Paradiso: canto XXIII
Rivolta verso la parte orientale del cielo, Beatrice si
prepara ad assistere allo spettacolo del trionfo di Cristo e dei santi del
paradiso. La figura di Cristo appare come un sole dalla luce sfolgorante
che illumina sotto di sé migliaia di altri splendori, i beati. Abbagliato
da questa visione, il Poeta cade in un mistico rapimento, dal quale lo
riscuote Beatrice per invitarlo a guardarla in tutto il fulgore della sua
bellezza: ormai le forze visive ed intellettuali di Dante ne possiedono la
capacità. La bellezza di Beatrice è così grande che il Poeta, ancora una
volta, è costretto a procedere oltre senza descriverla. Esortato dalla
donna amata Dante distoglie il suo sguardo da lei per volgerlo allo
spettacolo che gli presenta l’ottavo cielo. Appare così la figura della
Vergine Maria, circondata dagli apostoli. Mentre Cristo risale verso
I’Empireo per non abbagliare ancora la vista di Dante, una luce discende
dall’alto per disporsi, in forma di cerchio, intorno alla Vergine. E’
l’arcangelo Gabriele, che innalza un inno di lode a Maria, imitato subito
da tutti i beati. In un secondo momento anche la Vergine, seguendo il
Figlio, ascende all’Empireo, mentre la luce dei singoli beati si protende
verso l’alto, quasi volesse seguire la rosa in che il verbo divino carne
si fece. Il canto del "Regina coeli" chiude quest’ultima visione.
Introduzione critica
Secondo il Momigliano, a partire dai colloqui con
Cacciaguida fino al termine del canto XXVII, ci troviamo di fronte a una
serie di ben coordinati motivi (celebrazione della giustizia nel cielo di
Giove, salita nella costellazione dei Gemelli, visione del trionfo di
Cristo, della Vergine, dei beati e triplice esame sulle virtù teologali)
che mirano alla celebrazione dell’ascesa che ha sollevato il pellegrino
sulle miserie della terra e alla consacrazione della sua dignità a salire
alla presenza di Dio. Tuttavia il centro di questo ampio giro di scene e
di avvenimenti è il canto XXIII, nel quale la consacrazione di Dante è
resa mirabilmente solenne dal trionfo di Cristo e di Maria alla presenza
di tutte le schiere del paradiso. Questo momento particolarissimo della
vicenda spirituale del Poeta non può non richiamare, per complessità di
motivi, per altezza e sincerità d’intonazione, un altro momento,
ugualmente importante, ugualmente decisivo: quando, nel paradiso
terrestre, Beatrice rivolge a Dante l’aspro rimprovero per il suo passato
traviamento e Dante, riconosciutosi colpevole, ottiene, alla presenza
della Chiesa trionfante, il perdono definitivo e quindi la possibilità di
accedere alla gloria celeste.Orchestrato sullo spettacolo che si rivela a
Dante nel cielo ottavo, il canto XXIII ha uno sviluppo prevalentemente
visivo (quasi una mistica scenografia), nel quale si traduce l’esperienza
dell’anima che, opposta alla visione di Cristo, della Vergine, di tutti i
beati del paradiso, sperimenta il suo trasalire e il suo venir meno
davanti all’ineffabile. All’intensità di queste emozioni fa riscontro, nel
Poeta, una stupefatta e smarrita adorazione (versi 42-45; 58-60) e una
momentanea rinuncia a qualsiasi volontà espressiva (versi 61-63). A
proposito di quest’ultimo fatto si impone un rilievo necessario: le
proteste d’impotenza descrittiva da parte del Poeta non sono semplici modi
retorici, o, come vorrebbe il Croce, inutili "iperboli negative", ma si
caricano di un profondo valore emotivo - gioia e ansia dell’inesprimibile,
sgomento della parola che non dice - e culturale. Infatti alle spalle di
queste espressioni c’è tutta una "mistica negativa" che, a partire da San
Paolo, attraverso la patristica latina (ad esempio Sant’Agostino) e quella
greca (ad esempio lo Pseudo-Dionigi l’Areopagita) fino al mondo
medioevale, testimonia questo atteggiamento particolare del cuore e
dell’intelletto: di Dio si può parlare solo per via indiretta, attraverso
il riconoscimento dell’impossibilità di parlarne. Tale riconoscimento,
tuttavia, non comporta, per Dante, una rinuncia assoluta e definitiva,
bensì uno sforzo "epico" per conferire una voce, e una voce poetica, a una
sovrumana esperienza della propria anima. Per ottenere questo risultato
Dante - e lo svolgimento del canto XXIII lo dimostra ampiamente - aveva a
sua disposizione un ricco linguaggio metaforico e analogico, anche questo
collaudato da una lunga tradizione di mistici e teologi. Il momento in cui
l’anima "s’india" nella gloria è cantato - spiega il Getto - "attraverso
un perpetuo soccorso di simboli, i quali, lungi da ogni artificiale e
intellettualistico allegorismo e sull’autorizzazione delle spontanee
metafore della teologia e della mistica, si muovono lungo un’ideale
tastiera che va dalle spirituali emozioni relative alla vita
dell’intelligenza, alle verità corporee delle figure della luce e del
cielo, dei fiori e delle più pure parvenze della terra, ai sensi
fantastici della musica e della bellezza, del moto e dell’abisso". Per
questo non è possibile definire il canto XXIII solo suggestivo e
paesistico come può sembrare a critici di sensibilità crepuscolare, poiché
ogni immagine è rigorosamente pensata e costruita. Per il Vossler, ad
esempio, il trionfo di Cristo sarebbe simile ad un suggestivo e tempestoso
fenomeno naturale, che ha la solennità di una cerimonia sacra, " una festa
vertiginosa di luci, di voci, di melodie, di quadri e di pensieri che nei
rapidissimi mutamenti non riescono ad attuarsi in forma, una magica
fantasmagoria che si può dichiarare in parole, ma non descrivere né farne
altri partecipi". Per controbattere tale posizione, basti pensare che per
due volte la rappresentazione di Cristo trionfante è resa perspicua
mediante la spiritualizzazione di fenomeni naturali (quale ne’ pleniluni
sereni... come a raggio di sol che puro mai), il secondo dei quali appare
legato ad una osservazione fin troppo attenta e precisa, freddamente
analitica. Ma proprio in questi due momenti il Poeta corona il suo sforzo
di comunicare, se non una diffusa rappresentazione dell’ineffabile, almeno
l’eco, la vibrazione sentimentale che esso suscita nell’animo. Il
sentimento che accompagna Dante in questo canto è un’ebbrezza di godimento
e di gioia, una gioia fisica e spirituale nello stesso tempo, di fronte a
quanto con la battaglia de’ debili cigli egli può osservare e con
l’entusiasmo della sua anima può gustare. Secondo il Croce questa luce e
questa gioia che il Poeta vorrebbe pensare e rappresentare sono così pure,
perfette e sante, così assolute, che si convertono in astrattezza e, come
tali, non possono né essere pensate né essere rappresentate. A questa
affermazione, che non solo impedisce di afferrare la profonda poesia del
canto XXIII, ma preclude la comprensione di tutto il Paradiso, ha risposto
egregiamente il Santini: "la luce che illumina il canto non è puro simbolo
come altrove. Essa va dal dolce crepuscolo dell’alba e di pleniluni sereni
in una notte tempestosa di stelle al fulgore di migliaia di lucerne, al
raggio luminosissimo che piove dall’alto, a infiammati candori in immenso
armonico disegno dipinto dalla fantasia del Poeta. Se la vista se ne
abbaglia, se trema l’omero di Dante sotto il poderoso tema, nulla sen
perde dell’effusione di gaudio, che sa valorizzare con arte sovrana dolci
ricordi terreni, luci di finestre a rosa di cattedrali gotiche, ampie
fiorite primaverili e quanto di più luminoso e prezioso v’ha nell’aiuola
terrena".
|