Purgatorio: canto XIV
«Chi è questo che percorre i gironi del nostro monte prima che la morte abbia liberato la sua anima dal corpo, e può aprire e chiudere gli occhi secondo il suo desiderio? »
Parla Guido del Duca degli Onesti, appartenente ad una nobile famiglia di Ravenna. Di lui si hanno poche notizie: fu ghibellino e ricoprì la carica di giudice a Faenza, Rimini e in altre località della Romagna. Morì intorno al 1250.
« Non so chi sia, ma so che non è solo: domandaglielo tu che gli seì più vicino, e accoglilo con cortese gentilezza, in modo che egli acconsenta a parlare. »
L'anima che risponde è quella di Rinieri dei Paolucci, un nobile guelfo di Forlì. Fu podestà di Faenza, Parma, Ravenna e di altre città dell'Italia centrale, e partecipò fattivamente alle lotte politiche che travagliarorio la Romagna fino alla sua. morte (1296).
Così due spiriti, l'uno chinato verso l'altro, parlavano di me lì a destra; poi, per
potermi parlare, reclinarono indietro i loro visi,
e uno disse: « O anima che procedi verso il cielo ancora legata al corpo; donaci conforto in nome della carità e rivelaci
da dove vieni e chi sei, perché tu ci causi tanto stupore per la grazia che ti è stata concessa, quanta ne produce una cosa mai prima accaduta ».
Ed io: « Nel centro della Toscana scorre un fiumicello che nasce dal monte Falterona, e non gli basta un corso di cento miglia.
Io nacqui da un luogo situato lungo le sue rive: rivelarvi chi sono, significherebbe parlare inutilmente, perché il mio nome non è ancora molto noto ».
Nel silenzio ancora carico degli accenti antisenesi di Sapìa si apre, senza alcun preludio, un dialogo che immediatamente consegna il clima di alto sentire di tutto il canto, attraverso la sensibilità delle due anime, resa più acuta dalla loro cecità, la velata e pensosa malinconia, la gentilezza, tutta umana e intimamente caritatevole, nell'accogliere dolcemente chi può aprire li occhi a sua voglia, l'accenno coperto di Dante alla propria patria, dove il bel fiume d'Arno (Inferno canto XXIII, verso 95) diventa un flumicel, non solo per far suo il modo distaccato di guardare alle cose, proprio di tutto il Purgatorio, ma per aprire la via alle amare parole e all'invettiva di Guido del Duca contro i territori bagnati dall'Arno. "L'accentuazione drammatica si leverà a poco a poco ed essenzialmente quando il grande tema del canto, il rimpianto del passato cortese e la deprecazione del tempo presente peccaminoso e corrotto, trarrà forza dalla vicenda, umana e biografica di Dante e storia e poesia si confonderanno insieme: il tema morale si collegherà con la materia politica e anche la tecnica letteraria si varrà della satira e di toni profetici e apocalittici per esprimere l'accorato sentimento di offesa della giustizia per placarsi nella finale immagine degli eterni corsi dei cieli e delle loro mirabili bellezze" (Piromalli).
In tale senso i due canti dedicati agli invidiosi, oltre ad essere momenti di un'unica sceneggiatura, su uno sfondo figurativo opaco, aspro e nello stesso tempo pietoso, nascono da una unitaria concezione drammatica, perché il prorompere eloquente e oratorio del canto XIV, dopo questo lento avvio, si propone come risultato naturale di un tema e di un dialogo già avanzato nel canto precedente, con ricercata gradualità di effetti e di accenti. Il peccato dell'invidia è da Dante considerato non come uno scambio di livore fra persona e persona, ma come il contrario della carità di patria, come pervertimento e accecamento di ogni senso morale e civile. L'invidia della senese Sapìa, che dalla gioia delli altrui danni perviene alla folle esultanza per la sconfitta disastrosa della propria città, "traborda nelle sue conseguenze..., dal danno del singolo prossimo, a quello più lato della vita civile... Perciò una configurazione drammatica e didascalica dell'invidia non poteva che approdare a una conseguenza etico-politica, e quindi a uno sbocco oratorio, e attrarre pure sulla sua scia le passioni e le memorie iraconde e nostalgiche dell'esule toscano, e « romagnolo » per forza di eventi" (Grana).
« Se io con la mia mente penetro bene nel contenuto della tua spiegazione» mi rispose allora quello che prima aveva parlato, « tu stai parlando dell'Arno. »
E l'altro gli disse: « Perché costui ha nascosto il nome di quel fiume, proprio come si fa a proposito di cose turpi? »
E l'anima alla quale era stata rivolta questa domanda si sdebitò (dell'obbligo di rispondere) in questo modo: «Non lo so: ma è giusto che perisca il nome di questa valle,
perché dalla sua sorgente (dal principio suo: dal Falterona), dove l'Appennino, dal quale è staccato il monte Peloro, è così gonfio ed elevato, che in pochi luoghi supera l'altezza del
Falterona,
Dante nel verso 32 allude ad una tradizione di origine classica, secondo la quale la Sicilia si staccò dalla penisola in seguito a una scossa tellurica.
fino alla foce dove (il fiume) si getta nel mare per ricompensarlo di quelle acque che il sole (con l'evaporazione) gli ha sottratto, dalla quale evaporazione i fiumi (con la pioggia e la neve) derivano le loro acque,
a tal punto la virtù è evitata come una nemica da tutti così come un serpe, o per una maledizione che viene dal luogo, o per una malvagia consuetudine che li penetra nel profondo,
che gli abitanti della misera valle hanno così mutato la loro natura, che sembrano essere stati nutriti da Circe.
Il Poeta, per indicare lo stato di abiezione in cui sono cadute le popolazioni dell'Arno, ricorda la trasformazione in porci dei compagni di Ulisse operata dalla maga Circe con i suoi incantesimi (pastura), riprendendo la leggenda omerica attraverso Virgilio (Eneide VII, versi 10-20), Orazio (Epistole I, II, versi 23-26), Ovidio (Metamorfosi XIV, versi 248 sgg.).
La perifrasi descrittiva (versi 16-18) che aveva colto il fiume toscano da una cima ideale, piccolo alla sorgente, per poi spaziarsi avidamente dalle sue modeste origini, insaziato, per oltre cento miglia, era già una metafora morale, una calzante personificazione polemica della cupida anima toscana, ma ora il corso del fiume viene rifatto attraverso "una apocalittica metamorfosi che avvolge in una fosca visione infernale tutta la regione toscana e le sue popolazioni", dove "i dati reali, non pure della cronaca e della storia, ma addirittura di una fisica topografica, di un paesaggio così familiare e ridente, legato alla memoria affettiva del Poeta, vengono... trascesi nell'assolutezza di un giudizio storico-politico e morale, nel quale hanno rilevanza solo la virtù e il vizio, i costumi riprovevoli degli uomini; così che la loro condanna si riflette sulla stessa natura dei luoghi, dove la virtù si fuga da tutti come biscia" (Grana) : in un crescendo pauroso la Toscana e la Romagna, i limiti geografici della vicenda terrena di Dante, diventano "una specie d'inferno" (Pistelli) , una misera valle (verso 41) , una maladetta e sventurata fossa (verso 51) . Guido del Duca è la voce accorata di Dante che considera con amarezza la realtà morale e sociale del suo tempo, quanto più si accosta ai temi dell'esperienza personale e sofferta e "come Gioacchino da Fiore Dante avverte il problema fondamentale del suo tempo, quello del Medioevo feroce nel quale viveva e che nei costumi e nelle stirpi era andato sempre più degenerando, come un problema morale. La condanna della lotta dell'uomo contro l'uomo e le voci invocanti la pace e la giustizia, la deprecazione della violenza dentro la stessa città in cui si lottano quei che un muro ed una fossa serra si esprimono in Dante con forza polemica che condanna i vizi e i disordini dell'ordinamento comunale" (Piromalli). Per questo anche il linguaggio si trasforma in eloquenza calda e serrata, con un ordine sintattico accuratamente elaborato, che dopo aver concluso il primo ritmo del respiro spirituale di questa invettiva nella descrizione del corso del fiume, introduce, con la figura di Circe e dei suoi incantesimi, l'immagine medievale della valle abitata da bestie.
Dispiega dapprima il suo corso povero d'acqua tra sudici porci, più degni di ghiande che di altri cibi fatti ad uso degli uomini.
Il primo tratto dell'Arno scorre nell'alto Casentino, i cui abitanti vengono presentati come brutti porci, o per alludere alla loro condizione di vita molto primitiva o per il fatto che si dedicavano particolarmente all'allevamento dei suini. Secondo altri commentatori, invece, il nome deriverebbe dal castello di Porciano (ai piedi del Falterona), dimora di un ramo dei conti Guidi.
Trova poi, scendendo verso il piano, cani ringhiosi più di quanto richiederebbe la loro forza, e si allontana da loro con disdegno.
Botoli sono gli Aretini, "perché botoli sono cani piccoli da abbaiare più che da altro; e così dice che sono li Aretini, atti ad orgoglio più che a forze" (Buti). La valle dell'Arno, presso Arezzo, compie una grande curva (torce il muso) verso occidente, formando il Valdarno superiore.
Procede scendendo; e quanto più la maledetta e sventurata valle si va allargando, tanto più trova cani che si trasformano in lupi.
I cani aretini cedono il posto ai lupi fiorentini, "li quali come lupi affamati intendono all'avarizia e all'acquisto per ogni modo, con violenza e rubamento e sottomettendo li loro vicini" (Buti).
Disceso poi attraverso numerosi profondi passaggi, trova volpi così piene di astuzia, che non temono trappole capaci di sorprenderle.
L'Arno, dopo essersi incassato nei pelaghi cupi del Valdarno inferiore, giunge a Pisa, i cui abitanti sono paragonati "alle volpi per la malizia; imperò che li pisani sono astuti e coll'astuzia più che colla forza si rimediano dai loro vicini" (Buti).
Né cesserò di parlare per il fatto che un altro (perch'altri: cioè Rinieri) mi ascolta; e sarà utile a costui (Dante), se si ricorderà anche di ciò che una verace ispirazione mi rivela.
Guido del Duca afferma di parlare per puro amore di verità: le sue parole saranno motivo di dolore per Rinieri, che udrà preannunciare le malvage azioni del nipote Fulcieri, ma a Dante esse, anche se amare, permetteranno di sopportare meno duramente i mali futuri di Firenze, perché quelle sventure non gli giungeranno inaspettate.
Vedo tuo nipote diventare cacciatore di quei lupi lungo le rive del crudele fiume, spargendo fra loro il terrore.
Vende la loro carne ancora viva; poi li uccide come belva inveterata nella sua ferocia: priva molti della vita e se stesso dell'onore.
Esce macchiato di sangue dalla sciagurata selva (da Firenze); e la lascia in uno stato tale, che neppure fra molti anni potrà risorgere ritornando nella primitiva condizione ».
I veggio tuo nepote: Fulcieri da Calboli divenne podestà di Firenze nel 303 e, per conservare la sua carica oltre il termine stabilito di sei mesi, fece strumento della politica dei Neri contro i Bianchi e i Ghibellini. Il Villani, in un passo della sua Cronaca VIII, 59), lo definisce "uomo feroce crudele", rivelando anche il nome dei cittadini fiorentini che, benché innocenti, egli fece condannare a morte, per avere l'appoggio dei Neri: vende la carne loro essendo viva.
Nei versi 43-54 la storia era diventata un "attuale mito di bestie, ora sconcie, ora vili, ora feroci, ora perfide" (Grabher) : tale mito trova il suo completamento naturale in un annuncio di sciagure pubbliche, in una rivelazione tragica e barbara, dove di validissimo effetto poetico è l'aver fatto pronunciare la profezia (io veggio) da un cieco, per cui essa pare acquistare l'intensità che può provenire da una visione tutta interiore. "Continuando e sviluppando coerentemente l'emblematica fluviale e ferina, la figurazione esaspera i motivi d'ispirazione infernale, con l'irrompere di una figura nuova, una sorta di demonio sanguinario che sulla riva del fiero fiume e su quei lupi pare eserciti una superiore vendetta, ma a sua volta atteggiandosi ferocemente come antica belva. E quindi i lupi sono ora vittime sgomente, e il nuovo misfatto è tale da convertire la riva del fiume in una trista selva". (Grana) In questa immagine, e davanti ai secoli che non basteranno a risollevarla, Firenze si trasforma agli occhi dell'esule, che la vede straziata dalle lotte di parte, e grandeggia nella pietà che ispira, cosicché la satira si cambia in un momento vibrante e lirico, nel quale la catastrofe morale e civile della città è dolorosamente rivissuta attraverso il profondo legame d'affetto che lega il Poeta alla sua patria.
Come all'annunzio di gravi danni si turba il volto di chi ascolta, da qualunque parte il pericolo lo minacci,
allo stesso modo io vidi l'altra anima, che era tutta volta ad ascoltare, turbarsi e diventare preoccupata, dopo avere accolto e meditato quella profezia.
Le parole della prima anima e l'aspetto dell'altra mi resero desideroso di conoscere i loro nomi, e a questo proposito rivolsi loro una domanda unita a preghiera;
per la qual cosa lo spirito che mi aveva parlato in precedenza riprese a dire: « Tu vuoi che io m'induca a fare nei tuoi confronti ciò che tu non vuoi fare nei miei (nascondendomi il tuo nome).
Ma dal momento che Dio vuole che in te traspaia tanto la sua Grazia, non ti sarò avaro delle mie parole; perciò sappi che io sono Guido del Duca.
La mia anima arse a tal punto d'invidia, che se avesse visto uno mostrarsi contento, mi avresti visto diventare livido.
Da quello che ho seminato (di mia semente: l'invidia) raccolgo questa paglia: o uomini, perché rivolgete l'anima ai beni terreni dove è necessaria (per poterli godere) l'esclusione di altri che ne siano partecipi ?
Guido del Duca nella sua apostrofe contro l'amore dei beni terreni usa un linguaggio giuridico, ricorrente in una legge degli Statuti comunali del tempo, in base alla quale se un cittadino ricopriva determinate cariche, i suoi "consorti", cioè i membri della sua famiglia, ne restavano esclusi, ricevendo il "divieto" di parteciparvi.
Questo è Rinieri; questo è il prestigio e l'onore della casata da Calboli, dove in seguito nessuno si è fatto erede della sua virtù.
E tra il Po, l'Appennino, il mare e il Reno (cioè nella Romagna) non solo la sua famiglia è diventata priva delle virtù necessarie ai bisogni concreti della vita e ai suoi lati piacevoli,
perché (il territorio) entro questi confini è a tal punto pieno di piante velenose, che, per quanto esso si coltivi, si estirperebbero ormai troppo tardi.
Dov'è il nobile Lizio e Arrigo Manardi? Piero dei Traversari e Guido di Carpegna? Oh Romagnoli cambiati in bastardi!
Lizio di Valbona, Arrigo Manardi di Bertinoro, Piero dei Traversari, Guido di Carpegna sono signori romagnoli vissuti nel secolo XIII.
Quando a Bologna tornerà a rivivere un Fabbro? quando a Faenza un Bernardino di Fosco, nobile virgulto venuto da un'umile erba?
Fabbro dei Lambertazzi appartenne ad un'antica famiglia bolognese e guidò il partito dei Ghibellini romagnoli fino alla sua morte (1259).
Bernardino di Fosco fu un faentino di umili origini, che ricoprì la carica di podestà di Pisa e di Siena.
Non ti stupire, se io piango, o Toscano, quando ricordo insieme con Guido da Prada Ugolino d'Azzo, che visse tra noi Romagnoli,
Federigo Tignoso e la sua compagnia, la casata dei Traversari e gli Anastagi (ma l'una e l'altra famiglia si sono, estinte),
le donne e i cavalieri, le difficili imprese e i raffinati dilettamenti dei quali l'amore e la cortesia suscitavano in noi il desiderio là (in Romagna) dove gli animi sono diventati cosi crudeli.
Guido da Prada (nel Faentino) visse tra la fine del XII e l'inizio del XIII secolo. Ugolino d'Azzo, della nobile casata toscana degli Ubaldini, morì nel 1232, dopo aver trascorso la maggior parte della sua esistenza nella Romagna.
Federigo Tignoso nacque probabilmente a Rimini, e fu generoso e cortese come la brigata che lo circondava. Sappiamo dell'esistenza di queste compagnie o associazioni mondane e aristocratiche nella società del '200 da storici e scrittori del tempo. Dante stesso vi allude nel canto XXIX, verso 130 dell'Inferno.
Al tempo del Poeta due fra le più potenti e antiche famiglie di Ravenna, quella dei Traversari e quella degli Anastagi, erano in piena decadenza.
Dante nel Convivio (II, X, 8) afferma che "cortesia e onestade è tutt'uno: e però che ne le corti anticamente le vertudi e li belli costumi s'usavano, sì come oggi s'usa lo contrario, si tolse quello vocabulo da le corti, e fu tanto a dire cortesia quanto uso di corte". Sono parole che aiutano a comprendere questa parte del canto, nella quale l'indignazione di fronte al tempo presente si scioglie in una elegiaca, nostalgica lode del passato, motivo che verrà ripreso nel canto XVI e che costituirà il tema patetico - nato dai sentimenti e dai ricordi dell'esule nonché dalle sue aspirazioni ad una vita rnigliore - non solo dei canti centrali del Purgatorio, ma anche di quelli del Paradiso: "è come un ripiegarsi dell'animo su di sé e scoprire al di là della triste realtà, che suscita gli sdegni e li fa violenti; una regione in cui lo spirito pur piangendo riposa: il mondo dell'antica cortesia, e lo spirito trova nel vagheggiamento di questo mondo uno dei motivi più profondi di sé" (Malagoli).
In un lungo discorso, che pur in un diverso tono affettivo, conserva il movimento oratorio di quello che lo ha preceduto, Dante, attraverso le parole di Guido, rievoca il mondo in cui ha trascorso la sua giovinezza, il mondo che amava ancora la cortesia e le virtù individuali, e che aveva fatto proprio un modo di vita lieta, elegante e operosa. Egli delinea, nota il Mattalia il quadro idealizzato, di una società
feudale-cavalleresca, quale risulta dall'incontro del raffinato mondo cantato dalla poesia provenzale con quello, altrettanto raffinato, ma più ricco di fatti guerrieri, della poesia e della narrativa brettone, "in rìlevante e certamente intenzionale contrasto col quadro della rissosa ed esagitata Romagna "tirannica" delineato nel canto XXVII dell'Inferno, e nella figurazione del quale Dante ribadisce il suo atteggiamento e i suoi gusti di aristocratico conservatore, fieramente, avverso al livellamento e alla degradazione del costume portati dall'avvento della borghesia plutocratica e mercantilesca: che sarà detto in più chiare e dure note, nei canti XV e XVI del Paradiso", anche se, occorre rilevare, la "cortesia" per Dante non è retaggio di sangue, ma interiore perfezione, gentilezza di uomini dotati di cuore generoso (nella rassegna di Guido, infatti, viene esaltato anche chi divenne grande e gentil, pur uscendo da picciola gramigna), che però "s'ingentilirono in una società formata da donne e cavalieri viventi tra i nobili svaghi della pace" (Piromalli). Per questo Dante fa piangere Guido del Duca (versi 124-126), e più tardi Marco Lombardo, sulla fine del mondo cavalleresco, quando l'amore per una donna armava il braccio nei tornei o i castelli aprivano le porte per accogliere generosamente ì cavalieri: due versi cantano nel loro ritmo melodico quel sogno di eleganza e di nobiltà, donne é
cavalier, li affanni e li agi che ne 'nvogliava amore e cortesia, diventando non solo il centro ideale del canto, ma la formula-sintesi di quel mondo, raccolta prima dal Boccaccio e poi dall'Ariosto nel famoso proemio dell'Orlando Furioso.
O Bertinoro, perché non scompari, dal momento che si è estinta la famiglia dei tuoi signori e molte altre famiglie nobili (sono scomparse) per non corrompersi ?
Bertinoro era una città fra Cesena e Forlì, sede dei Mainardi, che si estinsero nel 1177, e famosa per la "cortesia" dei suoi gentiluomini.
Fa bene la casata di Bagnacavallo (i conti MalvIcini, signori dei luoghi fra Lugo e Ravenna), che non ha più dìscendenti; e fa male quella di Castrocaro (in Val Montone), e peggio quella di Conio (vicino ad Imola), che si dà ancora briga di mettere al mondo conti così degeneri .
Faranno bene i Pagani (a continuare la loro stirpe), dopo che sarà scomparso il loro diabolico rappresentante; ma non per questo accadrà che di loro possa più rimanere una testimonianza pura.
I Pagani, signori di Faenza, ebbero in Maghinardo da Susinana (cfr. Inferno canto XXVII, versi 49-51) il loro peggiore esponente anche dopo la sua morte (1302) la fama della famiglia resterà rovinata.
Ugolino dei Fantolini, il tuo nome è sicuro, dal momento che non si aspetta più un discendente che lo possa oscurare, uscendo dalla retta via.
Ugolino dei Fantolini fu un faentino di parte guelfa, signore di alcuni castelli della Romagna, morto nel 1278 lasciando due figli che morirono alcuni anni dopo senza discendenti.
Ma allontanati ormai, o Toscano, perché ora sento molto desiderio di piangere più che di parlare, a tal punto il nostro colloquio mi ha attanagliato l'animo».
Noi sapevamo che quelle anime nobili ci sentivano camminare; perciò, con il loro silenzio, ci rendevano sicuri della nostra. strada.
Dopo che, continuando a procedere, restammo soli, apparve come una folgore quando squarcia l'aria, una voce che risuonò davanti a noi dicendo:
« Mi ucciderà chiunque mi troverà »; e scomparve come un tuono che dilegua, quando all'improvviso squarcia la nuvola.
Anche gli esempi di invidia punita, come quelli di carità
(cfr. canto XIII, versi 25-36), sono gridati ad alta voce. Il primo ripete le parole che Caino pronunciò dopo l'uccisione del fratello Abele, consapevole della maledizione divina che lo avrebbe perseguitato.
Quando non la udimmo più, ecco la seconda voce con tale fragore, che sembrò un tuono che segua subito quello precedente:
« lo sono Aglauro che fui trasformata in sasso »; ed allora, per stringermi tutto a Virgilio, mi mossi verso destra invece che avanti.
Il secondo esempio ricorda l'invidia di Aglauro, figlia di Cecrope. re d'Atene, nei confronti della sorella Erse, amata da Mercurio. Per punizione il dio la trasformò in pietra.
Ormai l'aria era tranquilla da ogni parte; ed egli mi disse: « Quello che hai udito è il duro freno che dovrebbe trattenere gli uomini entro i giusti limiti.
Ma voi vi lasciate adescare dai beni mondani, così che l'amo del demonio (antico avversaro) vi attira a sé e perciò poco serve il freno o il richiamo.
Il cielo vi chiama e vi ruota intorno, mostrandovi le sue eterne bellezze, eppure i vostri occhi guardano soltanto verso terra;
e per questo vi punisce Colui che tutto conosce ».
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