Paradiso: canto XII
Dopo che San Tommaso ha terminato
parlare, la corona di spiriti sapienti, della quale fa parte, riprende a
ruotare intorno a Dante e a Beatrice. Prima che essa abbia completato il
suo giro, sopraggiunge una seconda corona, che si dispone intorno alla
prima, accordandosi ad essa nel canto e nel movimento. Da questa nuova
ghirlanda, dopo che il canto e la danza sono cessati, si alza la voce del
francescano San Bonaventura, il quale inizia l’apoteosi di San Domenico,
l’altro grande riformatore della vita religiosa del secolo XII accanto a
San Francesco. San Bonaventura ricorda la nascita e i primi prodigi che
accompagnarono la vita di Domenico, il quale mostrò ben presto un ardente
amore verso Dio, amore che lo spinse ad approfondire sempre di più gli
studi filosofici e teologici per combattere le eresie che minacciavano
l’unità della Chiesa.Mentre San Tommaso, nel canto precedente, ha messo in
rilievo la corruzione diffusasi fra i seguaci di San Domenico, ora San
Bonaventura costata amaramente che l’ordine dei frati minori appare
tormentato da discordie e da lotte che gli fanno dimenticare lo scopo
primo per cui esso era stato fondato.San Bonaventura termina il suo
discorso ricordando i nomi dei dodici spiriti sapienti che si trovano con
lui nella seconda corona.
Introduzione critica
Il canto dodicesimo sembra disposto, a prima vista, con
un parallelismo rigido accanto all’undicesimo: il panegirico del fondatore
dei francescani è pronunciato, con un tratto di debita riverenza, da un
domenicano, ed il panegirico del fondatore dei domenicani è pronunciato da
un francescano, quasi per eliminare anche il sospetto di un eccesso di
lode; e come la reprimenda dei domenicani corrotti è fatta da uno di loro,
così la denuncia delle discordie francescane, specie quella che accende le
polemiche fra spirituali e conventuali, è proposta da un francescano. Ma
dall’osservazione generale e dal riscontro di un parallelismo reperibile
anche in altri punti non si deve scendere a concludere che in questi canti
la dottrina è volutamente predisposta alla poesia, né fare del poeta del
Paradiso un elaboratore accorto di schemi didattici e di cortesie
prammatiche.Fin dal primo entrare nel nuovo canto la poesia schiude
immagini di spazi sereni, di musica, di luce: l’epilogo del canto
precedente è stato posto come una lezione fra maestro e discepolo, a tu
per tu, con la raccomandazione di rimeditare, ma qui la corona degli
spiriti sapienti ha una fretta gioiosa di ricominciare la danza ed il
canto, con una compattezza di materia e di moto che lascia appena
spegnersi la parola sulla lingua di fiamma (gli spiriti attendono non che
taccia ma che prenda a dire l’ultima parola, tanto è il desiderio della
danza).La diversità del lessico e dei modi stilistici si può verificare
attraverso una lettura analitica comparativa: se il canto di Francesco
risulta estatico, pur nella robusta plastica di alcuni episodi, se si deve
pensarlo, come suggeriva il Pistelli, pronunciato a volto levato in una
zona paradisiaca invasa dalla luce, il canto di Domenico è dinamico, anzi
violento, come se in esso si riverberassero la durezza e l’implacabilità
delle lotte antieretiche del Santo e dei suoi seguaci, anche se non
accorriamo certo a condividere, antistoricamente, lo sdegno di taluni
moderni contro il fiero persecutore degli eretici: Dante, anche se
raccapriccia di umani corti già veduti accesi (Purgatorio XXVII, 18), è
troppo politicizzante e fiorentino per nutrire spiriti pacifici. E il
ritratto del santo atleta, militarmente amico degli amici e crudele con
gli avversari, fra la quiete luminosa della preghiera notturna che lo
inizia e l’immagine dell’orto irrigato che lo conclude, è tratteggiato in
forme che potremmo definire taglienti, con uno stile che richiama modi
della poesia e della pittura e della scultura iberiche. Tale ricchezza di
presentazione contraddice ancora una volta la tesi della strutturazione
dottrinale ed esortativa imposta ai due canti del dittico, e ci spiega
anche il lieto e ardito accendersi delle immagini (il mito di Iride,
quello della ninfa Eco, la stessa variante del patto che Dio con Noè pose,
e via trascorrendo per tante altre) e il ritmo del ritratto introdotto dal
soffio del vento d’Occidente, contrapposto sì alla luce d’Oriente del
canto di Francesco, ma per integrazione dialettica, non per inerte
contrasto di termini. Anche l’emblema gentilizio di Castiglia, inquartato
di leoni e di torri, si distende a coprire un gran tratto di territorio,
con un’immagine robusta che si ricollega alle altre del canto, dalle
quali, all’inizio, la menzione di Zefiro dolce e delle novelle fronde ci
aveva sviato.E’ significativo che il ritratto si componga, con qualche
incertezza, intorno alla deprecazione di chi strumentalizza gli studi,
tanto quelli di diritto canonico come quelli di medicina, allusi qui con
una indicazione generica (versi 82-83). Tuttavia la poesia drammatica
dantesca tocca i suoi vertici nel tema sinfoniale della primavera e della
forza torrentizia della predicazione. Meno, forse, nei temi evidentemente
attratti dal ritratto di Francesco, come le nozze di Domenico con la Fede,
al fonte del battesimo. Altri parallelismi, ora più ora meno fortunati,
sono la divina visione che irraggia sulla madrina di Domenico, da porre a
paragone con la luce di carità che irraggia dagli amanti francescani, e la
preghiera di Domenico fanciullo (versi 76-78) che tiene il posto che nel
canto di Francesco occupa il tema della Verna. Vuoi dire che, esaurita la
virtù suggestiva delle rispondenze, la composizione non riesce più a fare
coincidere sapienza strutturale e ispirazione poetica, almeno finché,
superato ancora una volta il tema moralistico, quando Domenico si rivolge
alla Chiesa e non chiede quello che chiedono tutti gli altri (dispensare o
due o tre per sei... la fortuna di prima vacante... decimas, quae sunt
pauperum Dei) si torna al tema della lotta (versi 95 sgg.), che è la
scoperta animatrice del ritratto. L’ultima parte del canto, debitamente
dedicata al rimprovero di cui si sono resi degni i francescani, insiste
sulla polemica fra le due fazioni ecclesiastiche dei seguaci di Ubertino
da Casale e dei seguaci di Matteo d’Acquasparta. Ma ad un’attenta analisi
critica non risulta quello che sostenne con tanto appassionato fervore un
grande dantista, Umberto Cosmo, che giustificava la poesia come
puntualizzazione di una situazione storica e schierava Dante fra gli
estremisti francescani. Invece il Poeta presenta una proposta
conciliativa, che non può stupire in chi "ha fatta parte per se stesso":
hanno torto gli uni e gli altri, afferma Dante. E su questa decisa presa
di posizione si chiude la parte principale del canto, il quale alla fine
presenta solo una frettolosa rassegna degli spiriti sapienti che
compongono la seconda ghirlanda.
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