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Lenzspitze

Cresta est-nord-est e cresta sud-est al Nadelhorn

22-23 luglio 2006
Mirko, Andrea
 Nadelgrat - 18-19 luglio 1998

E’ arrivata anche l’ora della Lenzspitze.

La parete nord-est della Lenzspitze e la cresta est-nord-est

Non è stato bello da parte mia lasciare in sospeso per così tanto tempo, tra le relazioni di tutte le montagne che abbiamo visitato nella trascorsa estate, proprio quella della salita che considero la più significativa, positiva, divertente, impegnativa e - come si dice - di soddisfazione. Ho delle validissime scuse ovviamente, ma dopo gli eoni che ho lasciato passare è meglio non perdere altro tempo ad enumerarle.
Allora... sono reduce da tre settimane di belle montagne: un paio di splendide sortite a Droites e Ecrins, e una meno positiva salita allo Zumstein. Abbiamo visto quel po’ di quota che ci basta per pensare di avere un acclimatamento decente ed abbiamo potuto osservare le condizioni delle montagne di questa stagione, secca e calda abbastanza da avere tenuto pulite le vie di roccia in quota. Per proseguire con l’’allenamento’ pensiamo che la Lenzspitze sarebbe perfetta: la cresta est-nord-est è una bellissima via su roccia che corteggiamo ormai da parecchio tempo ma che non abbiamo mai trovato nelle condizioni necessarie. Quest’anno invece pare che azzecchiamo il fine settimana giusto, perchè quando Andrea telefona alla Mischabelhutte il gestore con cui parla lo informa che la cresta è in ottime condizioni e che è già sata salita da diverse cordate. Apposto, il programma è fatto, non ci servono altre informazioni: andiamo, guardiamo e vinciamo; molto semplice.

Lo dobbiamo realizzare in uno dei soliti fine settimana di inizio estate, di quando il lavoro di Andrea ci permette di partire solo il sabato pomeriggio. Questo non fa eccezione; partiamo appena dopo pranzo alla volta di Saas Fee. Per essere esatti il ‘dopo pranzo’ vale solo per me, perchè per Andrea, sempre come da consolidato modello, il pranzo è fatto dai due panini che si mangia in macchina mentre guida.
Viaggio spedito e tranquillo, niente gran premi, niente fretta; abbiamo una funivia da prendere ma ne conosciamo gli orari, molto permissivi. Fila tutto liscio; anche in dogana stranamente ci lasciano passare senza scrutarci come criminali. Arriviamo poco dopo le 4 al parcheggione di Saas Fee; mezz’ora per i preparativi e la scarpinata attraverso il paese, poi la funivia fino alla Hannigalp e finalmente, quando manca un quarto alle 5, possiamo iniziare la nostra camminata.
C’è un tempo orribile. Le previsioni davano tempo buono per tutto il week end, ma qui è tutto coperto e decisamente cupo. Alle nostre spalle poi, più o meno in linea con la Weissmies, il cielo è ancora più nero e a tratti ci arriva l’eco sommesso di tuoni sempre più vicini. Il pericolo in agguato ci convince a mettere alla prova il nostro allenamento: saliamo piuttosto veloci, senza soste. Solo poche eccezioni, qualche attimo di respiro mentre osserviamo un piccolo stambecchino solitario e un paio di attese forzate durante il tratto attrezzato, dove arriviamo a contato di un paio di gruppetti di escursionisti un po’ impacciati tra cavi e scalette; un paio di fotografie al tratto ferrato valgono l’attesa. Alla fine la fretta e un paio di nenie indiane anti pioggia recitate mentalmente riescono a salvarci dal temporale imminente. Arriviamo alle Mischabelhutten alle 6 e mezza precise, dopo un’ora e tre quarti di cammino: il record del percorso, per quello che ci riguarda.
Pochi minuti dopo il nostro arrivo, proprio come è successo quattro giorni fa negli Ecrins, inizia il diluvio: un acquazzone pazzesco; per noi un tempismo perfetto, ma gli escursionisti che abbiamo superato avranno ancora un bel po’ di strada da fare sotto a quest’acqua. Li rivedremo solo un’oretta più tardi, durante la cena: noi comodamente seduti al nostro tavolo, caldi e asciutti, e loro appena arrivati, completamente inzuppati; mi rivedo in tante situazioni meno fortunate di oggi quando ci penso.
Però torniamo a prima di cena, perchè ci sono ancora un po’ di cose che dobbiamo fare prima di dedicarci al riposo: come registrarci, farci assegnare i posti letto, e sistemare la nostra roba. I posti letto che abbiamo sono come sempre nel rifugetto piccolo, nella bergfuhrer lager. Una corsetta sotto l’acqua per raggiungerlo... Quando troviamo i posti con i nostri numeri ci accorgiamo che uno dei materassi è occupato da un altro svizzero; proviamo a spiegargli la situazione, ma quello è mezzo addormentato e interamente rintronato, non ha nessuna intenzione di spostarsi e ci dice che tanto la stanza è quasi tutta vuota e che possiamo metterci in qualsiasi altro posto. Questo atteggiamento non va assolutamente d’accordo con l’efficiente precisione svizzera. Non ci interessa, siamo d’accordo noi col fatto che ci possiamo mettere in qualsiasi altro posto... per ora, ma se per caso capiterà di dover questionare con qualche altro futuro ospite per un conflitto di posti sappiamo già come risolveremo la cosa. C’è un solo particolare che non mi va giù: il posto che avrei avuto io se fossero state rispettate le direttive del gestore sarebbe sato quello al piano superiore vicino alla finestra...
La cena è alle 7 e un quarto. Il gestore... uno dei gestori ci direziona con la solita precisione ai nostri posti. Anche qui le portate sono standardizzate al massimo: tagessuppe (il solito brodo spesso e speziato), un piattone unico di pasta (non condita e scotta come da tradizione svizzera) e carne (con contorno di piselli), e una mini macedonia di frutta sciroppata.
Andrea si fa ripetre dal gestore... da uno dei gestori le considerazioni sullo stato della cresta. Fino a questo pomeriggio sarebbero state incoraggianti, la cresta era pulita ed era stata percorsa con successo diverse volte, ma adesso con questa pioggia non sappiamo cosa figurarci per domani. Il gestore (...) si dimostra pessimista; noi no. Non perchè pensiamo di andare incontro ad una passeggiata, non perchè non sappiamo che tutta l’acqua che sta cadendo qui adesso è neve che sta cadendo in quota, ma solo perchè ci permettiamo di non darle peso. In questo momento siamo armati dello spirito migliore che possa capitare in questi posti: della voglia di andare a vedere quello che la montagna avrà intenzione di riservarci. Quello che sapremo fare lo faremo, il resto lo lasceremo ai più bravi.
Quando usciamo per andare a nanna non sta più piovendo, ma ci sono nuvole molto basse. Non fa niente, ci diciamo, tanto domani sarà bello.
Una volta in camera facciamo appena in tempo a sistemarci e sdraiarci nei nostri ‘nuovi’ posti quando arriva una compagnia di ragazzi ai quali sono stati assegnati proprio questi materassi. Spieghiamo la situazione e lasciamo che siano loro a decidere: o si prendono i loro legttimi posti e noi andiamo a sfrattare l’usurpatore originale, oppure anche loro si adattano a scegliere una diversa sistemazione tra i posti liberi. Anche loro si conformano alla tendenza imperante e vanno a sistemarsi di fianco all’intruso.

Cinque ore di sonno, notte tranquilla, un buon riposo. La colazione è fissata per le 3; abbiamo puntato la sveglia alle 2:30 e quando un gestore arriva per avvisarci siamo già in piedi da un po’ e abbiamo già sistemato come si deve i nostri zaini: equipaggiamento essenziale, peso minimo; con l’età posso dire se non altro di avere imparato a fare i bagagli.
In sala da pranzo è sempre il dito di un gestore a stabilire dove si deve sistemare ognuno. Ci riempiamo la pancia con qualcosa di caldo e finalmente arriva l’ora della partenza. Lasciamo il rifugio alle 3:30, in perfetto accordo con i piani.

Mirko impegnato in uno dei numerosi diedri, nella prima parte della cresta

Siamo i primi a partire, con diversi minuti di vantaggio sui compagni di colazione: due svizzeri di cui non conosciamo la meta, ma supponiamo - visto l’orario - che abbiano la nostra stessa destinazione. Il tempo è splendido, il cielo limpido; non fa freddo, ma soffia un po’ di vento; qui è appena percettibile, ma capiamo che in cresta potrebbe iniziare a dare fastidio.
Conosciamo abbastanza bene questo primo tratto di salita, che abbiamo già percorso altre tre volte in passato, diretti al Nadelhorn o alla Nadelgrat. Al buio non è sempre semplice orientarsi tra le facili roccette, ma qualche traccia di sentiero, qualche rara freccia dipinta e diversi ometti, alla faccia della wilderness, aiutano nel compito. Si attraversano gradoni di sassi, tracce di sabbietta, qualche saltino di primo grado; alle volte viene addirittura il sospetto di dover iniziare a usare le mani e arrampicare... ma subito ci si ricrede. Vicino al rifugio c’è anche una scaletta a pioli, da usare per superare l’unico salto roccioso complicato: l’aiuto artificiale della scala, in barba all’etichetta, è giustificato dal fatto che anche il salto roccioso è artificiale, creato per fare posto ad una specie di... qualcosa... forse una cisterna d’acqua... o forse no.
Saliamo tutto il tratto fino ai nevai in prossimità dell’attacco della cresta. Superiamo il bivio con la traccia che si inoltra nel ghiacciaio; o meglio: superiamo la zona dove dovrebbe esseci il bivio, perchè in realtà di tracce non vediamo nemmeno l’ombra, e consideriamo con soddisfazione il fatto di non avere bisogno di cercarla: a noi basta proseguire in linea retta lungo il crinale che porta in cresta, percorso facile e ovvio. Fino a qui abbiamo trovato terreno piuttosto buono e roccia per lo più asciutta, ma quando scolliniamo vicini al primo nevaio ci troviamo tra lastroni di roccia parecchio incrostata, c’è polvere di ghiaccio appiccicata ovunque, saldamente ancorata ad ogni superficie, e la faccenda inizia a farsi decisamente scivolosa. Oltretutto ora siamo più vicni al filo di cresta, non più sul versante protetto del crinale, e il vento comincia a farsi più deciso e freddo.
Proseguiamo lungo un primo tratto dove la cresta si fa più marcata e ripida, prima oltre il secondo nevaio, poi per semplici gradini rocciosi, poi di nuovo per neve e ghiaccio. Arriviamo in un punto in cui il pendio si abbatte, attraversiamo un ultimo tratto ghiacciato, e infine mettiamo piede sulle roccette della cresta vera e propria; da questo momento cominciamo a sentirci veramente a tu per tu con la Lenzspitze.
In alto, apparentemente molto spostate sulla sinistra, scorgiamo delle luci: sembrano bagliori di pile frontali e sembrano lontanissime. Non c’è luna questa notte, il buio è assoluto, e non riusciamo a farci un’idea né della posizione né della distanza delle luci. Si scorge appena la differenza tra il nero della sagoma della Lenzspitze e il buio del cielo e non capiamo dove si possano trovare; il profilo che scorgiamo lì sulla sinistra, per quello che possiamo capire, potrebbe essere indifferentemente la sagoma di un avancorpo della nostra cresta, oppure la linea della cresta sud che scende verso il Dom, un chilometro più lontano... tirando ad indovinare diremmo che quelle frontali potrebbero essere sperdute da qualche parte nel pieno del versante orientale della Lenzspitze. A tratti, salendo, diamo un’occhiata per capirci qualcosa di più e pare che si stiano muovendo verso di noi. Ma è gente che sta scendendo dalla cresta?

Mirko durante il superamento della 'prima placca'

Capiamo qualcosa solo quando gli arriviamo quasi a ridosso. Superato il primo tratto di facili roccette della cresta li raggiungiamo: sono due ragazzi inglesi partiti per salire la nostra stessa cresta, ma non chiediamo quando, né da dove; se sono partiti dalle Mischabelhutten anche loro deve essere stato un bel po’ di tempo fa. Avevano proseguito ancora per un tratto, oltre questo punto, ma pare che non abbiano trovato la strada giusta, hanno fatto un po’ di ricerca tra le cenge a sinistra del filo di cresta ma non sono approdati a niente, quindi sono ridiscesi e adesso sono lì fermi a combattere col freddo. Ci dicono di non avere ancora deciso cosa fare, forse scenderanno definitivamente.
Al momento mi fanno preoccupare: è così complicato lì sopra? In effetti guardandoci intorno capiamo immediatamente una cosa: la passeggiata è finita e da adesso si inizia ad arrampicare. Immediatamente davanti a noi si alza un bel salto verticale, una placcona di diversi metri, che non sappiamo valutare; pare salibile, ma pare anche non avere niente a che vedere col III grado che sappiamo di dover affrontare. A sinistra invece prosegue una cengia che va a finire in una nicchia; ne sale un breve diedro ed un successivo strapiombino; il brutto è che non si capisce assolutamente nulla del terreno su cui conduce. A condire il tutto la roccia pare sfaldarsi un po’ troppo qui e non mi diverte molto.
Torniamo sui nostri passi fino al punto di incontro con gli inglesi, comodo per pensarci sopra e per prepararci: è arrivato il momento di dare un significato al peso della corda sopportato da Andrea fino a questo momento. Ci leghiamo, teniamo a portata di mano qualche fettuccia e qualche rinvio, mi infilo il windstopper; nel frattempo ci concediamo un sorso d’acqua e un pezzetto di cioccolato.
Poi arriva l’ora di arrampicare. Salutiamo gli inglesi con un “goin’ to take a look”, quindi parto: vado a sinistra, lungo la prima cengia; vogliamo vedere se si passa; se si esce dai primi tre metri poi dovrebbe essere più semplice. Vedo subito quale sarà il problema principale della giornata: la roccia è umida e gelata ed è scivolosissima; anche nei passi più facili, anche sugli appoggi più comodi, è sempre molto infida. Passo la cengia e risalgo il diedrino. C’è uno spigolo da aggirare, un pelino strapiombante in ingresso, ma non pare difficile, ci sono delle belle taccone in alto e si passa abbastanza bene... fino a quando non ti parte un piede proprio sul più bello, come a me: nel pieno dello spigolino mi fido troppo di un appoggio gelato, mi scivola un piede e rimango spiazzato quanto basta da farmi regalare a questa montagna la prima imprecazione della giornata.

L'ultimo tratto della salita, come osservato dal Gran Gendarme

Ristabilito sullo spigolo supero gli ultimi passi fino ad una rampa più facile, quindi proseguo per roccette rotte, facili quanto instabili; salgo in diagonale verso destra per riavvicinarmi al filo di cresta. Mentre Andrea mi raggiunge scorgo in basso le luci di un paio di frontali in rapido avvicinamento; sono ancora sul tratto facile della cresta, all’inizio dell’ultimo tratto ghiacciato, e salgono veloci: devono essere i due svizzeri che abbiamo lasciato al rifugio.
Continuiamo l’arrampicata su difficoltà mediamente contenute, ma sempre complicata dall’immancabile ghiaccio e da spolverate di neve sempre più consistenti. Man mano che si sale la neve si fa progressivamente più abbondante e fastidiosa, e alla scivolosità del terreno si aggiunge il fastidio di dover sempre più spesso ripulire la roccia alla ricerca degli appigli migliori. Se non altro la tecnicità della progressione non ci impensierisce, almeno per ora; fino a quando dura il buio dura anche la facilità dell’arrampicata: i tratti più tecnici li incontreremo solo più avanti.
Nel frattempo ci accorgiamo che anche i 2 inglesi sono ripartiti e ora ci stanno seguendo. Faremo quasi tutta la cresta a stretto contatto, in 3 cordate. A noi toccherà quasi sempre la posizione di testa. I due svizzeri hanno una progressione strana: a tratti sembrano sparire, allontanarsi, restare distanziati anche di parecchio, ma ogni volta li vediamo poi ritornare più veloci di prima.
Finalmente arriva la luce e la montagna cambia faccia. Col sole inizio a rendermi conto del caldo e soltanto adesso mi accorgo che da quando abbiamo iniziato ad arrampicare non siamo mai stati infastiditi dal vento. Abbandono le ultime tracce di soggezione per quello spettacolo che è sempre l’arrampicare al buio in questi ambienti e mi concedo finalmente al puro divertimento della salita su questa roccia fantastica.

Vista sul Nadelhorn, dall'inizio dell'ultima cresta nevosa

Il primo tratto veramente ‘tecnico’ della salita è il superamento di una bella placcona assolata, tagliata da una grossa spaccatura diagonale. C’è uno spit ben visibile nel mezzo della placca; lo si raggiunge seguendo la fessura per roccette stratificate, quindi si prosegue, sempre lungo la spaccatura, fino alla base di un canalino; ci si trova un secondo spit. Mentre salgo vedo che gli inglesi ci raggiungono. Arrivo alla base del canalino mentre sono lì all’attacco che si preparano, qiundi decido di sostare qui per lasciargli spazio. Andrea mi raggiunge velocemente, quindi riparto. Il capocordata degli inglesi sale a poca distanza da Andrea, e quando riparto siamo quasi appaiati: non sosta nel canale, ma prosegue direttamente in un unico tiro più lungo. Si prosegue lungo il canale, poi lungo una facile rampa che riporta sul filo di cresta, e quindi lungo la cresta, qui parecchio affilata. Mi fermo a sostare ad uno spuntone in cresta; l’inglese si ferma qualce metro più avanti; poi è il turno dei nostri compagni: anche loro arrampicano in contemporanea, a strettissimo contatto. I due inglesi sono saliti velocemente, il primo di cordata in particolare mi è sembrato mostrare un po’ di fretta in questo ultimo tratto, quindi aspettiamo che siano loro a ripartire, convinti di vederli sparire veloci davanti a noi. Superate le poche decine di metri rimanenti del tratto di cresta pianeggiante su cui ci troviamo, però, i due si fermano di nuovo; stanno scrutando un brutto salto verticale e hanno l’aria di non capire quale sia la direzione migliore. Quando li raggiungo mi fanno cenno di passare nuovamente davanti. Questo è l’ultimo punto in cui li avremo vicini; da qui in avanti inizieranno ad allontanarsi molto, tanto che arriveranno ad accumulare più di un’ora di ritardo nelle due che ancora ci separano dalla cima. Al contrario gli svizzeri: hanno guadagnato terreno fino a qui, e adesso siamo praticamente tutti e sei insieme.
Ci troviamo qui su una cuspide aguzza e scomoda; dobbiamo scendere per raggiungere una selletta qualche metro più in basso. Aggiro la punta sulla destra per placchette lisce inclinate e dopo qualche passo di discesa arrivo all’inizio di un saltino un po’ troppo ripido. Sono solo un paio di metri, ma il luogo è decisamente esposto e la placchetta da scendere un po’ troppo levigata per i miei gusti. Non me la sento di scendere in arrampicata e Galis si dice d’accordo. Ci accorgiamo di non essere stati gli unici a pensarla in questo modo, perche lì vicino ci sono un paio di cordini abbandonati. Li potremmo usare per una breve calata, ma tra le cose che non mi piacciono di questo posto c’è anche l’aspetto consunto e usurato di questi vecchi cordini: decidiamo di integrarli con una fettuccia delle nostre. Completiamo velocemente la calata per dare spazio ai nostri compagni di viaggio. Anche loro decidono per la doppia. Galis gli fa notare che non si devono preoccupare per la calata perchè quella fettuccia blu lì è nuova nuova.
Oltre la forcelletta si continua per tratti più facili. Dopo l’aggiramento di una piccola ennesima cuspide e un breve tratto di cresta orizzontale, invece, si arriva ad un’altra bella placcona: si spacca per superare un breve saltino, si sale un muretto fino ad un fittone - in uscita dal passaggio più tecnico - e quindi si risale questa bella placcona liscia e abbattuta. Valutiamo di trovarci sul Gran Gendarme. Queste placche sono i punti che sulla carta dovrebbero essere i più tecnici della salita, ma oggi sono anche quelli più gestibili, perché sono tutte pulite e assolate: non ci si trovano mai i problemi che invece si trovano nei tratti più appoggiati, perché tutte le cengette e le roccette spaccate che normalmente dovrebbero essere semplici, sono invece sempre molto incrostate di neve e ghiaccio. Sempre di più tra l’altro: sono costretto sempre più spesso alle mie opere di spazzolamento della neve dalla roccia.
Arriviamo in cima al Gran Gendarme. E’ il punto da cui vedo per la prima volta la cima della Lenzspitze, la nostra meta. Una botta clamorosa. Inizio con lo sfiduciarmi parecchio: non avevo ancora visto la cima durante la salita, non avevo un riferimento preciso circa quale poteva essere la nostra posizione sulla cresta, ma dall’osservazione della cima del Nadelhorn e del dislivello che mi sembrava di valutare avevo iniziato con l’immaginare e sperare di trovarmi ben più in alto di quanto invece adesso non mi sono accorto di essere. Se guardo in basso verso l’attacco della cresta, e in alto verso la cima, mi sembra di essere più o meno a metà strada. Se guardo l’orologio però mi rendo conto che è tutto nella normalità: siamo in giro da 3 ore e 45 minuti, e a occhio direi che ce ne mancano almeno un altro paio per arrivare in cima.

Andrea in cima alla Lenzspitze; sullo sfondo il Nadelhorn e la sua cresta sud-est

Allora, diamo un’occhiata a quello che ci aspetta: da qui si deve innanzitutto scendere per un bel tratto; dobbiamo abbandonare questo gendarme ed è molto profonda la sella che dobbiamo raggiungere e la discesa non appare semplice. Poi c’è un bel tratto di cresta orizzontale che raccorda il gendarme alla testa della Lenzspitze; ci sono roccette molto incrostate e tratti con qualche cornice. E poi c’è il meraviglioso piramidone di quest’ultimo tratto di montagna: capiamo che si dovrà seguire un canale di rocce molto cariche di neve che sale in diagonale verso sinistra; speriamo di trovarlo meno ripido di quanto non appaia da questo punto; poi una lunghissima rampa più appoggiata per tornare in cresta e poi una ripida cresta di neve; stessa considerazione di cui sopra per la ripidezza del tratto nevoso. Sono fiducioso per la ripidezza del canale, ma decisamente molto meno per quella della cresta nevosa. Incastonato in testa a tutto, alla fine, un cimino roccioso indecifrabile.
Cominciamo col pensare alla dicesa dal Gran Gendarme. C’è una grandissima scaglia che forma uno stretto caminetto con la parete principale della guglia; è necessario scendere per placche e lame fino alla scaglia, quindi lungo il camino fino all’angusto terrazzino alla sua base. Potremmo attrezzare anche qui una doppia, ma c’è una corda fissa bella ghiacciata che scende lungo tutto il camino: mi ci appendo e, senza la minima intenzione di usare altro che la corda fissa, scendo incastrandomi a più riprese nel fessurone, senza il più piccolo briciolo di grazia. Faccio qualche passo tra le roccette innevate della cresta che segue fino ad uno spuntoncino, quindi aspetto Andrea che ripete le mie manovre con un bel po’ più di stile; impresa tutt’altro che complicata.
Superiamo il tratto di cresta orizzontale, infido e molto incrostato, ma ricco di spuntoni che possiamo sfruttare per muoverci con un po’ più di sicurezza; superiamo l’intero tratto piuttosto velocemente e arriviamo alla base del canale. Ci accorgiamo che le valutazioni fatte dal gendarme erano corrette: la via passa davvero dal canale, lo si può salire piuttosto agevolmente per abbandonarlo solo in alto a favore della rampa che riporta in cresta. Qui cominciamo a prendere un bel ritmo, ci muoviamo molto velocemente, il terreno è piuttosto facile e la neve decisamente abbondante non è fastidiosa quanto temevamo. In questo tratto ci allontaniamo da tutti; solo in alto, sull’ultimo tratto di neve, ci si riavvicineranno gli svizzeri; gli inglesi invece sono persi definitivamente.
Superiamo velocemente il canalone, poi è il turno delle roccette spaccate che riconducono in cresta, non complicate ma purtroppo spesso parecchio instabili; qui la neve torna a dare più fastidio che non nel canale. Seguiamo le facili roccette del breve tratto di cresta che segue e infine arriviamo alla tanto attesa cresta nevosa.

Inquadratura su Dom e Taschhorn, dalla cima della Lenzspitze

Da qui le cose sembrano più semplici di come ci erano parse da lontano: inizialmente saliamo per un pendio aperto facile, attenti solo a tenerci a debita distanza dalle grosse cornici che sporgono alla nostra sinistra; siamo sui 40°, più o meno, poi la pendenza aumenta progressivamente, fino ad arrivare intorno ai 50° degli ultimissimi metri di questo primo risalto, per poi abbattersi di nuovo. A destra vediamo l’impressionante scivolone della parete nord-est.
Il tratto nevoso non è finito: si sale ancora per pendio nevoso in direzione del piramidino roccioso della cima. Proprio questo si rivela il tratto più complicato: a poca distanza dalle roccette ci troviamo di nuovo intorno ai 50°, proprio nel tratto più esposto; a completare il quadro siamo su ghiaccio duro, non più sulla soffice neve del primo tratto di cresta. Piazzo una bella vite nel mezzo dello scivolo di ghiaccio perché non ho nessuna voglia di rischiare per niente proprio adesso. Sempre per neve diagonalizziamo fuori dal pendio fino alle ultime roccette, quindi seguendole per pochi facili gradini arriviamo in cima.
Ore 9:00. 5 ore e 30 di salita.
Restiamo in cima parecchio tempo, che impieghiamo per scattare alcuni milioni di fotografie. Previsioni rispettate, tempo splendido, forma perfetta... Mi riconosco contentissimo di tutto, del divertiemento, dell’arrampicata, della salita fatta e dell’averla trovata nelle condizioni in cui l’abbiamo trovata.
Presto ci raggiungono i due svizzeri, che negli ultimi minuti si erano fatti più vicini. Degli inglesi invece non c’è traccia; li vedremo solo parecchio più tardi, mentre saremo già impegnati nella traversata al Nadelhorn; avranno più o meno un’oretta di ritardo.

Alle 9 e mezza passate ripartiamo in direzione del Nadelhorn: abbiamo intenzione di completare la traversata e di scendere poi dalla sua via normale. La traversata sarà una successione infinita di guglie e forcelle, salite, discese, calate. Una bellissima arrampicata col sole che finalmente cerca di scaldare anche qui, mai complicata se non in qualche rara placchetta di discesa, sempre a causa del solito ghiaccio.
Iniziamo con la discesa di una prima serie di placchette molto incrostate, delicate, appena sotto alla cima della Lenzspitze. Cerchiamo di stare sempre il più possibile vicini al filo di cresta, alla ricerca della minore esposizione e soprattutto della roccia più solida: allontanandosi dal filo la roccia si dimostra molto friabile e pericolosa, ma in cresta rimane ottima e pulita da terriccio e ghiaietta.
Attraversiamo un’alternanza di placche levigate appoggiate e tratti di roccia più rotta, sempre più contenti quando ci capita di incontrare qualche tratto più verticale, perchè le placchette inclinate sono sempre scivolosissime per via del ghiaccio che da qui non se ne vuole proprio andare. Non c’è moltissima neve, ma quella che c’è è ghiacciatissima e molto fastidiosa. Ho i ramponi a portata di mano, appesi all’imbragatura, e in un paio di occasioni mi tocca rimetterli, anche per superare passaggi di pochissimi metri.
In un’oretta arriviamo al Nadeljoch. Adesso la cresta pare più pulita, aumentano le salite e diminuiscono le discese, si comincia ad arrampicare di più e a scivolare di meno. E si inizia ad avvertire il calore sulla roccia: è bello arrampicare qui. Sarebbe perfetto se non iniziasse ad affiorare la stanchezza per la salita, amplificata dalla quota.
Quella che affrontiamo è una successione solo apparentemente infinita di torri. Si sale, si scende, si aggira, si risale, si ridiscende. Diverse volte dobbiamo ricorrere a brevi calate in doppia; spesso troviamo spit con maglia metallica o fittoni ad agevolare le calate. In genere io calo Galis, e poi scendo in doppia, per sveltire le manovre. Smetto di contare le volte che mi slego e mi rilego per calarmi. E smetto di contare le volte che mi capita di interloquire con il capocordata degli svizzeri che seguono: stiamo procedendo quasi insieme, in genere noi teniamo un po’ di vantaggio, in un elastico dettato dalle manovre di corda: quando dobbiamo attrezzare una doppia ci raggiungono, quando l’attrezzano loro riprendiamo la stessa distanza; ed ogni volta che mi trovo lì a calare Andrea e il primo svizzero mi raggiunge, lo sento chiedermi sconsolato: “rope down again?”; “yes, once more”; “rope down again?”; “yes”; “again?!?”; “yes...”.
Ogni volta che ci troviamo in un punto di osservazione favorevole, in cima ad una delle miriadi di gugliette che arriviamo a toccare, cerchiamo di contare le torri che ci rimangono; ogni volta sembrano poche, ma quel poco che contiamo lo ricontiamo sempre uguale dalla torre successiva. Salite e discese sembrano non finire mai.

Mirko e Andrea in cima al Nadelhorn

Le ultime torri sono le più alte e divertenti; sono quelle più definite della cresta, più imponenti e verticali. Il tipo di arrampicata è sempre quello, per muretti di roccette stratificate e spaccate, dalla struttura talmente ricca di appigli da permettere di salire con facilità anche nei punti più verticali ed esposti, anche dove il primo colpo d’occhio sulla parete la fa sembrare un muro liscio e compatto. Quando raggiungiamo la penultima torre la vedo con un po’ di soggezione, la sua vista mi trova impreparato, abituato dalle gugliette minori attraversate fino a quel momento; in realtà l’arrampicata si rivela poi emozionante ma sempre facile: si sale un muretto, poi si piega a destra fino ad uno spigolo, quindi si traversa decisamente a sinistra, si aggira un avancorpo strapiombante e si risale per rocce facili alla cima. Anche l’ultima torre riserva una bellissima arrampicata: è fatta da un bel murone verticale molto alto da salire direttamente fino alla cresta sommitale.
Con pochi passi sulle ultime facili roccette dell’ultimo tratto di cresta arriviamo in cima. Sono le 12:15. Mi trovo ad ansimare abbracciato alla croce di vetta, non spinto da un particolare fervore religioso, ma costretto dalla fatica, dall’aria dei 4300 metri, e dalla corsetta tra questi ultimi balzi rocciosi.
Scarichiamo scatti a ripetizione anche da questa altra cima. Purtroppo il tempo sta iniziando a guastarsi; non ci sono pericoli, ma il cielo si incupisce a tratti, iniziano a condensarsi nuvole anche intorno a noi e le nostre montagne ne restano inesorabilmente velate. Chiediamo agli improvvisati compagni di salita il favore di un’ultima fotografia, quindi, dopo una lunga sosta, ci dedichiamo alla discesa.

Questa è facile, semplicemente la via normale del Nadelhorn.

Quel burlone del gestore... Devono avergli chiesto troppe volte delucidazioni sul come superare il primo tratto di roccette

In realtà, all’inizio, diversa da come la ricordavo. Per tutto il primo tratto roccioso, fino a dove la cresta si fa nevosa e meno ripida, si segue una traccia che si snoda tra sentierini fangosi e roccette marce. Poi è il turno del crestone di neve, molto ben tracciato; solo in un paio di tratti di traverso troviamo del ghiaccio affiorante e dobbiamo fare un po’ di attenzione.
Facciamo una breve sosta al Windjoch, quindi ripartiamo lungo il successivo ripido pendio: avrei voglia di farlo in scivolata, ma lo troviamo cosparso di crepaccetti e affioramenti ghiacciati, quindi ci tocca faticare anche qui.
Attraversiamo il plateau dell’ampia conca tra Lenzspitze e Nadelhorn, un’ultima sosta per slegarci e toglierci definitivamente i ramponi, e quindi scendiamo per le ultime tracce fino al rifugio.
Arriviamo alle Mischabelhutten senza più alcuna pretesa di raggiungere in tempo l’ultima funivia. Ci rimaniamo per un bel po’ di tempo, ci concediamo una bella Coca-Cola, sognata nell’ultima mezz’ora di discesa, e andiamo a recuperare il materiale che abbiamo lasciato la mattina nel rifugetto inferiore, dove abbiamo passato la notte. Una sorpresa: lo troviamo chiuso a chiave; i gestori hanno fatto le pulizie, hanno controllato, non si sono accorti del materiale di nessuno, e hanno chiuso tutto. Siamo costretti a farcelo riaprire apposta.
Ripartiamo alla volta di Saas Fee alle 16:15 e arriviamo alla macchina alle 6 e mezza.
E basta. Fine dell’avventura.
A parte un’ultima nota, che mi dispiacerebbe dimenticare per il fatto di non averla scritta: lo schizzo di quel doganiere svizzero, al Sempione, che all’ultimo momento si rende conto di dover pareggiare i conti con quell’attraversamento di confine troppo tranquillo che ci era stato concesso il pomeriggio di ieri. Siamo lì in coda alla dogana per rientrare in Italia, ci approssimiamo al doganiere lentamente, come è normale fare, e quello ci fa segno di proseguire, come è altrettanto normale; solo che mentre passiamo quello ci guarda meglio in faccia e si accorge che siamo dei criminali, si accorge di avere sbagliato a dirci di proseguire senza controllarci per benino, quindi si mette a urlare, lì in mezzo alla strada, per farci fermare. Ovviamente ci fermiamo, dieci metri oltre la frontiera. Troppo bello lo sguardo del doganiere che si avvicina pensando: credevate di farla franca, eh?


Mirko Sala Tesciat
2007

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