Paradiso: canto XXII
Beatrice spiega al suo discepolo che il grido innalzato
dalle anime del cielo di Saturno dopo l’invettiva di San Pier Damiano era
una preghiera per invocare la punizione divina sulla corruzione della
Chiesa e lo invita a rivolgere di nuovo la sua attenzione ai beati della
settima sfera. Uno di essi, San Benedetto da Norcia, il fondatore del
monachesimo occidentale nel VI secolo, dopo aver ricordato la famosa
abbazia di Montecassino da lui fondata, indica a Dante le anime di due
monaci, Macario e Romualdo. Allorché il Poeta chiede a San Benedetto di
poterlo vedere nella sua figura umana, che ora è velata dalla luce che la
circonda, il beato risponde che ciò sarà possibile solo nell’Empireo, dove
tutti i desideri potranno essere appagati. Inizia poi - da parte del santo
monaco - una fiera invettiva contro la corruzione dei suoi seguaci, che
hanno abbandonato la pratica della regola benedettina.Dopo che i beati del
cielo di Saturno sono ascesi, in un vortice di luce, all’Empireo, Beatrice
spinge Dante a salire la scala sulla quale erano apparse le anime
contemplanti. I due pellegrini entrano così nell’ottavo cielo, quello
delle stelle fisse, e si fermano nella costellazione dei Gemelli, sotto il
cui influsso Dante è nato. Invocata la protezione di queste gloriose
stelle per il difficile compito che lo attende (rappresentare la visione
finale del paradiso), Dante, per esortazione di Beatrice, volge lo sguardo
verso il basso, allo scopo di misurare il cammino fin qui compiuto. Gli
appaiono così sette pianeti e, in fondo, poco più grande d’ un punto, la
terra.
Introduzione critica
L’invettiva di Pier Damiano contro la degenerazione della
Chiesa non è sembrata sufficiente a Dante, il quale non esita mai a
ritornare su uno stesso tema, qualora lo ritenga essenziale per i destini
dell’umanità, sviluppandolo con invenzioni narrative, descrittive,
dialogiche che eliminano ogni pericolo di ripetizione e di monotonia.Nella
terza cantica i problemi della Chiesa costituiscono certamente uno dei
nuclei più importanti e più vitali della meditazione di Dante. Alla base
di tutta la Commedia è la consapevolezza che la vita del credente è nella
vita della Chiesa, è partecipazione ad un destino comune che si svolge nel
cammino di tutta la città terrena verso il regno di Dio: la fede di Dante
è di ordine sociale e si riflette nell’interesse del singolo individuo per
la salvezza di tutta l’umanità. Tuttavia la Chiesa nella sua storia, nella
sua drammatica vicenda terrena, nell’eroismo o nella bassezza dei suoi
rappresentanti è entrata come protagonista solo negli ultimi canti del
Purgatorio attraverso la grandiosa processione del paradiso terrestre, nel
momento in cui (si noti l’importanza di questo fatto) Beatrice riappariva,
come "figura" di Cristo, agli occhi del Poeta. Ma là la realtà della
Chiesa era espressa in movimenti e forme simbolici (l’albero, il carro, il
grifone ecc.), e tali essi rimanevano, pur nella loro ricca e vibrante
drammaticità: quanto il pellegrino ha contemplato sulla montagna del
purgatorio è stata una rapida visione allegorica delle cadute e delle
altezze della Chiesa; quanto il pellegrino contempla attraverso i cieli
paradisiaci sono i problemi essenziali della Chiesa, il suo modo di essere
sulla terra, il suo modo di procedere verso il mondo sovrannaturale, il
suo modo di agire, come società divina, attraverso poveri, peccatori
rappresentanti. Tale contemplazione si traduce in un’alta, accorata,
insistente protesta contro le deviazioni morali della sposa di Cristo.Il
Getto ha puntualizzato con molta chiarezza la prospettiva nella quale
Dante vede la Chiesa, osservando che " non è la Chiesa corpo mistico di
Cristo, che occupa l’orizzonte speculativo e fantastico del Poeta. Questa
ariosa prospettiva teologica, che aveva avuto in San Paolo il suo grande
celebratore, rimane estranea alla poesia di Dante. Per lui la Chiesa è la
Chiesa visibile, la Chiesa gerarchica... insomma il pathos delle somme
chiavi quello che soprattutto commuove l’animo del Poeta...". Tutto ciò
significa, in altre parole, la presenza continua, nell’alto dei cieli,
dell’attualità terrena. Essa, nel canto XXII, si estrinseca, oltre che
nell’invettiva di San Benedetto, nel comportamento stesso del grande
fondatore del monachesimo occidentale e nella visione finale dell’aiuola
che ci fa tanto feroci.Anche la figura di San Benedetto, come quella di
San Pier Damiano, lungi dall’essere ridotta a mero simbolo di quella che
dovrebbe essere, secondo Dante, la vera vita del cristiano (sintetizzata
nella formula benedettina ora et labora), è lucidamente individuata dal
Poeta: pur avvolto nello splendore abbagliante della sua luce, ci appare
ancora la figura tutta pervasa di sollecitudine vigile, comprensiva,
soccorrevole dell’abate benedettino, quale si riflette nei settantatre
capitoli della sua Regola. E mentre la dura figura del cardinale Pier
Damiano continuava anche nel cielo la sua fiera battaglia per la riforma
della Chiesa e, come nei suoi scritti, inveiva contro la corruzione e il
fasto insolente del clero, sognando di restituire alla Chiesa la primitiva
purezza, lo sguardo di San Benedetto si volge, con accorato dolore, ai
suoi monaci che stanno soccombendo nella lotta contro i falsi beni del
mondo. Anche quando il tono della sua voce sembra farsi violento (versi
76-84), il suo rimprovero non sale alla satira e al sarcasmo, ma " si
tiene nel tono di un rammarico, in cui, se è vibrato il disgusto,
manifesto è anche il dolore di veder dispregiato ciò che egli ama e sentir
dispersa la gioia delle anime infiammate dello stesso ideale e premiate
della stessa beatitudine" (Chiari). Per questo egli non invoca la vendetta
divina, ma il soccorso misericordioso (versi 94-96): in questa ultima
terzina, oltre che nella terzina 85, è tutta la diversa tonalità
spirituale dell’invettiva di San Benedetto rispetto a quella di San Pier
Damiano. Dopo le aspre immagini dei versi 76-84 l’ira e lo sdegno non
continuano, trattenuti dalla dolorosa constatazione che le lusinghe della
carne sono una comune sventura. E’ lo stesso accento con il quale Dante ha
confessato a Beatrice di essersi lasciato trascinare dalle presenti cose
col falso lor piacer (Purgatorio XXXI, 34-35), o ha invocato le preghiere
dei beati per il mondo sviato (Paradiso XVIII, 124-126) o piangerà le
passioni umane (Paradiso XXVII, 121-123). Questi versi perdono ogni
durezza di suono, ogni violenza d’immagine, mentre la chiarezza dello
sguardo si accompagna, nei versi 85-87, ad un certo abbandono ritmico, ad
un’accorata cadenza che non giudica e non colpisce. Se la partecipazione
di tutti i beati del settimo cielo all’invocazione di Pier Damiano ha
confortato l’animo con l’annuncio della prossima liberazione della terra
dal male, l’attesa dell’Empireo (versi 61-67) e la visione della scala che
varca gli spazi per proiettarsi in Dio (versi 68-69), lo rassicurano
sull’approssimarsi della catarsi. Infine una biblica ascensione riporta
all’Empireo le anime dei contemplanti che erano discese incontro a Dante,
ricostituendo la coralità del Paradiso dopo i due momenti individuali di
Pier Damiano e di Benedetto: "questa folata di beati - conclude il
Momigliano - che prorompe verso l’Empireo, disegnata con una travolgente
precisione di parola, è come un impetuoso preludio alla grandiosa azione
scenica del canto XXIII".
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