Il dissidio
interiore del Petrarca di
U. BOSCO
In queste pagine al Bosco descrive i vari modi con cui si presenta il conflitto interiore del poeta, cogliendolo stelle sue manifestazioni psicologiche e nelle sue giustificazioni etico-filosofiche.
Dunque, senso della caducità e amore non sono due filoni distinti di poesia, e neppure è da ridurre il primo al secondo.
Semmai, è da operare la riduzione inversa: ma nemmeno con questa riduzione toccheremmo il fondo dell'umanità e della poesia petrarchesca; dobbiamo ancora procedere nelle nostre approssimazioni.
Il poeta non s'inebria soltanto della labile bellezza di Laura, non lamenta solo il suo ineluttabile sparire. La canta anche vicina e fuggente, ma spietata e irraggiungibile; delinea il contrasto tra il desiderio sempre vivo e la speranza che ad ora ad ora sembra morta, ma assiduamente rinasce per la forza di quello; insomma racconta la perenne vicenda delle sue illusioni e delusioni. E non si appaga neppure dell'immagine di lei mite e amante, della conquista, la quale prima egli sperava dalla vecchiezza, poi gli permette la morte: di fronte all'immagine della donna celeste, ormai conquistata, si rinsalda l'altra immagine, della donna terrena perduta. C'è sempre qualcosa che gli manca: permane sempre la scontentezza, un senso continuo d'inappagamento, che lo fa, oltre i secoli e gli eventi, singolarmente vicino al Tasso e ai Romantici. Se non ha, si strugge di non avere; se ha, teme di perdere; se non teme questo, si rammarica di aver solo una parte, o riconosce che la realtà è ben lungi dall'adeguare la pienezza del sogno. L'incoronazione segna la conquista della gloria, cosí fortemente desidérata: e all'indomani di essa eccolo a piegare su se stesso, a riconoscerne la vanità, a confessarsene insoddisfatto: degli anni immediatamente successivi all'incoronazione è la prima stesura del Secretum. Cosí amore e gloria - le due massime aspirazioni della sua vita - lo deludono; e la sua poesia non è che una meditazione lirica su questa delusione; essa è in nuce nell'inizio di quella canzone nella quale appunto canta la delusione dell'amore e della gloria, e il sentimento che gliene deriva, la pietà per se stesso:
I' vo pensando, e nel penser m'assale
Una pietà sí forte di me stesso...;
e insieme l'impossibilità di distaccarsi dai sogni:
E veggio 'l meglio et al peggior m'appiglio.
C'è nel Petrarca un desiderio di conquista integrale, un'ansia di assoluto. E il senso del relativo da ogni parte risorge, e lo preme ed angustia. Forse, il senso stesso della caducità non è che un aspetto, sia pure il più importante, di questo senso del relativo.
Il Petrarca non sa rinunziare a nulla, perché desidera tutto: il grande e il piccino, il caduco e l'eterno. Le ricchezze son fonte di peccato, egli ne è ben convinto: desidera perciò forse il commercium paupertatis? No davvero: la «povertà» che egli desidera non dev'essere «sordida e triste e preoccupata», ma «tranquilla, pacifica, decorosa». Cioè una ricchezza che non abbia gl'inconvenienti che le son propri. La virtú è preferibile alla gloria? Certo: ma egli confessa di desiderarè l'una e l'altra. Desideroso di gloria «non nego di esserlo stato talvolta, ma non ho mai preferito l'esser dotto all'esser buono: l'uno e l'altro desiderai, tanto è infinito e insaziabile il desiderio umano, finché non riposi in te, Cristo, al disopra del quale non si può andare». Cosí verso la fine della vita. L'amore della gloria è vano; bisogna tendere al cielo; tuttavia egli non può rinunziare alla gloria; onde, altrove, un altro tentativo, non sai se sofistico o ingenuo, di conciliazione: si tenda al cielo, senza sperare la gloria: questa seguirà, anche se disprezzata, «vel spreta» . È la via di mezzo, che si fa consigliare da Agostino. La bellezza è fragile, è vana più che ogni altra cosa; e tuttavia non la rinnega: anche a costo di contraddire il suo Seneca, sia pure con l'appoggio di Virgilio, egli finisce con l'esaltarla come ornamento della virtú.
Non si tratta di «un dissidio tra il sentimento dell'assoluto divino e del contingente umano»; nell'assoluto di Dio il Petrarca non s'immerge; il suo peccato è l'impossibile sogno di un umano che derivi dal divino il suggello della stabilità, che non sia privo «d'ogni pace e di fermezza»; e di un divino che non solo partecipi delle gioie umane, ma anzi consista esso stesso in queste gioie, potenziate e purificate. Cioè umano e divino si confondono in uno. Verrà tempo, e il sogno sarà tradotto in termini filosofici dall'epicureismo d'un Valla, il cui paradiso consisterà appunto in gioie corporee spiritualizzate dalla loro stessa eternità. Ma per intanto, la ragione mostra al Petrarca l'impossibilità di quel sogno, la dottrina religiosa gliene afferma la sconvenienza, donde il disagio perenne, i terrori del cristiano, i lamenti del poeta. Nel vagheggiare Laura tramite verso il cielo c'è, si, l'obbedienza a un'illustre tradizione letteraria; ma questa tradizione lo aiuta a fissare in un concreto fantasma il suo sogno di conciliazione. E quando, nel Secretum, si fa rimproverare da Agostino di aver sconvolto l'ordine naturale, e ammonire che bisogna amare le cose create per amor del creatore, e non viceversa, il Petrarca mostra di aver penetrato l'origine del suo segreto peccato e della sua poesia.
L'interno dissidio del Petrarca non consiste dunque propriamente nel conflitto umano-divino, ma nel conflitto tra la religione e la ragione da una parte, che gli impongono la concezione di un Dio che comprenda tutto ma in cui tutto s'annulli, e l'incoercibile forza del sogno dall'altra, che lo trascina a concepire un Dio riposo degli affanni e garante dell'eternità degli affetti umani. In un Guinizelli siamo veramente all'antitesi, nei termini che soli possono consentire l'antitesi stessa, cioè nei termini filosofici (tradotti direttamente, per potenza di immagini, in poesia): antitesi che la dottrina della donna angelicata tentava di superare; nel Petrarca invece l'antitesi non è formulata né formulabile; è una scontentezza intima, tanto più profonda quanto meno logicamente dominabile, sia del solo umano sia del solo divino. Se Dante osa la rappresentazione della beatitudine celeste, che proviene unicamente dalla visione di Dio, e quindi non ha sulla terra termini di confronto e neppure di riferimento, per il Petrarca quella beatitudine è concepita sempre in funzione della terra, Beatrice porta Dante a Dio, e Dante compiutamente ,e ne appaga: l'amore terreno è perfettamente assorbito nel divino; appunto, egli non ama Beatrice in Dio, ma Dio in Beatrice. La polvere della terra offusca invece sempre la vita del nostro poeta, come egli dice nella stanca e altamente lirica chiusa del Secretum, mentre il suo desiderio sarebbe quello di poterla dimenticare, il concepire Dio unicamente come Dio, non come proiezione della sua umanità: « Si plachino i flutti dell'animo, taccia il mondo e non rumoreggi la fortuna ». E' lo stesso tono dei sonetti che, secondo l'ultima volontà del poeta, chiudono - prima della canzone alla Vergine - il canzoniere.
Omai son stanco, e mia vita reprendo
Di tanto error, che di virtute il seme
A quasi spento; e le mie parti estreme,
Alto Dio, a te devotamente rendo...
Tu che vedi i miei mali indegni et empi,
Re del cielo invisibile immortale,
Soccorri a l'alma disviata e frale,
E 'l suo defetto di tua grazia adempi...
Il conflitto si placa per un momento nell'umiltà della preghiera
spiegata. |