CRITICA LETTERARIA: PETRARCA

 

Luigi De Bellis

 
 
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L' "io" lirico del Petrarca
di C. CALCATERRA



Al di là della poesia di Laura, pervade l'opera del Petrarca l'espressione lirica dell'interiore personalità del poeta, che costituisce l'unità spirituale di tutti i suoi scritti in volgare e in latino.

Importa mettere specialmente in evidenza perché la poesia del Petrarca raggiunga la lirica pura, non tanto nelle raffigurazioni letterarie di Laura-Dafne o di Laura guida, quanto piuttosto nelle rappresentazioni dirette delle commozioni native e profonde che gli davano l'amore e in genere la vita, il dolore della morte e il desiderio assiduo di un'alta e piena pace. Quelle figurazioni erano pel poeta come il disegno classico, entro cui l'incisore con fantasia

libera e a un tempo disciplinata fa splendere la gemma, conseguendo «bellezze rare». Quando si entri in quei vigilatissimi modi d'arte e si giunga a distinguere ciò che è proprio delle figurazioni stilizzate e ciò che di volta in volta muove direttamente

dal sentimento e dalla fantasia insieme operanti, subito si vede che l'io fu nel Petrarca ispirazione non meno essenziale che Laura.

Momenti di altissima poesia gli diede l'amore per Laura, quali il canto tra cielo e primavera Chiare, fresche, e dolci acque, la canzone d'estasi e smarrimento Di persier in pensier, di monte in monte, la canzone di lacrime e lutto Che debbo io far?, e quella serena visione della donna morente, che porta nel più dell'episodio dei Trionfi il pallido chiarore di un'alba ultraterrena. Ma vi fu in lui la lirica di una tristezza ancor più sottile e più fonda di quella che davagli l'amore; e chi, leggendo le rime, non tenga conto dell'invincibile melanconia umana, che è alla radice della sua anima, anche allorché intona Giovene donna sotto un verde lauro o Una donna più bella assai che 'l sole o Chiare, fresche, e dolci acque, chi non senta l'accento lirico di quell'«acedia», che gli fa dire: Est inexpletum quoddam in praecordiis meis semper, perché nella vita non trova cosa «stabile e ferma», si preclude la via a intendere uno degli aspetti piú delicati del Canzoniere.

Dice egli stesso in una delle piú alte invocazioni liriche:

                  Da poi ch'io, nacqui in su la riva d'Arno, 
                      Cercando or questa ed or quell'altra parte, 
                      Non è stata mia vita altro che affanno.


Da poi ch'io nacqui! ... Di quest'io sospiroso e dolorante, angosciato e supplice, son fatte tutte le opere del Petrarca. Esso non colora soltanto il suo sentimento amoroso, ma il senso che egli ha della storia universale e gli stessi suoi ideali civili, religiosi, morali; non solo le opere ascetiche, quali il De otio religioso e il De vita solitaria, ma l'Africa, il Bucolicum carmen e le Epistolae metricae, che mal si vorrebbero ridurre a esercitazioni fatte di retorica e devozione.

In questo senso dell'io, che dalla prigione del tempo anela a una liberazione verso ciò che non passa e cerca un fine alla storia, e pone a se stesso una legge morale che lo purifichi da ogni miseria terrena, è l'unità spirituale di tutti i suoi scritti sotto l'aspetto umano.

Nella nitida e incisiva raffigurazione degli stati d'animo, nei quali di ora in ora si trova, e or gioisce della bellezza serena della natura, ora spera e dispera dell'amore, ora soffre e sbigottisce della caducità di tutte le cose e ha l'ansia di una suprema certezza, è l'ispirazione dell'artista, finissimo nel coglier le più delicate sfumature d'ogni sentimento, attentissimo a ogni ritmo che sia quasi musica dell'anima, ammaliato in fondo dalle immagini e dai colori stessi che egli dà alla vita.

Fu dunque nuovo poeta perché trasfuse nelle liriche sue con nuova immaginazione un nuovo senso di vita. Dovunque egli riuscì a esprimere con serena contemplazione il nuovo senso della vita che era la sua originalità, egli fu scrittore di rara potenza.

Fuor delle indagini storiche e filologiche, un episodio basta a mostrare che nell'Africa non tutto è poeticamente mancato, ed è quello di Magone, in cui con fantasia novissima è rappresentato il senso tragico della storia pagana dinanzi agli evi ancora non nati, e il disdegno della vita, con cui scompare il grande naufrago cartaginese, è come temperato dall'implicita consapevolezza del poeta cristiano, che tutto è dolore. Nell'ecloga Parthentas, si avverte un passionato ondeggiare dell'anima, la quale è presa tanto dal fascino della poesia classica quanto da quello della poesia sacra e, mentre promette a sé di finire il poema di Scipione, virtualmente accoglie ambedue gl'inviti.

Nell'epistola mirabile a Giacomo Colonna,

                    Quid faciam, quae vita mihi...,

il dramma interiore è delineato con evidenza non inferiore a quella che dà lampi nella canzone Di pensier in pensier, di monte in monte.

Nel Secretum, non solo l'introspezione scende come un ferro arroventato e brucia tutte le vanità, affinché l'uomo nuovo possa essere rifatto, ma l'artista giunge a esprimere la visione cosmica, ch'egli ha della vita e dell'universo, con occhio così lucido come può avere soltanto un vero poeta: «Ogni volta che tu vedi succedere ai fiori della primavera la messe dell'estate, ai calori estivi la dolce temperatura dell'autunno, alle vendemmie la neve dell'inverno, dì a te: " Le stagioni passano, ma per ritornare; al contrario io vado senza più speranza di ritorno (ego autem irrediturus abeo) ". Ogni volta che al tramontar del sole tu vedi crescere le ombre delle montagne, dì: " Ora la vita fugge e l'ombra della morte s'estende; nondimeno quel sole riapparirà il medesimo domani; ma per me questo giorno è passato irreparabilmente ". Chi potrebbe enumerare tutte le bellezze d'una notte serena?... Alzati nel mezzo della notte e osserva tutti gli astri che declinano nel silenzio dei cieli. Mentre li vedi correre all'occidente, sappi che tu sei mosso con loro e che non ti resta nessuna speranza di fermarti se non in Colui che non è mosso e che non conosce tramonto».

Nelle stesse canzoni civili, O aspectata in ciel beata e bella, Spirto gentil che quelle membra reggi, Italia mia, benché 'l parlar sia indarno, che oggi si vorrebbero ridurre a bei pezzi di bravura oratoria, vi è un senso religioso della vita e della storia, che in alcune stanze raggiunge la contemplazione superiore della straziata realtà terrena e la lirica del più puro dolore.

2000 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it  - Collaborazione tecnica Iolanda Baccarini - iolda@virgilio.it