Paradiso: canto XIII
Le due corone di spiriti sapienti
che sono apparse a Dante nel cielo del Sole compiono un giro di danza
intorno a lui e a Beatrice, elevando un inno di lode alla Trinità. Dopo
che esse hanno cessato il loro movimento e il loro canto, riprende a
parlare San Tommaso d’Aquino, il quale risolve il secondo dubbio di Dante,
relativo alle parole da lui pronunciate per presentare lo spirito beato di
Salomone: a veder tanto non surse il secondo (canto X, verso 114).Allorché
ha affermato che nessun altro uomo ha mai potuto uguagliare la sapienza di
Salomone, San Tommaso intendeva riferirsi alla saggezza di Salomone nel
guidare e governare secondo giustizia il suo popolo: egli, cioè, lo ha
considerato come re, non come uomo. Infatti solo in Adamo e in Cristo fu
infusa tutta la sapienza che la natura umana poteva possedere. Per meglio
chiarire la sua affermazione San Tommaso spiega che sono perfette solo le
creature generate da Dio direttamente (come appunto Adamo e Cristo), non
quelle che Dio produce attraverso le cause seconde, i cieli.Ancora
un’osservazione, prima di porre termine al suo discorso: coloro che si
stupiscono di veder salvo Salomone, dopo che nella Bibbia fu aspramente
rimproverato per i suoi peccati, commettono un grave errore, perché
pretendono di sostituirsi al giudizio di Dio. Gli uomini - conclude San
Tommaso - dovrebbero essere più cauti nel formulare giudizi sul loro
prossimo, perché essi vedono solo le azioni esteriori, mentre Dio conosce
ciò che è nascosto nel cuore di ognuno. Solo Lui, dunque, può decidere
della salvezza o della dannazione eterna delle sue creature.
Introduzione critica
Il prologo del canto tredicesimo aduna un vertiginoso
spazio celeste intorno al punto dov’io era: figure di sovrana altezza -
Cristo, Adamo, Salomone - vengono accostate, discusse, spiegate
nell’ambito di una commossa celebrazione della sapienza umana: non quella
volta a risolvere oziosi quesiti, ma quella intesa a governare secondo
giustizia i popoli. Anche l’indugio che Tommaso d’Aquino ha posto nel
rispondere al secondo dubbio di Dante (a veder tanto non sorse il secondo)
e il dittico dei due santi campioni della cristianità rinnovata hanno
ingrandito l’attesa e rendono più solenne la discussione. Questa, nella
sua conclusione, pur restringendo l’affermazione primitiva e riconoscendo
il primato di Salomone solo nell’ambito della saggezza regale, giunge però
ad una chiarificazione definitiva in un campo al quale Dante annette
un’importanza fondamentale. Infatti qui, nel fervore della ricerca
filosofica affidata alla grande autorità di San Tommaso, si rivela
l’urgenza e la costanza del pensiero politico di Dante: un pensiero che
egli svolge parallelamente alla sua azione politica, prima nella vita
cittadina di Firenze, poi, esule, alle mense ed alle corti dei principi,
poi negli anni della discesa di Arrigo VII, messo di Dio, e infine,
contemporaneamente alla composizione del poema, in vista della finale
concordia proposta nel trattato della Monarchia. E’ chiaro, dunque, che
questa è una tappa importante di quella meditazione intorno alla poesia
della "rettitudine" in cui Dante non ha mai cessato di impegnarsi dopo le
rime morali che l’iniziano e dopo i trattati conviviali, sino alla
Monarchia, il trattato politico che la chiude: ancora una volta, cioè,
Dante si propone come vate politico e per questa sua investitura egli ha
adunato le figure di Cristo, Adamo, Salomone e, sotto lo spazio infinito
dove le costellazioni disegnano i loro misteriosi emblemi, la triplice
corona degli spiriti sapienti. Lo spazio astrale delle stelle di prima
grandezza, dell’Orsa Maggiore, dell’Orsa Minore, della Corona d’Arianna è
insufficiente immagine della grandezza di questi beati che innalzano il
loro inno alla Trinità: mai la sapienza umana ha avuto così alta e
commossa celebrazione, e mai poeta ha osato chiamare i sapienti della
terra a testimonianza e garanzia delle sue affermazioni. La conclusione
cristiana del discorso dell’umana sapienza è confermata dal rifiuto della
liturgia delle divinità pagane: in cielo non si cantano né gli inni
dionisiaci né gli inni apollinei, ma la lode della Trinità.La lezione che
tratta il quesito della grandezza di Salomone è certo una delle meglio
compaginate e armonizzate del Paradiso: la tecnica dell’esposizione
didattica ha veramente, nella cultura mediolatina e, in particolare, in
Dante, più di un punto di somiglianza con la tecnica compositiva e
musicale della "canzone" (così il filosofo delle Summae è anche poeta
liturgico di rara potenza e suggestione, quando si voglia leggerlo
nell’ambito del suo tempo). La intersecano e la infiorano immagini fra le
più vive del Paradiso, culminanti nella splendida rappresentazione del
fiorire della rosa, quasi l’accendersi di una stella, sullo spinoso rigore
del pruno dopo la stagione d’inverno. Ed è una lezione di mirabile
chiarezza espositiva, continuamente sospinta e illuminata da un colmo,
fervido immaginare. San Tommaso avvia il discorso riallacciandosi alla
metafora dell’agricoltore, usata da San Bonaventura nel canto di Domenico,
e quasi dispone su uno stesso piano opere agricole e meditazione sapiente.
E quando accenna ad Adamo ed a Cristo, l’uso della perifrasi per evitare,
in segno d’onore, di nominarli apertarnente, si colma di accorte
rispondenze. Anche la pace trionfale della dimostrazione raggiunta e della
conciliazione profferta dove prima era il divario, è accompagnata da un
ricco fervore di commozione. Da un punto di vista strettamente estetico,
dunque, si può accertare mediante una rigorosa analisi dei valori verbali
e delle rispondenze limpide o arcane fra le idee e le immagini, che il
canto è uno dei più ricchi fra quelli che affrontano l’itinerario della
sapienza verso il possesso di Dio. A questo punto è necessaria un’altra
osservazione: nel cielo del Sole, dopo le figure di Francesco e di
Domenico, anche il ritratto di Tommaso, tracciato quasi nelle zone
luminose del discorso umbratile della ricerca filosofica, ha un suo posto,
dietro il quale, ovviamente, è da cogliere qualche prezioso suggerimento
autobiografico. La figura dell’Aquinate non è che l’autoritratto del poeta
e del filosofo Dante, nel quale il rigore del rapporto concettuale non si
lascia già vincere e sviare dall’accendersi della poesia, ma procura un
più dilatato ed armonioso processo dell’essere. Si capisce come, nel canto
seguente, tanta sapienza ed eloquente dottrina sia suggellata
dall’intervento di Beatrice - simbolo della teologia a cui sì cominciar,
dopo lui, piacque.Ancora un dato storico offre il discorso dottrinale del
canto tredicesimo esso, infatti, procede attraverso una serie continua di
distinzioni e di chiarificazioni progressive, secondo il costume mentale
della Scolastica che contraddistingue la cultura di Dante e del suo tempo
e la sintesi poetica che l’umanesimo cristiano trova nella Commedia. Che
il canto termini coi nomi proverbiali di monna Berta e di ser Martino,
sprovveduti teologizzanti, ognuno, come donna Prassede ne I Promessi
Sposi, disposto a "prender per cielo il suo cervello", poco importa: il
libero esame del protestantesimo è bilanciato dal pensiero sistematico
della Scolastica, come la bonaria conclusione popolaresca del proemio
astrale.
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