Inferno: canto XV
Per evitare la pioggia di
fiamme i due pellegrini avanzano su uno degli argini del fiumicello che
attraversa il terzo girone e s’imbattono in una schiera di anime di
dannati, uno dei quali afferra Dante per il lembo della veste e manifesta
la propria meraviglia nel vederlo in quel luogo.
Il Poeta lo riconosce,
nonostante abbia il volto devastato dal fuoco: Brunetto Latini, il suo
maestro, che esprime il desiderio di affiancarsi a lui nel
cammino.
Nessuno, infatti, dei
violenti contro natura può interrompere il proprio andare: chi infrange
questa legge è poi condannato a giacere cento anni sotto la pioggia di
fuoco senza poter scuotere da sé le fiamme che lo colpiscono. Dante
continua pertanto a camminare sull’argine e riceve da Brunetto la
predizione della sorte che il futuro gli riserva: "Se rimani fedele ai
principii che hanno fin qui ispirato le tue azioni, la tua opera ti darà
la gloria ". Poi iI discorso cade su Firenze e la faziosità dei
Fiorentini, in massima parte discendenti dai rozzi abitanti di Fiesole,
avari, invidiosi, superbi.
Sia l’uno sia l’altro
Partito in cui la città è divisa - aggiunge Brunetto - cercherà di avere
Dante in suo potere, ma non riuscirà in questo intento. Il Poeta a sua
volta tesse l’elogio del suo maestro, dal quale ha appreso come l’uomo
ottiene gloria fra i posteri, e dichiara che questa profezia, come quella
di un altro spirito, Farinata, verrà sottoposta all’interpretazione di
Beatrice. Per il resto si dice pronto a far fronte ai colpi del destino.
Pregato dal Poeta, Brunetto nomina alcuni fra gli spiriti condannati alla
sua stessa pena, quindi si accommiata, raccomandandogli la sua opera
maggiore, il Tesoro, attraverso la quale sopravviverà nel ricordo degli
uomini.
Introduzione critica
Nel colloquio di Dante con
Ciacco il tema di Firenze si affaccia per la prima volta nella Commedia
accentrato intorno a quelli che ne saranno poi i motivi fondamentali: la
discordia fra i cittadini, il prevalere della faziosità sulla giustizia,
dell’affarismo sull’onestà sobria delle antiche generazioni. Ivi è
proposto anche il tema, ad esso complementare, del contrasto fra
valutazione " laica " della figura dell’uomo politico e valutazione del
credente. Da Ciacco Dante apprende che Farinata, il Tegghiaio, Jacopo
Rusticucci e gli altri Fiorentini che operarono per il bene della patria
si trovano tra l’anime più nere. Agli occhi di Dio l’uomo non si
identifica quindi con il cittadino: le sole virtù civiche sono
insufficienti a redimerlo. I
l tema politico si ripropone
nell’episodio di Farínata e in quello di Pier delle Vigne: uomini politici
entrambi, entrambi ghibellini, essi riscuotono l’ammirata approvazione del
Poeta per il disinteresse con cui hanno servito i loro ideali in terra, ma
lo lasciano dolorosamente perplesso a causa della loro insensibilità ai
valori proposti all’uomo da Dio.
Il tema politico e quello
del dissidio fra agire umano e sua insufficiente legittimazione
etico-religiosa culminano nei canti quindicesimo e sedicesimo
dell’Inferno. Qui la parola del Poeta investe in pieno gli eventi della
storia di Firenze che lo hanno veduto testimone e protagonista,
trasfigurandoli in una sorta di appassionata e simbolica autobiografia,
mentre propone, al tempo stesso, alla nostra meditazione il dolore dei
dannati, l’esempio di uomini illustri resi irriconoscibili dai segni della
collera divina.
Se infatti lo sfondo ideale,
nostalgico, lancinante nel ricordo, degli incontri di Dante con Brunetto
Latini e con alcuni dei più cospicui esponenti del partito guelfo
in
Firenze è Firenze stessa -
la terra prava che induce il Poeta ad esprimersi nei modi immaginosi e
solenni dei profeti d’Israele - lo sfondo reale, testimonianza
incontro-
vertibile della miseria di
queste grandi anime, è il sabbione infuocato, la pioggia sterile che le
percuote. Al motivo profetico e a quello della gloria terrena
dell’uomo
che s’etterna attraverso il
ben far e sopravvive oltre la morte, nella propria opera - sieti
raccomandato il mio Tesoro - si accompagna come costante sottinteso
quello
della colpa umana, che solo
la fede e il rispetto, ad essa conseguente, dell’ordine naturale, possono
riscattare.
I critici hanno variamente
cercato di interpretare la contraddizione, così stridente per noi nel
canto quindicesimo dell’Inferno, fra la condanna che Dante, in veste di
teologo e di moralista, infligge al suo vecchio maestro Brunetto Latini e
l’aureola di dignitosa fermezza di cui la sua poesia circonda questa
figura. Il Pézard, ad esempio, ha creduto di eliminare le ragioni del
nostro disagio avanzando addirittura l’ipotesi, sostenuta da una ricca
documentazione, che nel terzo girone le anime condannate a camminare
eternamente sotto la pioggia di fuoco non siano quelle dei sodomiti, ma
quelle dei "violenti contro le arti liberali". Altri, come il Pasquazi,
hanno cercato di cogliere il rapporto che legherebbe, nell’episodio di
Brunetto e in quello dei tre Fiorentini del canto successivo, lo splendore
delle virtù civili di queste anime al vizio che alimentarono in segreto. I
termini di questa contrapposizione sembrano inconciliabili, ma il Pasquazi
ritiene che, nella visione rigorosamente orientata verso la trascendenza
che fu quella del Poeta dopo il momento "laico" rappresentato dal Convivio
e dalla sua partecipazione alla vita politica di Firenze, "autosufficienza
civile e sodomia dovettero apparire a Dante come aspetti... di una
medesima realtà", in quanto espressioni, sia l’una che l’altra, del
peccato di superbia. "Proprio perché il suo viaggio doveva servire a
collocare lui nella verità, e ogni uomo con lui, era necessario che quel
fallace modo di virtù civile, di autosufficienza morale e di perfezione
culturale fosse condotto alle... forme del suo più profondo squallore,
della sua più significativa deformità. La superbia poteva piacergli; ma la
constatata riduzione della superbia alla sodomia lo doveva guarire." In
altre parole: al fondo del peccato dei grandi guelfi fiorentini che
incontra in questo girone, Dante intravede, portata all’assurdo e
rovesciata nel grottesco, la stessa sprezzante affermazione di
autosufficienza che aveva indotto Farinata nel peccato di
eresia.
Nella misura in cui
oltrepassano l’ambito delle interpretazioni tradizionali e ci suggeriscono
un modo più approfondito di interrogare il testo del poema, le tesi del
Pézard e del Pasquazi sono ricche d’interesse, ma non appaiono senz’altro
determinanti ai fini di un giudizio sulla poesia dei canti quindicesimo e
sedicesimo nel loro complesso, e dell’episodio di Brunetto Latini in
particolare. Essa, come ha rilevato il Bosco, consiste proprio "nel
contrasto tra l’austerità morale di Brunetto e la miseria del suo peccato,
tra la debolezza di cui questo è testimonianza, e la fortezza d’animo che
il suo discorso e quello tonalmente concorde del suo discepolo rivelano"
Brunetto Latini non è un personaggio complesso come Francesca o Farinata;
in lui questo contrasto si manifesta nei modi di un delicato riserbo,
senza mai prorompere in una formulazione esplicita. Dante ce lo presenta
come un maestro e con l’altro maestro, Virgilio, Brunetto ha in comune la
fondamentale mestízia, il tono elegiaco di chi, avendo sempre perseguito
la verità e il bene, sa di esserne rimasto lontano, non meno che la nobile
fermezza nell’additare al discepolo il doloroso cammino della rettitudine.
Ma, mentre nel personaggio di Virgilio questi sentimenti si caricano
sempre delle allusioni simboliche richieste dalla sua funzione di guida
razionale, in Brunetto essi sono rappresentati nella loro più viva
immediatezza. Lo splendore della profezia basata qui, più che negli
episodi di Ciacco e di Farinata, su un fitto intrecciarsi di metafore, non
riesce ad offuscare la cordiale familiarità, la nostalgia semplice delle
sue parole.
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