.
La figlia, nascendo, non faceva ancora paura
al padre, perché l’età e la dote non uscivano da una parte e dall’altra
dalla giusta misura.
Per le giovani il tempo
delle nozze e l'entità della dote erano fissate secondo una giusta
misura: non troppo presto il primo e non troppo ricca la seconda.
Nella Firenze attuale, invece, i padri maritano le figlie quando
sono ancora "nella culla" (Ottimo) e la dote è tale che la figila
esce di casa "con tutto quello che ha il padre".
Non vi erano case vuote di prole; non era ancora
giunto Sardanapalo a insegnare quali vizi e lussi si possono avere
nel segreto della camera.
Le case appaiono ora fastosamente
sproporzionate al bisogno (le più grandi famiglie nobili occupavano
con le loro " consorterie " interi quartieri della città) e quasi
disabitate. Questa interpretazione deve essere unita ad un'altra
che la completa: le case sono ora vote di prole a causa della
degenerazione morale della famiglia. La depravazione e la mollezza
dei costumi è penetrata nell'intimo della vita familiare e merita
di venire rappresentata attraverso la figura di Sardanapalo, il
re assiro vissuto nel VII secolo a. C., famoso per lussuria ed
effeminatezza.
Monte Mario non era ancora vinto dal vostro
Uccellatoio, il quale Monte Mario, come fu superato in magnificenza,
così sarà superato nella decadenza.
Il fasto di Firenze, che
si può ammirare dal monte Uccellatoio, non aveva ancora vinto
il fasto della città di Roma, osservata dall'alto di Monte Mario.
Ma come è stata rapida l'ascesa, altrettanto lo sarà l'inevitabile
decadenza, che colpirà presto Firenze a causa della sua corruzione.
lo vidi Bellincione Berti portare una cintura
di cuoio con fibbie d’osso, e vidi sua moglie tornare dallo specchio
senza il viso dipinto;
Chiusa la prima parte del
discorso di Cacciaguida con l'immagine di una parabola di grandezza
e di decadimento, che lascia dietro di se una desolata immagine
di rovine (versi 109-111 ), la visione della Firenze antica si
fa più diretta, più nitida: appaiono i suoi cittadini più illustri,
rappresentativi dell'alterezza cavalleresca e delle virtù romane.
Sono uomini austeri, donne pudiche, e su di loro si ferma. assorto,
l'occhio di Cacciaguida (vid'io... vidi), che quel mondo ben conobbe
e rappresento. Dante non prospetta una vita ascetica o un rifiuto
dei mondo (anzi e da quella Firenze che Cacciaguida è partito
per la sua impresa più grande, la difesa della fede), bensì una
società retta dalle virtù più sante: la casa, la famiglia, il
lavoro, il culto del passato, le virtù, cioè, che per Dante coincidevano
con gli ideali della Cavalleria: ed el mi cinse della sua milizia...
per bene ovrar, dirà Cacciaguida alla fine del canto (versi 140-141).
Bellincione Berti, padre della buona Gualdrada (Inferno XVI. 37)
e nobile cavaliere fiorentino, fu capostipite della famiglia dei
Ravignani.
e quelli della famiglia dei Vecchietti accontentarsi
di indossare una semplice pelle non ricoperta di panno, e le loro
donne intente agli umili lavori del fuso e della rocca.
Le famiglie guelfe dei
Nerli e dei Vecchietti furono fra le più ragguardevoli di Firenze,
secondo la notizia del Villani ( Cronaca IV, 12-13 ) .