CRITICA LETTERARIA: IL CINQUECENTO

 

Luigi De Bellis

 
 
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I personaggi della "Mandragola"
di L. BLASUCCI



Il critico presenta e descrive i personaggi principali della commedia machiavelliana: Ligurio, che tiene in mano le fila dell'azione con disinteressata malizia; Frate Timoteo, ora lamentoso ora avido nella sua ipocrita ambiguità; Callimaco, che mette in moto la vicenda senza saperne essere il protagonista; Lucrezia, infine, l'unico personaggio in cui si manifesta una reazione della coscienza morale. Dall'incontro di questi personaggi nasce un'azione rapida e lineare in cui si manifesta un senso acre e ,sardonico della realtà e del costume.

Non diremo che Ligurio rappresenti nella Mandragola, con la sua intelligenza direttrice, una versione del principe machiavellico: se non altro per la constatazione ovvia che qui manca lo Stato, ossia una realtà superiore che giustifichi il suo operare. Solo che nel perseguimento del fine per cui egli è stato chiamato - l'appagamento della libidine di Callimaco - egli porta una tale coscienza di malizia professionale che lo stesso suo personale tornaconto («l'utile che io sento e che io spero»), il quale è pur necessario nell'economia morale del personaggio per tenerlo distinto da un puro artista della nequizia come ser Ciappelletto (questo cavaliere dell'ideale col segno rovesciato), passa di fatto in secondo piano di fronte a tanto rigorosa coerenza. Quanto poi alla sua solidarietà con Callimaco, essa si esaurisce in realtà nell'occasione che il giovane gli offre di dare una tal prova di sé: perché lo stesso Callimaco, con le sue smanie erotiche, finisce col diventare un oggetto delle sue considerazioni sardoniche: «Questi innamorati hanno l'ariento vivo sotto piedi, e' non si possono fermare» (cfr. atto IV, scena 2); e poi: «Che gente è questa? Or per l'allegrezza, or pel dolore, costui vuol morire in ogni modo» (cfr. atto IV, scena 2). In questo senso ci pare estremamente significativa un'altra sua battuta a Callimaco, allorché costui, che ha saputo dell'adesione di frate Timoteo all'impresa, esce nella sconcertante esclamazione: «Oh benedetto frate! Io pregherrò sempre Dio per lui»; e Ligurio, allora, di rincalzo: «Oh buono! Come se Dio facessi le grazie del male come del bene!» (cfr. atto IV, scena 2). È una battuta rivelatrice, che mentre serve a distanziare definitivamente l'intelligenza dell'uno dalla passione dell'altro, isola la «cattiveria» di Ligurio in una luce di estrema consapevolezza. E del resto già prima, a Messer Nicia che gli aveva chiesto chi avrebbe disposto il confessore a persuadere Lucrezia, Ligurio aveva avuto modo di profferire le parole terribili: «Tu, io, e' danari, la cattività nostra, loro» (cfr. atto lI, scena 6). In realtà Ligurio è il solo personaggio della commedia, eccettuata Lucrezia, in cui la coscienza non abbia ancora confuso ipocritamente valori e criteri. E se egli persegue la via della tristizia è ,perché si vive in un mondo di tristi: ove egli porta, a ogni buon conto, la sua consapevolezza e la sua coerenza di uomo «onorevolmente cattivo».

Si è accennato a Lucrezia. Essa rappresenta nella commedia, con la sua nativa dirittura, la vera forza antagonistica di Ligurio. Ciò che la lega al marito non è tanto l'amore o la gelosia (come in Catella), quanto un senso diritto e incrollabile della fede coniugale. Nel corso dell'azione questo personaggio, le cui apparizioni sono brevi ma intensamente significanti, si precisa nei suoi aspetti di apprensività e di tremore per il suo pudore oscuramente minacciato: «Da quel tempo in qua ella sta in orecchi come la lepre» (cfr. atto III, scena 2). Davanti alle incalzanti argomentazioni del suo confessore, rinforzate dalle compiacenti pressioni della madre, essa si difende disperatamente con l'incredulità che le detta il suo istinto: «Che cosa mi persuadete voi?»; «A che mi conducete voi, padre?»; finché, stordita più che persuasa, soccombe: ma l'ultimo grido è del suo pudore indifeso: «Io son contenta! ma io non credo mai essere viva domattina» (cfr. atto III, scena 11). Quando essa ricompare nel quinto atto, prima nella descrizione che Callimaco fa della notte avventurosa e poi mentre si reca in chiesa col marito e con la madre, essa è divenuta un'altra: è avvenuta in lei una conversione. Ma occorre precisare che questa conversione non è di natura erotica, bensí etica. Non siamo propriamente davanti a una festosa celebrazione dell'omnia vincit Amor, ma al risentimento di una coscienza delusa e contrariata, che da quella delusione ha tratto argomento per una nuova e più spregiudicata norma di azione. E ben si accorge, a suo modo, di questo mutamento il marito Nícia, allorché davanti alle impazienti battute di Lucrezia, mentre si recano in chiesa, ha modo di osservare: «Guarda come ella risponde! La pare un gallo!», e poi: «Tu se' stamane molto ardita! Ella pareva íersera mezza morta» (cfr. atto V, scena S). La rassegnazione di Lucrezia, s'è visto, non è passiva, ci par di notare ora sul volto di lei una ruga di amara decisione che l'accomuna agli altri eroi attivi della «virtú» machiavellica.

Tra questi due estremi di coerenza, Ligurio e Lucrezia, si muove poi il vario «vulgo» degli altri personaggi, tutti più o meno irretiti in una loro egoistica passione che li accieca e li rende zimbelli della superiore volontà di Ligurio. Di Callimaco, certo il meno colpito dall'ironia machiavelliana per la sua stessa funzione strutturale di caposaldo della beffa, ma non per questo del tutto risparmiato, s'è già detto; qui basterà aggiungere che tutta una parte del suo soliloquio all'inizio del quarto atto, quella dov'egli descrive gli effetti fisiologici della sua smania amorosa, è condotta su moduli chiaramente iperbolici, che gettano anche su di lui una luce di comicità e che lo rivelano quale effettivamente è, strumento e non artefice della beffa. Uno strumento è in fondo anche frate Timoteo, di cui Ligurio sfrutta la particolare avidità di «limosine» agitandogli sul viso la borsa e costringendolo a successive e sempre più gravi capitolazioni. Tuttavia il frate dispone di una propria sfera di azione (la chiesa, la confessione) che basta a presentarcelo come il personaggio più equivoco della vicenda. Come «giuntatore» egli non ha la lucidítà scattante di Ligurio; e non si sa precisamente fino a che punto arrivi il suo cinismo consapevole e da dove cominci la sua ottusità di religioso incallito nelle pratiche formali. Ne nasce così un carattere in chiaroscuro a tinte smorzate, che è tra le creazioni più suggestive della Mandragola. Si tengano presenti di lui particolarmente due momenti: quello dov'egli dispiega davanti a Lucrezia tutta la sua logica scaltra di persuasione dell'adulterio (cfr. atto III, scena 11), e l'altro, dov'egli si duole d'essere stato trascinato da Ligurio in un'impresa così compromettente. Nel primo caso egli ci appare in tutta la sua luce di consumato artefice di malizia;, e si noti particolarmente come il Machiavelli impieghi nel suo discorso i moduli sintattici del Principe, stravolgendoli a un fine cosí ambiguo: «Voi avete, quanto alla coscienza, a pigliare questa generalità, che dove è un bene certo e un male incerto, non si debbe mai lasciare quel bene per paura di quel male...» (cfr. atto III, scena 11). Nel soliloquio del quarto atto (scena 6) egli si mostra invece vittima allarmata delle diavolerie di Ligurio, dipingendoci idillicamente il suo stato precedente di frate contento delle sue cure quotidiane: «Dio sa che io non pensavo ad iniurare persona, stavomi nella mia cella, dicevo el mio ufizio, intrattenevo e' mia devoti; capitommi inanzi questo diavolo di Ligurio, che mi fece intígnere el dito in uno errore, donde io vi ho messo el braccio, e tutta la persona, e non so ancora dove io m'abbia a capitare» (cfr. atto IV, scena 6). Tale è dunque questo personaggio: ora grave ora querulo, ora compunto e solenne, ora volgarmente avido. L'autore lo segue in tutte le sue evoluzioni con occhio impassibile: non c'è un momento in cui tradisca la sua indignazione o la sua repulsione. Ma da questa oggettività di sguardo nasce una figurazione potente di corruzione e d'ipocrisia.

Questi sono dunque i personaggi principali della commedia, e su questi capisaldi poggia poi il meccanismo dell'azione: la quale, a differenza di tante altre azioni comiche del teatro rinascimentale, caratterizzate da un'estrema varietà dell'intreccio, procede verso il suo fine serrata, senza deviazioni o complicazioni. I toni più caratteristici della Mandragola sono quelli fondi e sardonici di certe battute di Ligurio: «Andate, frate, alle vostre orazioni» (cfr. atto III, scena 12); «Con quanta prudenzia avete voi governato questa cosa!» (cfr. atto V, scena 2); o dallo stesso frate Timoteo: «Non dubitate, la clemenzia di Dio è grande» (cfr. atto III, scena 3); «Conducovi a cose, che voi sempre arete cagione di pregare Dio per me »; «Andate in buona ora, e preparatevi a questo misterio, ché si fa sera» (cfr. atto III, scena 11). Sono battute che diffondono su tutta la commedia una tinta livida e cupa, e che ci fanno intravvedere dietro i personaggi il ghigno sardonico dell'autore: ma il fascino potente, e insomma la poesia della Mandragola, è appunto qui.

2000 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it  - Collaborazione tecnica Iolanda Baccarini - iolda@virgilio.it