Purgatorio: canto XV
Quanto percorso compie il sole che (oscillando nel suo moto apparente fra i due tropici) pare sempre giocare come un fanciullo, tra l'inizio del giorno e la fine dell'ora terza,
altrettanta parte del suo cammino, sembrava ormai gli fosse rimasta per arrivare al tramonto; nel purgatorio era il vespero, e in Italiaera mezzanotte.
Tenendo presente la divisione canonica delle ore del giorno in ora prima, terza, sesta, nona, partendo dalle sei del mattino; Dante intende spiegare che la quantità di cammino percorsa dal sole fra le sei e le nove è uguale a quella che deve percorrere per tramontare: mancano cioè tre ore, e infatti nel purgatorio inizia il vespero (tra le quindici e le diciotto), che precede la sera; agli antipodi, cioè a Gerusalemme, sono le tre antimeridiane, e in Italia, dove il Poeta immagina di scrivere, e che si trova a 45 gradi di longitudine occidentale da Gerusalemme, è mezzanotte.
Il paragone tra la luce e il fanciullo che scherza è parso privo, di risonanze liriche alla maggior parte degli interpreti. Anche da un punto di vista logico, il significato del perpetuo scherzare della luce non risulta, a una prima lettura, evidente. La più persuasiva spiegazione è forse quella fornita dal Porena, per il quale critico la similitudine del verso 3 "raffronta... la condotta incostante del fanciullo, che sempre vuole e disvuole, fa, e disfà, con quel continuo. e costantemente incostante oscillar del sole, nella vicenda delle stagioni, fra un tropico e l'altro". Ove si accetti questa esegesi, il quadro con cui il canto si apre perde quel che di angusto e di irrisorio, che una considerazione immediata del verso 3 è suscettibile di conferirgli (anche un critico smaliziato come il Marti si domanda, facendo eco a chi, come P. Venturi, ha definito questo verso "miserabile similitudine", o, come il Momigliano, l'ha attribuito ad una "infelice imposizione della rima": "quale mai scherzo fanciullesco, in questo uguale, solenne ed eterno muoversi della sfera del sole?"), per acquistare proporzioni di cosmica vastità.
Ma la similitudine, indipendentemente dalla sua interpretazione in termini astronomici,.. si giustifica sul piano della poesia soprattutto, nella misura in cui prelude alla tematica delle manifestazioni della luce che sarà propria del canto. La luce infatti apparirà in questa, pagina della poesia del Purgatorio, in costante, quasi imprevedibile movimento, per cui il nesso analogico con lo scherzare del fanciullo risulta, fecondo, ove si ponga mente, oltre, che al motivo del movimento, antiche a quello della impalpabilità ed inafferrabilità dell'elemento luminoso, cui la mancanza di peso può conferire, agli occhi di un poeta, il privilegio di una imperitura giovinezza. In particolare, il verso 3 anticipa il versò 18, ove -o "scherzare" si definisce fisicamente come "saltare", rimbalzare all'opposta parte, quasi per un inspiegabile, libero capriccio (per quanto determinabile entro una formulazione astratta: qui e nel Paradiso i fenomeni luminosi, assunti a suggerire gli aspetti di più ardua traduzione in termini umani della verità, si definiscono in forme di estremo rigore razionale).
E i raggi del sole ci colpivano in pieno viso, perché avevamo percorso ( da oriente ad occidente) tanta parte del monte, che ora camminavamo verso occidente in linea retta,
allorché sentii i miei occhi abbassarsi di fronte alla luminosità (dell'angelo) molto più di prima (davanti alla luce del sole), e questa cosa nuova mi era motivo di stupore:
per cui portai le mani all'altezza dei miei occhi, e mi riparai dal sole, con un gesto che attenua l'eccesso della luce.
Come quando un raggio di sole (che è stato riflesso) rimbalza dalI'acqua o dallo specchio, nella parte opposta (a quella da cui era venuto), risalendo in base alla stessa legge
per cui era disceso, e si allontana dalla perpendicolare di uno spazio uguale a quello di cui si era allontanato cadendo, secondo quanto dimostrano l'esperienza e la scienza,
Dante allude a un noto principio di Euclide: nel fenomeno della riflessione sopra una superficie piana, l'angolo di riflessione e quello di incidenza sono uguali e si trovano ai lati opposti della perpendicolare a quella superficie.
con la stessa intensità di quel raggìo mi sembrò di essere colpito da una luce riflessa che si trovava dinanzi a me; per la qual cosa i miei occhi furono pronti a
sottrarvisi.
Dante ha provato la stessa impressione che dà un raggio riflesso improvvisamente e violentemente. Il suo è soltanto un paragone (così mi parve), perché in realtà la luce dell'angelo lo colpisce direttamente.
Il fenomeno della luce riflessa si ripropone, umanizzato, in una terzina del Paradiso ( canto I, versi 49-51) : e sì come secondo raggio suole uscir del primo e risalire in suso, pur come pellegrin che tornar vuole..., dove l'esattezza della costatazione scientifica (uscir del primo e risalire in suso è concettualmente più perspicuo, ma poeticamente meno intenso di salta lo raggio all'opposita parte) si trasfigura nel sentimento del pellegrino lontano dalla terra dei suoi affetti.
« Che luce è, dolce Virgilio, quella da cui non posso difendere la vista in modo da poterla sostenere » dissi, « e che sembra avanzare verso di noi? »
« Non ti stupire, se gli angeli ti abbagliano ancora (non essendo completa la tua purificazione) » mi rispose: « è un messaggero celeste che giunge ad invitare all'ascesa.
Presto accadrà che non ti sarà più faticosa la vista di queste cose, ma ti sarà piacevole nella misura in cui le tue facoltà naturali ti permetteranno di sentire. »
Dopo che giungemmo davanti all'angelo benedetto, egli con voce lieta ci disse: « Procedete da questa parte », per una scala meno ripida delle altre due.
Noi salivamo, dopo esserci già allontanati da lì, quando dietro a noi l'angelo cantò: « Beati i misericordiosi! » e « Godi tu che vinci (il peccato)! »
-Nel secondo girone, quello degli invidiosi, viene cantata la quinta beatitudine del discorso della montagna (Matteo V. 7), contrapponendo all'invidia la misericordia; l'espressione Godi tu che vinci è da alcuni commentatori rìferita alla seconda parte della beatitudine ("perché otterranno misericordia"), da altri, e più giustamente, alle parole conclusive di tutte le beatitudini: "rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieIi" (Matteo V, 12).
Il mio maestro, ed io, soli, salivamo entrambi; ed io pensai, mentre continuavo a camminare, di trarre profitto mediante le sue parole;
allora mi rivolsi a lui con questa domanda: « Che cosa volle dire l'anima del romagnolo Guido del Duca, accennando a "divieto" e "partecipazione" ? »
Dante si riferisce al verso 87 del canto precedente, dove Guido del Duca aveva ricordato l'amore degli uominì per i beni terreni.
Per cui egIi: « Ora conosce gli effetti dannosi del suo peccato principale (di sua maggior magagna, cioè l'invidia); e perciò non sia motivo di meraviglia se egli rimprovera gli uomini affinché ne possano piangere dì meno le conseguenze.
L'invidia vi fa sospirare, perché i vostri desideri si rivolgono verso i beni terreni dove per il fatto che altri vi parteciparlo diminuisce la parte che tocca a ciascuno.
Ma se l'amore dei beni spirituali piegasse verso l'alto i vostri desideri, nel vostro cuore non vi sarebbe quel timore (di essere privati dagli altri di una parte dei vostri beni materiali),
poiché, in paradiso, quanto più numerosi sono coloro che posseggono il bene comune (per quanti si dice più... "nostro": quanto più numerosi sono coloro che dicono "nostro"), tanta più grande è la quantità di bene che possiede ciascuno, e tanto più intenso è l'amore che arde in quella comunità ».
« Sono più insoddisfatto » risposi, « di quanto sarei se prima avessi taciuto, perché la mia mente ha ora dubbi più grandi.
Come può avvenire che un bene distribuito fra più possessori li renda possessori di una quantità più grande, che non se viene diviso fra pochi?»
Ed egli mi rispose: « Per il fatto che tu continui a tenere rivolta la mente solo ai beni terreni, raccogli solo tenebre dalla luce di verità delle mie parole.
Dio, quel bene infinito ed indicibile che è nei cieli, si concede prontamente all'anima che arde d'amore così come un raggio di sole corre verso un corpo capace di rifletterlo.
In questa terzina il pensiero, serbando intatto il suo arduo rigore, si traduce in accenti poetici che - per il fatto di esprimere verità estremamente complesse - nulla perdono della loro limpidità e del loro musicale fluire. La successione, nei due ultimi versi della terzina, dei verbi è, corre, vene adombra il mistero della carità. II Dio cristiano. non diversamente da quello di Aristotile, si definisce come Essere, ma, a differenza di quello teorizzato dal maestro di color che sanno, è un Essere che non rimane chiuso in una perfezione remota dal mondo e dall'agire nel mondo. L'essere del Dio cristiano è pienezza di amore, amore che trabocca in un atto di creazione e in un atto di redenzione, di sacrificio volto alla salvezza degli esseri creati. L'inclinarsi del Creatore verso le sue creature, il dono della sua sollecitudine - che nessuna considerazione razionale dimostra necessaria, ed è miracolo, Grazia - accordato alla fallibilità degli uomini, è espresso, nel secondo emistichio del verso 68, da un verbo (corre) che logicamente si contrappone all'è del primo emistichio. L'impeto di carità che si concreta nell'urgenza di questo "correre" si colora, nel vene del verso successivo, di una spiritualità intima e raccolta, scevra ormai del trepidare dell'ansia, irriducibile ad un agire materiale, pacificata in un presagio di fede (la reminiscenza scritturale è, nella scelta di questo termine, evidente).
Tanto più si concede quanto più grande è l'ardore (dell'anima verso di Lui); così che, nella misura in cui l'amore si dispiega nell'anima, cresce sopra di essa la luce divina.
E quanto più numerosi sono coloro che in paradiso si amano, tanto più si crea la possibilità di un santo amore, e tanto più si amano tra di loro, e l'uno riflette sull'altro la luce ricevuta da Dio come uno specchio.
E se il mio ragionamento non ti soddisfa vedrai Beatrice, ed ella scioglierà completamente questo e qualsiasi altro dubbio.
Cerca in ogni modo che ti siano presto cancellati, come lo sono già stati i primi due, i cinque segni. che si rimarginano solo con il dolore del pentimento ».
In questo secondo discorso di Virgilio il tema della fertilità inesauribile dei beni spirituali, affrontato con una certa secchezza - fino al lirico lievitare di esso nel verso 57 - nella prima spiegazione impartita al discepolo, emerge ad una pienezza di canto; entro una prospettiva di verità che ormai hanno trasceso, nel fervore dell'ascesi intellettuale, il motivo occasionale che ha dato l'avvio al dialogo (che volse dir lo sputo di Romagna...). Osserva in proposito il Marti: "La poetica sensazione di mobile luce e di ardore, con la quale felicemente si chiudono le prime terzine virgiliane (più di caritate arde in quel chiostro), ora diventa luce d'intelletto e calore di affetto, che tutto illuminano e riscaldano; da quel di vera luce tenebre dispicchi, al paragone com'a lucido corpo raggio vene; da quel tanto si dà quanto trova d'ardore all'altro paragone e come specchio d'uno all'altro rende; fino all'esortazione procaccia pur che tosto sieno spente... le cinque piaghe, dove le cinque piaghe (le cinque P, che ancor segnano la fronte di Dante) sono anch'esse viste in funzione di sensazione luminosa (spente). E parallelamente a questo accendersi di fantasia, la generica impersonalità della spera suprema e dei suoi abitatori (per quanti si dice più lì
"nostró') che è nei versi precedenti, si tramuta ora nella concretezza poetica di un infinito ed ineffabil beffe che corre ad amore, che si dà quanto trova d'ardore; il cui valore cresce quantunque carità si stende; e nella concretezza della gente che là su s'intende, ama cioè in reciprocità d'amore".
Nel momento in cui volevo dire "Mi hai persuaso", mi accorsi di essere giunto nell'altro girone, per cui il desiderio di vedere mi fece tacere.
Lì mi parve di essere improvvisamente rapito in estasi, e di vedere numerose persone raccolte in un tempio;
e (mi parve di vedere) una donna, sulla soglia che con il tenero atteggiamento di una madre diceva: «Figlio mio, perché hai agito tosi verso di noi ?
Ecco che tuo padre ed io, addolorati, ti stavamo cercando ». E non appena la voce a questo punto tacque: la prima visione scomparve.
II primo esempio di mansuetudine (la virtù contraria all'iracondia) è tratto da un passo del vangelo di Luca (Il, 41-50); in esso si narra che Gesù, ancora fanciullo, invece di seguire i genitori che da Gerusalemme ritornavano a Nazareth, si recò nel tempio a discutere coi dottori, e lì fu ritrovato, dopo tre giorni, da Maria e Giuseppe e rimproverato dalla madre. Nota il Porena come le parole della Vergine, che nel testo evangelico "si presterebbero anche a una intonazione alquanto sostenuta di sia pur calma severità", esprimono qui soltanto l'accorato affetto di una madre per il proprio figlio. Dante mitiga e sfuma di trepidazione il rimprovero evangelico, qualificando il vocativo del testo del passo di Luca ("figlio") con il possessivo mio e dando ad esso una forma più intima e familiare (figliuol). Della Vergine, in questa visione intesa a proporre un esempio di mansuetudine, è posto in luce il solo lato umano (una donna... con atto dolce di madre), il dolore che in esso è contenuto, e l'accettazione di questo dolore. Tutto questo risulta. oltre che dai singoli particolari, dal respiro stesso di questa terzina, dalla sospesa cadenza dei perìodi. Ogni particolare appare sfumato in questa visione; ogni circostanza più precisa di tempi o luoghi è abolita, ogni forma di determinazione - in quanto superflua al proporsi universale
dell'esempìo - è volutamente ignorata. La cornice in cui la scena si inquadra è, genericamente, un tempio, lo sfondo di essa è rappresentato da una folla indifferenziata, più persone, in primo piano spicca una donna, il cui sentire ed atteggiarsi è riportato a quanto di più intimo, nell'essere della donna, è dato ritrovare, a ciò che quest'essere più da vicino ed esaurientemente definisce: il sentimento materno. Ma dove l'indeterminatezza raggiunge il suo grado più alto, riuscendo al contempo ad una cortissima intensità di espressione, è nel così, rilevato dalla cesura che lo isola fortemente, del verso 90. Questo semplice avverbio esprime una ricchezza ed una combattuta complessità di sentimenti risolti in perdono, in tenerezza permeata di mestizia, in gioia che partecipa nel profondo della positività del dolore.
Poi mi apparve un'altra donna con il volto rigato dalle lagrime che il dolore suscita quando (nell'animo) nasce un grande sdegno verso gli altri,
e diceva: « Se tu sei signore della città per il cui nome gli dei gareggiarono accanitamente tra loro, e dalla quale risplende nel mondo ogni scienza,
vendicati, o Pisistrato, di quelle braccia che osarono stringere nostra figlia». E vedevo il sovrano, benevolo e mite,
risponderle con volto atteggiato a moderazione: «Che cosa faremo a chi desidera il nostro male, se condanniamo chi ci ama? »
Dante ricorda un episodio narrato dallo storico romano Valerio Massimo (Facta et dicta memorabilia V, 1, 2) a proposito di Pisistrato, tiranno di Atene nel VI secolo a. C. Un giovane, innamorato della figlia di Pisistrato, osò abbracciarla in pubblico, suscitando lo sdegno della moglie del tiranno, che ne chiese la punizione.
Il nome Atene fu dato alla città dopo una gara tra Nettuno e Pallade Atena vinta dalla dea (cfr. Ovidio - Metamorfosi VI, versi 70 sgg.) ; la grandezza della città, nel campo delle arti e delle scienze, da Dante ricordata nel verso 99, è esaltata da scrittori latini e medievali.
La seconda visione è priva del sentimento di dolore, riscattato nell'intimo dalla fede, che caratterizza i due episodi tra i quali è inserita. Desunto dalla tradizione classica, più che un esempio di mansuetudine, lo diremmo un esempio di equanimità, di serena valutazione delle cose. La compostezza classica di questo secondo esempio di mansuetudine si traduce in una calcolata bipartizione di esso: al modello del male, reso plasticamente nel pianto della moglie, fa riscontro il viso temperato del benigno e mite Pisistrato. Anche qui, non meno che nel quadro precedente, ogni insorgenza di acuminato realismo appare smussata, ma, mentre nella scena che aveva per protagonista la Vergine la traduzione dell'episodio in un clima fermo di favola conferiva ad esso una sostanziale drammaticità, qui la narrazione si distende, piana, nelle cadenze di un ritmo misurato: i singoli termitai non si isolano in una serie di attonite o dolenti sospensioni, ma sapientemente si dispongono nel fluire di un pensiero generico ed in certa misura ad essi preordinato.
Poi vidi un gruppo di persone accecate dall'ira che lapidavano un giovanetto, gridandosi forte, reciprocamente: «.Uccidi, uccidí! »
E lo vedevo accasciarsi, per la morte che già gli era sopra a terra, ma teneva gli occhi sempre aperti verso il cielo,
pregando Dio, in tanta sofferenza, di perdonare ai suoi persecutori, con quell'atteggiamento che suscita la pietà.
La visione del terzo esempio rappresenta la lapidazione di Santo Stefano; il primo martire della fede, ucciso dai Giudei. (Atti degli Apostoli VII, 54-60).
La figura di Santo Stefano, contro lo sfondo di una umanità imbestiata, ebbra di sanguinario furore, vorticante, con la cieca irrevocabilità di un fenomeno naturale, verso Il supplizio di un innocente, si sublima in una dimensione di valori che trascendono il mondo e dal mondo non sono compresi: la dimensione del perdono, del sacrificio che redime anche coloro che lo deridono, della carità incommensurabile in rapporto ai criteri della umana giustizia. Il "giusto mezzo" proposto dall'esempio di Pisistrato, principio regolatore di tutte le manifestazioni della civiltà classica, ideale risolventesi in forme chiuse ed armoniche, è qui trasceso in un'ansia d'infinito, in un verticale insorgere dello spirito nel momento in cui l'elemento fragile che in terra lo esprime sta per dissolversi. Penetrante e sicura è l'analisi che il Porena ha fatto di questo episodio: "Notate nella prima terzina: il pietoso contrasto fra quel giovinetto, idea e parola tenera, e quella calca di concetti forti e violenti da cui è circondato; genti, accese, foco, ira, pietre; ancider, forte, gridando, martira. Nella seconda terzina, un altro. meraviglioso contrasto, nella figura del giovinetto, tra la materia, che ubbidisce alla necessità della legge fisica, e, prossima alla morte, diviene peso bruto che si aggrava a terra; e l'anima, sempre desta e alacre nell'occhio sollevato e spalancato alla visione del cielo: E lui vedea chinarsi, per la morte che l'aggravava già, inver la terra (verso portentoso di pesantezza plumbea) ma degli occhi facea sempre al ciel porte: è addirittura una irruzione di cielo in quel corpo pesto e sanguinoso che sta per tornar terra, alla terra. Finalmente, nell'ultima terzina, ecco il motivo essenziale: la esemplare mansuetudine, in contrapposto al peccato dell'ira".
Quando la mia anima ritornò a percepire le cose che fuori di essa hanno una loro realtà, compresi che le visioni erano irreali (errori: cioè non esistenti di per sé), ma effettivamente viste.
La mia guida, che mi poteva vedere nello stesso atteggiamento di un uomo che si scioglie dal sonno, disse; « Che hai che non puoi reggerti bene,
ma per più di mezza lega hai camminato con gli occhi semichiusi e con le gambe quasi legate, come un uomo vinto dal vino o dal sonno? »
« O dolce Virgilio, se tu mi presti ascolto, io ti descriverò » dissi ,«ciò che. mi apparve quando mi fu a quel modo tolto l'uso normale delle gambe. »
Ed egli: « Anche se tu avessi il volto celato da cento maschere, i tuoi pensieri, per quanto piccoli, non mi resterebbero nascosti.
Le visioni apparvero affinché tu non rifiuti di aprire il tuo cuore al sentimento di mansuetudine che sgorga dalla fonte eterna di Dio.
Non, ho chiesto "Che cos'hai" per la ragione per la quale lo domanda colui che, quando un altro giace col corpo privo di forze, vede solo con l'occhio materiale (l'occhio che non vede, cioè l'occhio capace di cogliere solo gli aspetti esteriori, ma non quelli interiori, delle cose e che; in questo caso, non può capire il motivo per cui il corpo è disanìmato);
ma ho fatto quella domanda per spronare il tuo piede: così è necessario stimolare i pigri, che sono lenti a riprendere la loro attività quando essa (dopo un periodo di sonno o di smarrimento) ritorna ».
Dopo l'ampio e vitale respiro della spiegazione sulla qualità - suggerita per via di analogie ma destinata a rimanere mistero per una ragione chiusa al trascendente - dei beni spirituali, dopo il folgorare, nella mente del discepolo, degli esempi di mansuetudine, Virgilio riprende il suo abito consueto di pedagogo. Il suo linguaggio sale di tono, diventa qua e là nobilmente paludato (ad opera di latinismi come larve... cogitazion... parve, di un elaborato giro perifrastico come quello dei versi 133-135, di un'altra perifrasi, di intonazione evangelica - Tacque della pace - ma piegata al ritmo di un ferreo argomentare) e si conclude con una massima di sapore proverbiale. II sole volge al tramonto ed anche la luce intellettuale che il maestro ha irradiato con la sua parola sembra piegare verso un temporanea punto di sosta, un ragionare di minore impegno, un insegnamento più umile, che una ferma sentenza suggella.
Noi procedevamo nella sera, intenti a guardare davanti a noi per quanto potevano spingersi lontano i nostri occhi che avevano di fronte gli ultimi ma luminosi raggi del sole.
Ed ecco avvicinarsi a noi a poco a poco un fumo scuro come la notte; e non c'era un luogo dove ripararsida quello:
questo fumo ci tolse la vista delle cose e l'aria pura.
Questo canto eminentemente dialogico si chiude su una nota di raccoglimento e di silenzio. Il mistero della sacra montagna (un fummo farsi), lo spazio che il sole occiduo sembra dilatare a perdita d'occhio impongono una pausa al travagliato proporsi, in termini di ragione, del motivo della purificazione e
dell'ascesa.
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