Barre des Ecrins
Dome de Neige e Barre des Ecrins, cresta ovest
Solo qualche nota perché non ho voglia. Ho appena finito le 748 pagine di descrizione delle Droites, e adesso a pensare agli Ecrins faccio più fatica che non a salirci.
Per mia fortuna viene in mio soccorso un particolare: dei due giorni passati negli Ecrins le cose più significative sono successe nel viaggio in macchina, quindi a scrivere di quello dovrei sudare meno che non a parlare della camminata (solo a scrivere ‘camminata’ in questo momento mi prende un certo senso di spossatezza...).
Allora: sono in ferie! (ecco, a scrivere ‘ferie’ un po’ la spossatezza passa...)
Il fine settimana appena trascorso è stato all’insegna del riposo più totale perché non abbiamo avuto tempo buono abbastanza per tentare di bissare immediatamente il successo alle Droites: in mancanza di meglio mi sono dovuto accontentare di un paio di giorni di costine e salamelle. Ma ora sono in ferie e posso andare a cercare montagne anche in settimana (ah si, non l’ho specificato: sono in ferie solo io, quindi le montagne me le devo andare a cercare da solo). Penso agli Ecrins: già parecchio tempo fa ci eravamo stati in gruppo e non avevamo raccolto un gran ché: solo il Dome e una discesa veloce prima dell’arrivo del temporale. Andrea ci era stato poi per conto suo, alla Barre, e ne aveva fatto una bella descrizione. Purtroppo le previsioni del tempo non sono ancora delle migliori in quella zona: lunedì brutto, martedì instabile con rischio di temporali pomeridiani, da mercoledì meglio. Lascio passare il lunedì facendomi una corsetta tra Medale e San Martino, ma martedì parto, anche se le previsioni - ricontrollate fino all’ultimo - non sono perfette: non voglio aspettare troppo, perché se rimando ancora e faccio la salita il giovedì, il prossimo week-end con quali forze lo seguo Andrea?
E così si arriva alla mattina di martedì e al viaggio in macchina. Me lo ricordavo piuttosto lungo e mi ricordavo che ci voleva un bel po’ di tempo, ma questo è stato una cosa che definire assurda è uno scherzo. Omero ne avrebbe potuto scrivere un Ecrineide se ne avesse sentito parlare, ma non avrebbe mai saputo arrivare ad altezze liriche tali da rendere giustizia alla bestialità di questo viaggio.
|
|
|
|
|
Barre des Ecrins e Dome de Neige, dal plateau del Glacier Blanc |
|
Partenza da casa alle 9 quasi precise. Imbocco la superstrada per Milano; dovrei arrivare a prendere l’autostrada a Cormano, come ho già fatto diverse decine di altre volte, ma oggi non è una giornata normale, c’è il Fato in agguato, e già da qui avrei dovuto iniziare a capirlo: arrivo fino a Meda normalmente, ma lì mi inchiodo: in superstrada c’è una coda ferma di cui non si intuisce la fine. Al momento mi dico: è una giornata lavorativa, magari è normale che ci sia un po’ di coda qui a quest’ora... però dopo cinque minuti sono ancora lì fermo... dopo dieci comincio a sospettare che forse la cosa non sia poi così normale; in qualche modo - sono vicino allo svincolo - riesco ad uscire, seguendo qualche altro disperato lungo l’angusto budello sterrato tra la coda di auto e il guard-rail fino all’uscita. Non posso fare altro che tornare indietro e dirigermi verso un’altra autostrada: la vado a prendere a Lomazzo. Tutto questo per dire che dopo mezz’ora di “viaggio” passo di nuovo a circa cento metri da casa mia. Mi dirigo verso Lomazzo. C’è un traffico pazzesco, in Novedratese ci si muove a passo d’uomo. Arrivo stanco - come se l’avessi fatta davvero a piedi - fino alla seconda rotonda di Bregnano, ma lì pare che la coda decida di bloccarsi di nuovo; pare che il traffico si sia messo d’accordo per bloccarmi le vie d’accesso al Parco degli Ecrins. Quanto sono nervoso in questo momento non è facile da spiegare: mi sono fatto un po’ di calcoli per il viaggio e per la camminata che dovrò fare fino al Refuge des Ecrins, e se non arrivo alla svelta alla mia destinazione può andare a finire che mi devo fare qualche ora sotto la pioggia; inveisco a più riprese contro quel Fato che ha deciso di giocare così con la mia salute. Inverto la direzione, torno alla prima rotonda, vicino alla casa di Mariaelena, e mi dirigo verso Turate: accesso alternativo alla stessa autostrada di cui sopra. Ora, lo anticipo perché per qualcuno la cosa sarà già ovvia fin da adesso: se qualcuno conosce quella strada sa benissimo che prima di arrivare in autostrada, a Rovello, c’è da attraversare un passaggio a livello... Allora, prima di tutto mi tocca seguire - sempre a passo d’uomo - un camion; dotato di camionista; indeciso; tanto indeciso che non sa bene a quale fabbrica si deve fermare, perché per tutta la strada non fa altro che fermarsi con la freccia a sinistra per svoltare in direzione dell’ignota fabbrica, per svoltare finalmente nel cortile giusto... salvo poi accorgersi ogni volta che il cortile non era affatto quello giusto, e quindi levare la freccia e ripartire. Non so quale sia il Santo protettore dei camionisti, ma di sicuro tra quelli che ho nominato in quei minuti di strada c’era anche lui. Alla fine il camion svolta davvero e posso riprendere la marcia verso l’autostrada. A Rovellasca, fermo al semaforo (ovviamente), vedo abbassarsi la sbarra del passaggio a livello della stazione; penso: ecco che ci siamo... ma forse se il treno resta in stazione ancora un po’, il passaggio di Rovello è aperto (e qualcuno penserà: ma come fa questo qui a essere così fiducioso, con quello che gli sta capitando?). Riparto. Arrivo al semaforo di Rovello; ho davanti un furgoncino... che rallenta... perché rallenta? Ovviamente rallenta perché se non rallentasse potrei benissimo passare il semaforo verde, e invece rallenta, il semaforo diventa arancio e quello si ferma; e io dietro. Il passaggio a livello è lì a una decina di metri, dietro l’angolo, e mentre sono fermo ad aspettare il verde si sente la campanella che comincia a suonare. Verde. Parto. Giro l’angolo. Le sbarre non sono ancora giù: fanno apposta ad aspettare me, per farsi vedere bene mentre si abbassano. Altro particolare: dovrebbero saperlo in molti che il passaggio a livello di Rovello Porro è uno di quelli con le tempistiche più assurde di tutto il pianeta. Fortunatamente viviamo in un universo in cui le esperienze spazio-temporali tendono a muoversi nel discreto, e una cosa lunga, per quanto lunga, in genere non può essere più lunga di quanto è lunga; perciò ad un certo punto il treno passa e le sbarre si rialzano. Un paio di minuti dopo sono in autostrada. Sono uscito di casa più di un’ora fa; rispetto ai tempi soliti di percorrenza dello stesso tragitto, una cinquantina di minuti buoni sono tempo buttato. E io penso: cinquanta minuti in più di pioggia. Una volta in autostrada le cose si fanno più normali: non si viaggia in modo particolarmente tranquillo, ci sono parecchi rallentamenti, c’è moltissimo traffico, però ci si muove. La cosa dura fino ai raccordi con la Milano-Torino. Per prima cosa c’è l’ostacolo del primo casello: pedaggio per la tangenziale di Milano. Ci sono un discreto numero di porte; soltanto un paio per Viacard; una delle quali guasta con semaforo rosso; al momento penso: potrei anche andare a pagare per contanti, poi però vedo che alla porta Viacard accessibile c’è solo una macchina, quindi mi accodo; circa un microsecondo dopo si accodano a me un altro paio di automobili... e visto che l’ho scritto sarà ovvio il motivo: automobili in coda alias impossibilità di retromarcia... lo dovevo capire, avrei dovuto pensarci che mi avrebbe fregato anche lì, che un modo lo avrebbe trovato, avrei dovuto andarci davvero a pagare in contanti, e invece no, mi sono fidato ancora, c’era una macchina sola! Più che sufficiente. Ci vogliono una decina di minuti buoni di bestemmie e strombazzamenti da una schiera infinita di automobilisti (e se dico dieci minuti non è per dire un tot così approssimativo, è perché se non erano dieci erano undici) prima che il tecnico di turno si decidesse ad arrivare e spiegasse al tipo lì davanti che per passare da una porta Viacard, la Viacard ce la devi avere, e se ce l’hai deve essere carica, e se ce l’hai carica devi stare attento a non rovesciarci sopra il caffè bollente la mattina, e altre amenità del genere. Io ho finito i Santi da un pezzo, quindi me ne resto buono e paziente: sono quasi sicuro che ormai non può capitare più niente. Mentre sono lì fermo cerco di pensare a cosa altro mi potrebbe capitare in questo viaggio, a quali altri contrattempi posso andare incontro, però non me ne vengono in mente: mi vengono in mente solo assurdità tipo maremoti e invasioni di cavallette, roba alla Blues Brothers, riesco solo a fantasticare su roba troppo inverosimile, quindi alla fine mi convinco che, traffico a parte, da lì in avanti non mi dovrebbe più succedere niente. La convinzione dura solo i due minuti di strada che mi separano dal secondo casello. No: non ci sono altre code né altri imbranati. Al casello c’è solo da ritirare il biglietto (si entra nell’autostrada per Torino), però subito dopo c’è una pattuglia della polizia. Adesso domando: quelli lì fermano una macchina ogni 500 che ne passano, fermano letteralmente una macchina ogni dieci minuti; ma chi è che dovevano fermare? Come da foscoliana tradizione, la domanda è retorica. Mi palettano, mi fanno accostare, e uno dei due poliziotti si avvicina per chiedermi patente e libretto. Glieli passo in un picosecondo perché avevo già iniziato a prenderli ancora prima che me li chiedesse. Il poliziotto deve avere notato qualcosa dell’espressione torva che ho in volto e degli epiteti assortiti che mi stanno frullando per la testa perché prima di allontanarsi con i documenti - per il suo controllo - mi chiede: ha precedenti penali lei? Non me lo aveva mai chiesto nessuno. Sono costretto a rassicurarlo, no, non ho precedenti penali, non sono un criminale, se fossi un criminale avrei già fatto del male a qualcuno oggi, ma no, sono un bravo ragazzo, voglio solo andare in montagna, posso, per favore? Però gli dico solo: no. Si allontana e si porta via i documenti perché deve verificare se gli ho detto la verità. Intanto l’altro gira intorno alla mia macchina perplesso: forse sta controllando fari e gomme, o forse sta pensando: questo pregiudicato non lava la sua macchina da almeno sei mesi. Passano ancora una decina di minuti (come prima: sono una decina di minuti davvero). Finalmente il primo torna con i miei documenti. Prego. Grazie. Vorrei ripartire sgommando, ma non mi pare una buona idea; quindi con calma metto la freccia, guardo nello specchietto, e parto talmente piano che a momenti mi si imballa il motore. E mentre metto la seconda devo ammettere: ok, a questo non ci avevo pensato. Però adesso basta! Adesso c’è il lungo viaggio fino a Torino e oltre. L’autostrada è un caos inimmaginabile, c’è un traffico incredibile, e dei cento chilometri tra i due capoluoghi almeno novanta sono intasati da cantieri, deviazioni e doppi sensi. Continuo ad accumulare ritardi tra un rallentamento e l’altro; però è solo normale amministrazione: solo traffico, niente di eccezionale. Persino a Torino non capita nulla, persino con tutte le occasioni che ci sarebbero tra i vari caselli che si devono superare: prima si pagano 6 euro e 20 per il tratto da Milano; poi altri 90 centesimi; e poi ancora altri 90 centesimi; poi altri 3 euro e 30; quando pago quei 3.30 penso: che ladri... ma forse è il pedaggio per il tratto di autostrada che resta da qui all’uscita... l’ho pensato fino all’uscita: altri 4 euro e 50. Praticamente a girare intorno a Torino ci vuole di più che non a farsi i 100 chilometri da Milano a lì. Comunque, solo una nota a margine, niente a che vedere con l’Ecrineide. Allora, sono appena uscito dall’autostrada e devo andare verso il Monginevro. Le cose filano lisce per quasi due minuti, ma poi inizia la statalina che porta verso il passo. Uno può dire, che ci si può trovare di brutto? Un camion da superare? Una carovana di roulotte? Una fila di imbranati? No; una macchina sola; blu scuro; con lampeggiante sul tetto. Il limite di velocità sarebbe di 70 kmh, ma questi carabinieri non hanno fretta e si fanno tutta la strada - e dico tutta, perché vanno anche loro fino al Monginevro - a 50 (a parte in curva, perché sarebbe da spericolati non rallentare) e ovviamente c’è divieto di sorpasso per tutto il tempo. Prima reazione: ok, non avevo pensato neanche a questo. Seconda reazione: faccio tutta la strada con un gomito sul finestrino, la testa appoggiata alla mano, a snocciolare una fila infinita di “basta”, “adesso basta”, “però basta”, “eh, ma basta”, “eccheè, basta”. Andiamo insieme fino alla frontiera; solo lì doppiano la boa del cartello francese e se ne tornano indietro. Posso proseguire finalmente oltre il Monginevro. Dopo tutta la serie di continui aggiornamenti fatti e rifatti durante il viaggio, calcolo l’ultimo: sono le 12:45, il che non è malissimo; adesso mi mancano solo una trentina di chilometri in territorio francese e poi è fatta. Mi ricordo che alla fine la strada era bella stretta, sarà un po’ lenta, però non deve mancare più molto. Al più tardi dovrei poter iniziare a camminare per le 2; il che significa che non sono così in ritardo. Io non mi ricordo bene il tratto di cammino che si doveva fare da Pré del Madame Carle, al Refuge du Glacier Blanc, e poi al Refuge des Ecrins, però secondo la relazione che mi ha dato Andrea per arrivare all’ultimo rifugio non ci dovrebbero volere più di 5 ore; anche se so che sarò molto carico ci dovrei stare, quindi per lo meno per ora di cena dovrei arrivare; restano un’incognita i temporali, ma per ora - almeno qui - il tempo sembra bello. Quindi mentre mi allontano dal Monginevro sono fiducioso... Fiducioso come un povero pirla che per tutto il giorno non ha sperimentato ogni genere di vessazioni. Te ne sono capitate di tutte, tante che a pensarci apposta non ti sarebbero mai venute in mente... e adesso che sei a un passo dalla fine pensi che le cose possano iniziare ad andare lisce? E invece no! Perché sei a Briancon! Ed è il 18 luglio! E da Briancon il 18 luglio passa il Tour de France!!!!! Caaazzzzooooo!!! Ora: magari un Italiano pensa: vabbè, passa il Tour. Anche in Italia quando passa il Giro ci sono un po’ di disagi, le forze dell’ordine seguono l’andamento della corsa e bloccano le strade secondo necessità, punto per punto, momento per momento... e invece qui no. Qui siamo in Francia, e quando passa il Tour la Francia se ne DEVE restare ferma! Tutta - e ribadisco TUTTA - Briancon è bloccata, il traffico è interdetto; tutte - e continuo a ribadire TUTTE - le strade che portano ad Argentiére (cioè dove dovrei passare io) sono transennate. Chiedo per tre volte a tre poliziotti diversi, nella speranza di trovare qualcuno con informazioni più dettagliate, magari qualcuno conosce la stradina giusta, magari qualcuno conosce un passaggio... ma tutti mi confermano la stessa cosa: per ora scendere verso Argentiére è impossibile; a dirla tutta è impossibile fare un passo oltre Briancon in una qualsiasi direzione che non sia verso il Monginevro. Chiedo: ma fino a quando? Un tipo della sicurezza mi mostra un manifesto: strade chiuse dalle 12:30 alle 15:30. Questo significa come minimo due cose: la prima è che sono arrivato solo 20 minuti in ritardo sul blocco (e se penso a quell’infinità abbondante di contrattempi assortiti che ho accumulato mi incazzo ancora di più); la seconda è che per altre due ore e mezza non avrò altro da fare che rimuginare sulla questione, sul fatto che non potrò iniziare a camminare prima delle 4 e mezza, che lo farò sicuramente sotto la pioggia, che sarò probabilmente costretto a fermarmi al Refuge du Glacier Blanc, e che domani la camminata sarà troppo lunga e non riuscirò ad arrivare sulla Barre. A tratti mi dico: si, vabbè, dai, sei in vacanza, prendi le cose con più filosofia, sei in viaggio per divertirti, rilassati... però poi mi rispondo ogni volta con una fila di oscenità che per ragioni di censura non posso riportare.
Ok, l’apoteosi è stata raggiunta, il Tour è passato, l’Ecrineide ha toccato il suo apice epico, quindi le cose da qui in avanti non possono che volgere alla normalizzazione degli eventi. Infatti più o meno è quello che succede; addirittura le cose migliorano un po’, perché la carovana del Tour finisce di transitare con un po’ di anticipo sulle previsioni, e le strade vengono riaperte alle 3. Strano a credersi, ma in pole position, davanti alle transenne di chiusura del nodo principale di accesso alla provinciale che attraversa il paese, c’è una Bravo con targa italiana. Dopo il blocco prolungato ovviamente per strada c’è un casino inimmaginabile, però almeno ci si muove. Esco dalla provinciale appena posso, prendo la parallela che entra direttamente verso il Parco, e in tre quarti d’ora arrivo a parcheggiare al “solito” Pré de Madame Carle. Solo sette ore di viaggio.
Bon. Il resto lo devo condensare perché non varrebbe la pena perdere tempo a leggerlo: paragonato al viaggio tutto il resto rimane troppo convenzionalmente insignificante, come un sequel mal riuscito ad un capolavoro.
Comunque... alle 4 quasi precise inizio a camminare.
A questo punto si, posso iniziare a prendere le cose con più filosofia, soprattutto grazie al fatto che non mi sta piovendo addosso. Il tempo è bello, e si cammina bene perché è anche ventilato e il caldo non da fastidio. La relazione di Galis dice: 2h/2h30 fino al Refuge du Glacier Blanc. Questo tratto non me lo ricordavo; o meglio: lo ricordavo sbagliato: mi sembrava che si dovesse entrare nel vallone di sinistra lungo la morena, e invece si deve scavalcare il pendio di destra... Vabbè: si segue il facile sentierone per tutto il pendio, si raggiunge il torrente oltre la cascata, si attraversa il torrente per massoni levigati, si risale il breve tratto attrezzato, poi una serie di dossi fino a un plateau di sassi, si costeggia il laghetto, si attraversa il plateau, e poi si risale l’ultimo zoccolo roccioso fino al rifugio. Evoluzione: mentre risalgo il primo pendio il sole sparisce e il cielo si fa più cupo; quando attraverso il torrente inizio a sentire i primi tuoni; alla fine del tratto attrezzato inizia a piovere: goccioloni enormi, fortunatamente radi. Alla fine arrivo al rifugio in un’ora e venti minuti; complice soprattutto la pioggia che mi ha convinto ad accelerare il passo alla fine. La pioggia va e viene, e non è mai forte abbastanza da inzuppare niente, non mi bagno moltissimo. Riesco ad entrare nel rifugio appena in tempo: sono lì nella stanza d’ingresso che mi sto cambiando la maglietta quando fuori inizia un acquazzone spaventoso; tuoni e fulmini si sprecano.
A questo punto i giochi sono fatti: è successo esattamente quello di cui avevo paura fin dal principio: sono partito troppo tardi e adesso non posso fare altro che restarmene rintanato qui e vedere come si mettono le cose domani. Dentro al rifugio c’è un casino fuori dal comune, c’è tanta di quella gente che non capisco dove potranno trovare posto per mangiare e dormire. Sono estremamente pessimista sulla mia sorte: non ho fatto nessuna prenotazione da nessuna parte; però ho con me il sacco da bivacco collaudato la scorsa settimana: al massimo ci passo la notte lì nel locale d’ingresso. Nel giro di un’ora però le cose un po’ cambiano: smette di piovere e un fortissimo vento allontana i nuvoloni velocemente quanto velocemente li aveva portati. Intorno alle 18:30 il cielo sembra soddisfacente. Nell’ora di attesa che ho lasciato passare mi sono scolato quasi tutto il litro di beveraggi che avevo nello zaino, quindi vado dal rifugista; invece di chiedere una sistemazione per la notte mi compro una bottiglia d’acqua, me la metto nello zaino, mi infilo la giacca a vento - c’è ancora un gran vento - e riprendo il cammino verso il Refuge des Ecrins. Dopo cinque minuti di cammino riprende a tuonare; dopo dieci il cielo è di nuovo coperto e i tuoni più fitti; vedo due gocce, due di numero, però poi regge e non ricomincia a piovere. Qui si sale un lungo tratto per morena, lungo un facile sentiero segnalato da frequenti ometti; solo molto in alto si mette piede sul ghiacciaio, per superarne l’ultimo risalto prima di raggiungere il plateau superiore. C’è una facile traccia sul margine destro che evita senza difficoltà i numerosi crepacci. Lo stesso sul plateau: tutto il Glacier Blanc è tormentato da frequenti grossi crepacci, ma una bellissima traccia, sempre sul margine destro, li evita tutti con sicurezza. Passato il plateau manca la risalita dell’ultimo risalto roccioso; il rifugio è in cima ad un cucuzzolino a picco sul ghiacciaio. Lo raggiungo dopo un’ora e mezza di cammino dal primo rifugio.
Qui la situazione è migliore; si vede a occhio che c’è molta meno gente e il clima è molto più raccolto e ordinato; mi piace qui. Mi cambio di nuovo la maglietta - meno male che non c’è un terzo rifugio perché le ho finite - e vado a vedere se c’è posto per la notte. Il rifugista è molto cordiale, un tipo simpatico; mi assegna il posto, mi spiega come e dove trovarlo, e mi informa sull’orario della sveglia: per chi è diretto “agli Ecrins” (cioè alla Barre e/o al Dome del Neige) è prevista per le 3:30. Non chiedo né cena - che hanno già fatto - né colazione: mi arrangerò con roba mia. Vado a mettere pile e giacca a vento sul letto; da non credere: piano superiore, vicino alla finestra; non potrei chiedere di meglio. Poi sistemo il mio materiale; faccio subito un po’ di selezione e metto della roba in una delle solite ceste “d’abbandono”. Poi vado a mangiare. Prendo un tè e una fetta di torta. Quando li ordino c’è il solito gestore; gli chiedo “Un tarte e un tè” (ma come si dice torta in francese?). Quello non capisce e mi chiede “Tarte?”. Ho appena letto un cartello di fianco a un menù, appeso sul muro, e c’era scritto così... mi pare... quindi ripeto, un po’ dubbioso “Tarte...”, e aggiungo per sicurezza “Pie?”. A un certo punto si illumina e dice “Ah! Gateau!”. Termine mai sentito. Io sconsolato di rimando: “Eh... I don’t know gató...”; lui: “Gateau!”; io “Eh…”; lui “Gateau au chocolat!”. Al che, sentendo cioccolato, capisco e confermo; con espressione estasiata gli punto un dito contro, come per dire “yeah, fratello” e gli dico “That’s it! Quello!”. Alla fine ci siamo intesi. Porto tè e torta ad un tavolo enorme totalmente deserto; c’è una colonna dietro a una panca e la uso come schienale; mi ci porto anche la mia bottiglia d’acqua e i miei panini. Ceno con panino, mela, tè e gató.
Poi a letto. Ci entro che sono più o meno le 21:30. Questo significa che sulla sveglia “standard” avrei sei ore di sonno! Roba mai vista! Ancora non so, in realtà, quando mi alzerò. Decido di non puntare nessuna sveglia. Decido che se mi addormento sul serio allora aspetto che si alzino tutti, mi faccio svegliare dagli altri e parto insieme; se invece mi sveglio prima ci penso al momento: quando ho voglia mi alzo e vado.
La notte non è il massimo. Dormo per un paio d’ore, al principio, ma poi la situazione inizia ad infastidirmi; nonostante la finestrella aperta in camera c’è un caldo incredibile, e i 19 francesi che la popolano fanno a gara a chi russa più forte. Mi appisolo a tratti, ma non riesco più ad addormentarmi davvero. Alle 2:30 ne ho abbastanza e mi alzo. Vado a fare due passi all’esterno. La temperatura è piuttosto alta, con un pile leggero si sta già bene, e non c’è un filo d’aria. Non so se essere più contento per il caldo o più preoccupato per la neve. Vado a dare un’occhiata alla Barre e al ghiacciaio; appena mi avvicino al parapetto che da sul ghiacciaio vedo salire da lontano una fila di pile frontali: sono le prime cordate che salgono dal Refuge du Glacier Blanc, in anticipo sui tempi convenzionali. Non mi serve altro: in pochi minuti riordino la mia roba, ricarico tutto nello zaino, faccio colazione con un pezzettino di cioccolato e un sorso d’acqua, e quindi parto. Quando faccio il primo passo con lo zaino in spalla sono le 3; quando raggiungo il ghiacciaio le 3:15; ridisfo lo zaino, ne elimino tutto il materiale inutile e lo abbandono in una nicchia dietro un sassone (sarebbe stato inutile lasciare il materiale nel rifugio e costringersi a risalire di nuovo quei cento metri di dislivello al ritorno); quando infine riparto sono le 3:30 precise.
Di quelle cordate in avvicinamento lungo il ghiacciaio, da qui non si nota nulla, ma dovrebbero essere vicine ormai. Cammino molto lentamente: non ho voglia di stancarmi, sono in anticipo sulla tabella di marcia, ho tutto il tempo che voglio, e vorrei avere qualcuno in vista. Completo il plateau senza problemi; ci sono pochi crepacci aperti e la traccia normale è molto buona; oltretutto la neve è solida ovunque, nonostante la temperatura sembri un bel po’ superiore allo zero. Da dietro vedo finalmente avvicinarsi le altre cordate; a occhio avranno una ventina di minuti di ritardo. Dopo una breve sosta riparto lungo il pendio nord della Barre; cerco di camminare ancora più lentamente; periodicamente controllo gli inseguitori, ma sembra che siano sempre lì. Salgo lungo una tracciona perfetta; prima a destra del pendio principale completamente seraccato, poi in un lungo traverso diagonale fino all’estremo sinistro, poi di nuovo verso destra, poi di nuovo a sinistra, per rimanerci. La traccia attraversa sempre zone di ghiacciaio perfettamente sicure; solo in un paio di punti scavalca dei ponticelli di neve tra un crepaccio e l’altro, ma sempre in ottime condizioni. Finalmente vedo che da dietro gli altri si stanno avvicinando: in alto, in cresta, non so che terreno dovrò incontrare e mi piacerebbe avere qualcuno a farmi da guida.
L’ultimo tratto del pendio si fa complicato. Nella parte superiore deve avere nevicato ieri, o è slavinato qualcosa questa notte, perché non esiste più traccia: sparisce del tutto, dopo essere stata perfetta per quasi tutta la salita. L’ultimo tratto ripido e tutto il lungo traverso superiore sono da tracciare. Sono davanti io, quindi il lavoro è mio. Niente di particolarmente impegnativo, la neve è piuttosto buona e sicura; solo la cosa mi risulta un po’ dispendiosa perché è un po’ irregolare, a tratti è gelata e a tratti si affonda una trentina di centimetri. Mi ero talmente abituato a salire così piano e senza sforzo che adesso che devo cominciare a fare fatica un po’ mi pesa. Nel frattempo da dietro, ovviamente, si fanno ancora più vicini.
Il tratto più complicato è il superamento della crepaccia terminale e la risalita dell’ultimo breve pendio fino alla Breche Lory. La crepaccia è apertissima, è enorme, e solo in un punto si restringe ed è chiusa dal ponticello di una stretta lama di ghiaccio. Anche qui la traccia non è buona: è tutta piena di granuli portati dal vento, il pendio ne è stato fatto perfettamente uniforme e si intuisce appena il passaggio della traccia originale; la cosa peggiore è che il pendio oltre la crepaccia è molto ripido, sono una sessantina di gradi almeno, sopra il bordo, poi diminuisce progressivamente, ed è di ghiaccio duro. Lì per lì commento con un paio di imprecazioni ben assestate e penso di lasciar perdere; poi penso che farei meglio a mettere una vite; poi invece della vite piazzo la terza imprecazione e mi decido a muovermi. Alla fine si rivelano davvero impegnativi solo quei primi metri molto ripidi; salendo invece le condizioni migliorano. In un paio di minuti arrivo alla Breche Lory. Sono circa le 6:30; sono stato molto lento, ma va bene così: mi sento benissimo e non sono per niente stanco.
Mi fermo per un po’: il tempo di bere qualcosa, trovare un posto per abbandonare il materiale che non mi serve e mettermi la giacca a vento. Su questa selletta c’è un gran vento, freddo e molto fastidioso. Nel frattempo i primi inseguitori sono arrivati alla crepaccia e li osservo salire. Sono molto lenti e fanno una gran fatica: continuano a piccozzare con gran forza e a staccare grossi pezzi di ghiaccio; il primo impiega diversi minuti per superare il tratto ripido; una volta fuori improvvisa un’assicurazione su piccozza per il secondo. Intanto altre due cordate si avvicinano e hanno le stesse difficoltà dei primi.
Io non sono sicuro sul da farsi: potrei partire subito per la Barre, ma non conosco bene il posto, non so veramente cosa aspettarmi da quel primo tratto di cresta, e siccome avrò bisogno di qualche auto-assicurazione, non voglio rompere le palle agli altri con le mie manovre. Quindi decido di aspettare queste tre cordate: se qualcuna di loro sarà diretta alla Barre la lascerò passare: stando dietro avrò tutto il tempo di muovermi come voglio e la possibilità di sfruttare gli altri come guide. I due della prima cordata sono diretti al Dome; le altre due cordate invece - entrambe di tre ragazzi - vanno alla Barre.
|
|
|
|
|
Mirko in cima al Dome de Neige des Ecrins; la Barre alle spalle |
|
Quando li vedo attaccare inizio a pentirmi della scelta perché mi sembrano un po’ lenti, sembra che si impiccino un po’ per niente in un primo traverso tra roccette che tutto sommato non mi sembrano molto complicate. Mi passa la voglia di stare lì ad aspettare per niente, quindi mentre do agli altri il tempo di salire i primi metri di cresta, me ne vado sul Dome de Neige. I ragazzi di quella prima cordata partono appena prima di me; arriviamo in cima insieme e ci scambiamo un paio di fotografie.
Poi torno alla Breche, prendo dallo zaino fettucce e corda; il resto del materiale l’ho già appeso all’imbragatura; nelle tasche della giacca a vento ho portafoglio, cellulare e macchina fotografica. Appesi all’imbragatura mi tengo anche ramponi e piccozza: vista da sotto la cresta sembrava bella pulita, però non ho idea del tipo di terreno che potrò trovarci, magari mi tocca anche qualcosa su neve. Tutto il resto, zaino compreso, lo lascio alla sella.
La cosa più difficile dell’intera cresta sono i primi due metri che mi servono per arrivare a toccarne la prima roccia: si tratta di un traverso su ghiaccio durissimo lungo un pendio molto ripido. Lo attraverso stando in equilibrio sulle tacche che i primi hanno appena intagliato a colpi di piccozza. Solo un paio di movimenti ma piuttosto delicati. Poi arrivo alla roccia e le cose cambiano completamente. Appendo una fettuccia allo stesso spuntone che avevo visto usare dalla prima cordata e la uso come assicurazione per i primi metri di salita; poi vedo che la progressione è davvero molto facile e ne faccio a meno: recupero tutto, me lo metto in spalla, e proseguo lungo la direzione indicata dalle altre cordate, ormai già piuttosto avanti. Al principio la cosa mi aveva dato da pensare: vista dalla forcella la cresta era poco decifrabile, ci si vedevano un paio di fettucce, appese proprio sul versante che guarda la Breche, e la roccia sembrava fradicia; una volta partito invece le cose si capovolgono: le fettucce non c’entravano niente con la linea di salita giusta, si può stare sul filo dello sperone e poi in diagonale sulla sinistra, c’è un bel sole, su questo versante è sparito il vento e la roccia è perfettamente pulita; arrampicare mi diverte molto.
Una volta sul filo superiore della cresta le cose si fanno molto facili. Le cordate che precedono sono molto veloci, fanno tutto in conserva, raramente piazzano una fettuccia su uno spuntone e ci fanno scorrere la corda; il primo piazza, l’ultimo recupera, senza soste. Solo appena prima del Pic Lory attrezzano un tiro: c’è una bel muro triangolare verticale da superare, lo attaccano sullo spigolo destro, salgono un po’ poi lo aggirano sulla destra. Rifaccio esattamente quello che ho appena visto fare, assicurato ad un enorme scaglia alla base del salto; non so se si tratti della linea di salita normale, ma a me è sembrato peggio del II/II+ dichiarato dalle guide. Il resto è di nuovo molto facile: la cresta è aerea e c’è un gran bel vento, però il terreno è perfettamente pulito e tecnicamente di poco impegno. Intorno alle 8 sono in cima.
Qui ho la sorpresa più sconfortante della giornata: vorrei ripetere lo scambio fotografico fatto poco prima sul Dome, ma quando prendo la macchina dalla tasca della giacca a vento mi accorgo che mi sono fatto 7 ore di viaggio e 8 di cammino per arrivare qui e vedere sul display della macchina un segnale di batteria esaurita, prima dello spegnimento definitivo. La maledizione del freddo ha colpito un’altra volta.
Non mi do neanche il tempo di rimpiangerlo; i dieci minuti di cima che mi sono già concesso mi bastano e avanzano: il vento qui è molto freddo e fastidioso e sto cominciando a gelare. Riparto mentre gli altri restano lì a mangiucchiare qualcosa. Ripercorro la cresta velocemente. Scendendo incrocio una successione infinita di cordate, a tratti mi tocca lasciare strada. Per il salto dietro al Pic Lory mi affido ad una breve doppia, con la corda buttata dietro ad uno spuntone. Anche nel tratto ripido che scende alla Breche mi assicuro: niente doppie, ma preferisco sapermi legato a qualcosa di solido.
|
|
|
|
|
Il Dome de Neige des Ecrins, visto dal traverso di avvicinamento |
|
Una volta all’altezza della forcella posso decidere se andare a riprendere la mia stessa traccia di salita, oppure se proseguire in verticale in doppia: le rocce dello sperone proseguono fino oltre la crepaccia, là in fondo, ci sono anche degli zaini alla base, quindi qualcuno deve essere salito direttamente da li. Però ho una corda troppo corta, con doppie da 15 metri mi va bene se me ne bastano due e non capisco se ci si trovano spuntoni adatti, quindi traverso e raggiungo la sella. La traccia che va ad attraversare la crepaccia è molto marcata ora, è stata salita da moltissima gente ormai e non mi sembra più così complicata; penso che mal che vada ci posso mettere una vite.
Non mi serve nemmeno quella: l’impressione iniziale è confermata dai fatti, la traccia è molto buona, il tratto ripido perfettamente scalinato, qualcuno deve avere intagliato scalini a piccozzate. In pochi passi sono sulla traccia del traverso. Anche qui adesso è tutta un’altra cosa: è passata moltissima gente e ci si può muovere di corsa ormai.
Mi fermo qualche minuto per sistemare lo zaino che avevo recuperato in tutta fretta alla Breche Lory, dove si era radunata un po’ troppa gente; ci infilo gli strati di copertura che non mi servono più - su questo versante il vento si azzera e c’è un gran caldo - bevo qualcosa e poi parto per la mia discesa, letteralmente di corsa; primo perché il pendio invoglia a una discesa rapida, poi perché la traccia è molto bella e sicura, e poi perché dalla cresta sommitale stanno piovendo sassolini a ripetizione: me ne ronzano intorno parecchi e non ho voglia di stare lì ad aspettarli.
In mezz’ora completo il grande pendio della Barre, e in un’altra mezz’ora attraverso il plateau del Glacier Blanc fino ai piedi dello zoccolo del Refuge des Ecrins, dove ho della roba da recuperare. Ordino il materiale e riparto. Un’altra oretta fino al Refuge du Glacier Blanc e poi ancora un’oretta fino al parcheggione di Pré de Madame Carle, tutto senza soste. L’ultima ora è una cosa mai vista: sul sentiero tra il Refuge du Glacier Blanc e il parcheggio sembra di essere in spiaggia a Rimini il 15 di agosto, c’è tanta di quella gente che non capisco bene se il caldo insopportabile che sento viene da quella o dal sole a picco sopra la mia testa.
E’ passato mezzogiorno da pochi minuti quando raggiungo la macchina e mi scarico lo zaino dalle spalle. L’ordine delle priorità adesso è: finire di bere tutto quello che mi è rimasto da bere; accendere il motore e mettere l’aria condizionata al massimo; cambiarmi. E poi partire; tra le cose più complicate della giornata è riuscire a slalomeggiare tra le macchine in cerca di parcheggio che ruotano in continuazione tra le stradine del posto, per riguadagnare la strada verso casa. Non me lo spiego: è festa in Francia il 19 luglio? Qui ieri era deserto, e invece adesso non c’è un metro quadrato libero. Non so, sarà solo una questione di orario.
E basta. Manca solo il viaggio di ritorno. Tanto per dare una misura dell’odissea dell’andata: ieri mi ci erano volute sette ore di viaggio; oggi, compresa una sosta in autogrill e un traffico mediamente sostenuto, impiego 3 ore e 45 per arrivare a casa. Vabbè; adesso magari posso dire che se è stata la compensazione necessaria per la favolosa giornata di oggi può anche esserne valsa la pena; in realtà penso che ne sia valsa la pena anche solo per avere avuto una cosa tanto assurda di cui parlare.
Mirko Sala Tesciat
2006
|