Inferno: canto XIV
Dopo aver radunato le fronde
intorno al cespuglio del suo concittadino, Dante giunge insieme a
Virgilio, sul limitare del terzo girone. In questa parte del settimo
cerchio una lenta, inesorabile pioggia di fiamme si riversa sopra una
distesa di sabbia infuocata. Tre gruppi di anime soggiacciono a tre
diversi tormenti: i bestemmiatori, violenti contro Dio, supini, espongono
tutto il loro corpo al fuoco che cade; gli usurai, violenti contro l’arte,
stanno seduti, i sodomiti, violenti contro natura, devono camminare senza
tregua. I bestemmiatori sono i meno numerosi, ma i loro lamenti
soverchíano quelli degli altri.
Fra loro spicca una figura
gigantesca, che sembra incurante del castigo divino. E’ Capaneo, uno dei
sette re che assediarono Tebe, ucciso per la sua empietà dalla folgore di
Giove. Egli non ha perduto la sua arroganza e sfida, deridendolo, il
signore dell’Olimpo a colpirlo ancora una volta con le armi forgiate da
Vulcano e dal Ciclopi, ma Virgilio to redarguisce duramente.
I due poeti proseguono il
loro cammino finché arrivano nel punto in cui dalla selva dei suicidi esce
un fiumicello rosso e bollente. I fiumi infernali hanno la loro origine -
spiega Virgilio - in terra. In mezzo al Mediterraneo c’è un’isola, un
tempo ricca di vegetazione e felice, ora deserta: Creta. Ivi, in una
grotta all’interno del monte Ida, c’è l’enorme statua di un vecchio, che
volge le spalle all’Egitto e tiene lo sguardo fisso in direzione di Roma.
La sua testa è d’oro, il petto d’argento, il ventre di rame, le gambe di
ferro, il piede destro, sul quale il simulacro poggia, di terracotta.
All’infuori del capo, ogni altra parte della statua presenta fessure dalle
quali sgorgano lagrime. Il pianto di questa statua forma i fiumi infernali
e lo stagno Cocito.
Il canto si conclude con i
chiarimenti che Virgilio dà al discepolo sull’ubicazione del Flegetonte,
il fiume di sangue che occupa il primo girone e dal quale il fiumicello
deriva, prendendone anche il nome, e del Letè, il fiume dell’oblio, le cui
acque bagnano il paradiso terrestre, in cima al monte del
purgatorio.
Introduzione critica
Tre sono i motivi
fondamentali del canto: quello della ribellione del bestemmiatore
(Capaneo), quello del pianto dell’umanità colpevole che forma i fiumi
infernali (il Veglio di Creta), quello, paesistico, della pioggia di
fuoco, che fa da sfondo agli altri due.
Il motivo del paesaggio
inumano è incominciato non appena i due poeti hanno varcato la soglia di
Dite. Fin lì la natura era stata quella terrestre, ma proiettata nello
smisurato.
Era quasi un’immagine visiva
del loro peccato quella che, attraverso forme elementari di contrappasso,
puniva gli incontinenti: fenomeni atmosferici (lussuriosi e golosi),
ineluttabilità insita nel ripetersi di uno stesso movimento (avari e
prodighi) e, per contrapposto, la stasi assoluta di una palude (iracondi).
Ma già nella città delle arche la presenza del peccato è inscindibile dal
paesaggio: la natura vi appare umanizzata, ma in senso negativo; non è più
soltanto natura terribile, manifestazione di una potenza superiore
all’uomo, ma giusta. Corrotta nel suo intimo dal male, la natura è qui al
tempo stesso strumento della giustizia divina, espressione diretta della
colpa: la terra è crivellata di sepolcri, impura, contaminata dalla
presenza nel suo grembo degli eretici; il fuoco fa la sua prima comparsa,
emblema di una catarsi che afferma, al di là della morte, la perenne vita
dello spirito. Il dato naturale (la pianura) non è qui determinante; il
paesaggio assume un significato soltanto per l’inclusione in esso del dato
umano (le tombe). Questo, a sua volta, è come riassorbito nella
manifestazione terribile dell’ira divina (il fuoco). Considerazioni
analoghe possono farsi per il paesaggio nei tre gironi del cerchio dei
violenti. Non l’acqua, come nell’alto inferno, riempie il letto del
Flegetonte: è il sangue, principio di vita, che infuria su coloro che lo
hanno versato, mentre nella selva dei suicidi le forme della vita appaiono
come svuotate di linfa, ripiegate su se stesse, chiuse al futuro. La
contraddizione che il male introduce nell’universo non è più qui un
rapporto fra due dati in opposizione reciproca (l’umanità peccatrice da un
lato, la natura, manifestazione del Dio vindice, dall’altro): le piante
aride e contorte sono esse stesse i peccatori. La natura appare stravolta,
i principii dell’umana esperienza negati, anche nel terzo girone: il
fuoco, che abbiamo sempre veduto dirigersi verso l’alto (la stessa scienza
medievale riconosceva in esso il più leggiero e, simbolicamente, per lo
stretto legame che univa fisica e metafisica, il più spirituale degli
elementi), qui è attratto dalla forza di gravità, calamitato verso il
posto occupato da Lucifero. Possiamo misurare tutto il divario che corre
tra un peccato di incontinenza e un peccato di violenza, mettendo a
confronto la pioggia del cerchio dei golosi con quella che tormenta i
violenti contro Dio. Là il fenomeno atmosferico non è essenzialmente
diverso da quelli cui siamo avvezzi sulla terra, qui la
struttura
stessa del fenomeno
smentisce, sia in senso empirico sia in senso simbolico, la sua
manifestazione visibile: dall’alto, su una landa deserta, non scende il
principio della vita, ma quello della consunzione violenta.
E ancora: non possiamo
immaginare il fuoco altrimenti che animato da un movimento rapido,
insaziato, impaziente.
Qui, perché i dannati
possono soffrire non solo la pena che è in atto, ma anche quella che si
prepara a colpirli, la discesa del fuoco è lenta, maestosa,
riposata.
Per alcuni critici, la
contraddittorietà che caratterizza il paesaggio del canto quattordicesimo
è presente, ma con una sottolineatura comica, anche nel personaggio di
Capaneo. Nella figura di questo ribelle, sotto la suggestione di
un’analisi del De Sanctis, è stata riscontrata una divergenza tra forza
apparente e fiacchezza interiore, per cui Capaneo sarebbe soltanto un
vanaglorioso. In realtà, alla esatta interpretazione di questa figura
nuoce il parallelo che viene di solito istituito fra essa e Farinata.
Indubbiamente nel magnanimo eretico c’è una complessità di motiví che qui
manca: i suoi sentimenti si manifestano a poco a poco, dolorosamente
emergendo dalla compattezza del suo atteggiamento iniziale; c’è in essi un
pudore e un senso delle sfumature che sono del tutto ignoti al
bestemmiatore del settimo cerchio. Questo non autorizza tuttavia una
caratterizzazione negativa di Capanco. Dante lo ammira, pur condannandolo,
come si può ammirare lo spettacolo di una indomita forza della natura. In
Capaneo l’affermazione esclusiva e prepotente di sé non è né grottesca né
comica; riflette piuttosto quell’eroismo esuberante e ingenuo che spinge i
guerrieri omerici, o quelli che in una tragedia di Eschilo muovono
all’assalto di Tebe (e qualcosa dello spirito di Eschilo è indubbiamente
giunto sino a Dante attraverso Stazio), a vantare le proprie forze prima
di iniziare il duello con l’avversario.
Il terzo motivo del canto, è
quello dell’inesorabile decadimento dell’umanità attraverso le successive
fasi della sua storia.
Nella landa arroventata,
ecco d’improvviso un ruscello. Ma questo ruscello non è innocente, non ha
nulla della freschezza dei ruscelletti del Casentino, così amorevolmente
carezzati dalla parola di maestro Adamo nella decima bolgia (Inferno XXX,
64-69), né è destinato a portare la vita: due argini di pietra provvedono
ad impedire che le sue acque fecondino la sabbia.
E’ anch’esso un’immagine di
desolazione: convoglia nell’abisso del dolore il pianto dell’umanità
colpevole e infelice. L’acqua, nel deserto, non è stata un miraggio; ma si
è trattato di acqua inquinata, espressione di un morbo irriducibile, non
dell’acqua che lava i peccati e restituisce la vita. Nel precipitare di
roccia in roccia dei fiumi infernali il significato del pianto non può
essere che quello di un progressivo convertirsi del dolore nella
disperazione: il ghiaccio di Cocito è l’espressione ultima di questo
irrigidimento dello spirito.
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