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Les Droites

Via normale, cresta est

8-9 luglio 2006
Mirko, Andrea (Silvano)
 Droites Atto II: L'Inganno - 26-27 giugno 2004

Droites Atto Finale: La Vendetta

Dovrei scrivere di un “Atto III”, magari V, o VI... secondo i punti di vista.
Una volta, nel ’97, eravamo partiti tutti insieme per le Droites, io, Silvano e Andrea; eravamo arrivati alla crepaccia terminale alla base del canalino che porta in cresta; ero sceso nella crepaccia e risalito per rocce dalla parte opposta, sulla destra del canale, tanto per provare che si poteva fare, ma poi eravamo tornati a casa, un po’ per il ritardo che avevamo accumulato lungo il ghiacciaio, un po’ per scazzo, e un po’ perché non mi sentivo troppo bene. Ci avevamo riprovato io e Andrea in tempi più recenti, ma non eravamo riusciti a fare altro che un po’ di cinema attraverso un ghiacciaio devastato da crepacci e ricoperto da una poltiglia di neve indecifrabile; non eravamo nemmeno arrivati al canale. Poi c’è una bella serie di disgrazie climatiche di cui tenere conto, distribuite tra il ’95 e il 2005: al Couvercle ci sono stato altre tre volte, una volta con Silvano (due giorni in tenda sotto la neve), e due volte con Andrea (una volta in tenda e una volta in rifugio, e siamo stati molto contenti del fatto che quando eravamo in rifugio il tempo fosse molto peggio di quando eravamo in tenda). Quindi tutto sommato per me fa un totale di cinque volte che ho raggiunto il Refuge du Couvercle con l’intenzione - più o meno - di salire le Droites; suppongo che questo faccia di me, tra gli amici del Club, il collezionista del maggior numero di insuccessi ai piedi di questa montagna.

Il versante meridionale delle Droites, dai pressi del Refuge du Couvercle

Però questo è il 2006, e il 2006 è una buona annata per le montagne. Intanto non è un anno dispari e non è un anno bisestile, e già questo non è un fattore da trascurare. Ma anche numeri a parte questi primi mesi sono stati un periodo positivo. E’ vero che dal punto di vista alpinistico l’anno è appena iniziato, quindi forse non lo dovrei dire per non rischiare di essere smentito poi dai fatti; eppure, nonostante tutta la pioggia che c’è stata e tutti i programmi che si sono dovuti spostare, il 2006 si sta rivelando decisamente promettente. Me ne accorgo dalle sensazioni che mi rimangono ogni volta che torno da una montagna, ogni volta che arrampico, ogni volta che mi alleno. Quanto tempo era che non avevo tutta questa voglia di allenarmi la sera? Quanto tempo era che non avevo tutta questa voglia di uscire presto dall’ufficio per andare a farmi una corsa in montagna? Da quanto non mi divertivo così tanto in falesia? Da quanto non mi sentivo così a mio agio ad arrampicare in Grignetta? C’è stato un tempo infame quest’anno, tra inverno e primavera, eppure è sempre andato tutto bene così come è stato; abbiamo dovuto rinunciare a parecchi progetti, ma alla fine è stato grandioso riuscire a strappare quelle montagne tra un temporale e l’altro, salire sotto la neve e scappare sotto la pioggia. E una bella soddisfazione trovarsi in cima a montagne alle quali ho pensato per anni ma su cui, per un motivo o per l’altro, non ero mai stato, come il Piz Cornin, o il San Matteo, o la Cima Piazzi. Non c’è che dire: il 2006 si sta rivelando un grande anno, un anno in cui può capitare di ritrovare stimoli dopo un periodo infinito in cui la montagna sembrava essere appassita, dove può capitare di riconquistare le proprie soddisfazioni dopo anni in cui sembravano avere perso di significato. Un anno in cui può capitare di arrivare in cima alle Droites lo stesso giorno in cui l’Italia vince la finale della coppa del mondo di calcio. Un grande anno.

Ci troviamo all’inizio di un mese di Luglio in cui le altissime temperature stanno rendendo problematiche tutte le vie di neve e ghiaccio in alta montagna; abbiamo raccolto osservazioni e notizie sconfortanti da diverse direzioni, pare che per settimane abbiamo avuto lo zero ben oltre i 4000 metri e anche adesso le cose non sono diverse: la neve non gela nemmeno in quota, rimane instabile e fastidiosa e già con il primo sole inizia a farsi pericolosa. Quindi cerchiamo di puntare a qualche meta dove possiamo immaginare di trovare le difficoltà maggiori su roccia, e neve non troppo problematica. Le Droites ci sembrano una scelta perfetta: non ne sappiamo moltissimo, ma conosciamo delle brevi relazioni che le descrivono come una montagna dalle difficoltà abbordabili: fino al III su roccia e pendenze trascurabili. Prendiamo la decisione definitiva il venerdì. Ci permettiamo di pensarci con ottimismo, perché pare che le condizioni delle vie di roccia siano molto buone e non ci aspettiamo particolari difficoltà.
L’idea che ho sempre avuto delle Droites è proprio quella di una montagna di non particolare impegno; sarà una considerazione irrazionale, immotivata, ma è così: forse per il fatto che dopo essermici avvicinato così tante volte ho iniziato a vederle con un’aria di familiarità particolare; o forse perché è l’idea che traspare dal modo in cui vengono trattate dalle relazioni che conosco. Sarò costretto a ricredermi, ma per il momento è l’idea che mi permette di pensare ai preparativi e al viaggio con tutta la leggerezza che voglio.
Dopo settimane di impegni di lavoro, finalmente questo week-end è libero anche Silvano; partiremo insieme questa volta, io, lui e Andrea. Il sabato mattina è proprio Silvano che chiama il Refuge du Couvercle per chiedere se è possibile riservare i 3 posti per la notte. Purtroppo posti non ce ne sono: il rifugio è al completo, non è possibile dormire né cenare, quindi saremo costretti ad arrangiarci per conto nostro. Dal gestore però apprende almeno qualche notizia confortante riguardo la montagna e la via di salita: pare che le condizioni siano buone e che le Droites siano frequentate, che siano già state salite. Trattiamo l’informazione senza troppa convinzione, memori di esperienze passate non particolarmente incoraggianti, ma se non altro possiamo dire che confermano le altre notizie che conosciamo e che Andrea ha appreso spulciando qua e là per internet, tra i siti di diverse organizzazioni alpine.
Il fatto di dover fare tutta la salita dal Montenvers al Couvercle con il peso della tenda e di tutto il materiale da campeggio in spalla non ci entusiasma in modo particolare, quindi conveniamo di ridurre al minimo il materiale, nonostante il bivacco forzato: lasciamo a casa i sacchi a pelo, che sostituiamo con degli esili sacchi da bivacco, e rinunciamo al fornelletto e al pentolame: ci porteremo solo panini e qualche scatoletta. Andrea rinuncia anche al materassino; io e Silvano invece lo portiamo comunque. Alla fine riesco miracolosamente a far stare tutto il mio bagaglio nel piccolissimo Dexter: il mio micro zainetto da 30L, con ogni sorta di aggeggio appeso all’esterno, è strabordante di materiale, ma sopporta stoicamente il suo compito. Comprese le due piccozze e la mezza tenda - spartita con Andrea - raggiunge i 13 chili senza lamentarsi. Si lamenteranno più tardi le mie spalle.

La partenza è fissata per sabato dopo pranzo. Intorno alle 12:30 usciamo di casa io e Silvano; passiamo da Andrea, e prima della una siamo in superstrada diretti verso Chamonix. Viaggio tranquillo e senza particolari degni di nota.
A tratti scrutiamo il cielo in direzione dell’arco alpino, dove dei pesanti nuvoloni coprono l’intero orizzonte. Le previsioni non sono buonissime: indicano una bella giornata per domani, ma oggi ci sono rischi di temporali per il pomeriggio, e le nuvole che vediamo non sono incoraggianti. Decidiamo di dimenticarcene fino a quando non sarà il momento di camminare.
Sono circa le tre e mezza quando entriamo in macchina nell’enorme parcheggione sterrato di Chamonix, vicino alla stazione del trenino per Montenvers. Non abbiamo problemi di orario, ma la camminata sarà lunga, perciò cerchiamo di non perdere troppo tempo.
Prepariamo tutta la nostra roba. Io ancora non ho deciso se portare una o due piccozze; alla fine mi convince Andrea a caricarne due: non pensiamo di avere problemi sulla via normale, ma se saliremo dal versante delle Courtes, dal pendio del Col des Droites, non sappiamo cosa aspettarci dal tratto del traverso tra la normale alle Courtes e la cresta sud.
Io e Andrea ci dividiamo la tenda: lui si infila un telo nello zaino e io mi appendo agli spallacci il resto. Poi alla stazione; intorno alle quattro saliamo su un trenino quasi deserto; alle 16:04 si parte; alle 16:30 si arriva; alle 16:34 si fanno i primi passi sul sentierino che porta verso le scalette per la discesa alla Mer de Glace.
Il tempo non è male, si sta bene anche se ogni tanto soffia un venticello gelato. Peccato solo per i nuvoloni che coprono il Dru.

Andrea e Silvano all'attacco delle scalette per la discesa alla Mer de Glace

Scendiamo la ferrata con calma; io ho la tenda appesa davanti che mi da un po’ fastidio: a fare le scalette in discesa non vedo dove vado e un paio di volte faccio appena in tempo ad accorgermi dell’arrivo dell’ultimo piolo...
Poi il ghiacciaio. Facciamo le cose per bene, non ci sono troppi crepacci inevitabili, la direzione è ben intuibile e non dobbiamo fare troppi zig-zag. Il venticello si fa più fastidioso: sul ghiacciaio è più freddo ed è bello ogni tanto sentire qualche sbuffo di aria calda soffiato da chissà dove. Rispetto al solito rimaniamo nella parte destra un po’ troppo a lungo; c’è il solito vecchio fiume a sbarrarci la strada verso la sponda sinistra della Mer de Glace, e questa volta andiamo ad affrontarlo un po’ in ritardo. Ci va bene comunque: risalendolo arriviamo ad un tratto in cui una gran quantità di neve ha creato un solidissimo spesso ponte e lo possiamo attraversare senza intoppi.
Approdati alla morena è il momento del tratto dei faticosi sassoni; si passano le dune, si seguono i soliti chiarissimi omettoni che cercano di guidare attraverso decine di diverse direzioni, si supera il tratto pianeggiante fino ai piedi della bastionata rocciosa lungo cui sale la ferrata.
Ci fermiamo solo un attimo; Silvano si attrezza con un’imbragatura e un cordino, quindi ripartiamo. Qui parte il tratto più faticoso perché è quello in cui si deve guadagnare il maggior dislivello. Andiamo molto tranquilli. Arriviamo in vista del rifugio intorno alle sette e mezza.

Il torrente che taglia la parte superiore della Mer de Glace

Risaliamo l’ultimo tratto di morena e in una decina di minuti ci imbattiamo nel posto perfetto per la nostra tenda. Avevamo in programma di andare a piazzarla più in su, all’altezza del rifugio, tra gli spiazzi dove già ci era capitato di sistemarci negli anni passati; questa volta però decidiamo di rimanere dove siamo: nella valletta a monte della morena, perfettamente riparata dal vento, esattamente sotto al rifugio, si trova una splendida piazzola erbosa, piana, dell’esatta misura di una tenda, circondata da sassoni, chiaro indice di frequentazione di precedenti campeggiatori.
Scarichiamo tutta la nostra roba e ci cambiamo.
E’ ora di cena. Io sono talmente affamato che attacco il mio primo panino nel momento esatto in cui mi tolgo lo zaino di spalla. Andiamo a sederci per la cena tra i sassoni di fianco alla piazzola. La cena è fatta da un paio di panini e da una scatoletta di tonno e piselli. Silvano si reintegra con una mela. Andrea ha addirittura una pizza. Poi girano delle barrette al cioccolato. Tutto sommato fornello e pentolino non ci mancano.
In questo posto siamo circondati dalle marmotte; ce ne sono una buona decina in vista, vicine e lontane. Una in particolare si dimostra piuttosto audace e non sembra avere soggezione dei tre invasori che senza chiedere permesso si sono piazzati nel mezzo del suo territorio. Con cautela si avvicina fino a un paio di metri di distanza.
Silvano stacca un pezzetto di pane dalla sua cena e glielo tira; al principio la marmotta pare ignorarlo, ma poi si muove e se lo va a sgranocchiare. La scena si ripete un altro paio di volte. La marmotta pare sempre più convinta. Mentre continuiamo la nostra cena, in un momento di calma, si muove di nuovo, nella mia direzione: nel gruppo sono quello un po’ più in disparte. Mi faccio dare un pezzetto di pane da Andrea - io il mio l’ho finito - e invece di tirarlo allungo la mano verso la marmotta. Ci vuole un po’ perché decida di vincere la sua ritrosia, ma alla fine abbandona gli ultimi scrupoli e arriva a toccarmi la mano. Pensavo fosse attirata dal pane, ma pare che quello non la interessi, non lo tocca nemmeno. Invece preferisce leccarmi e mordicchiarmi le dita, mi fa un po’ di solletico con dei piccoli dentini aguzzi.
Come dice Galis: ho perso la foto della mia vita. Qualche anno fa avevo passato una giornata intera a rincorrere marmotte nella zona del Couvercle, per trovarne una che si lasciasse fotografare un po’ da vicino e non avevo raccolto altro che immagini di fughe precipitose. Oggi invece una marmotta arriva spontaneamente a toccarmi la mano, e io ho la macchina fotografica nello zaino, troppo lontana perché la si possa prendere senza farla scappare. Pazienza, basterà il ricordo. Un bel ricordo.
Silvano finisce di cenare prima di tutti, e mentre io e Andrea siamo ancora lì a mangiare inizia a montare la tenda. Fa tutto il lavoro da solo; a me e Galis non restano che da piazzare un paio di picchetti per fissare gli absidi.
Sistemata la roba saliamo al rifugio: abbiamo deciso di concederci un tè caldo. Già che ci siamo diamo un’occhiata ai sentierini della zona, per vedere la direzione migliore per domani mattina. Individuiamo il sentiero principale e il modo migliore per raggiungerlo dalla tenda. Lungo il sentiero incrociamo un’altra tendina. Diverse altre ancora sono sistemate nella zona in cui avevamo programmato di sistemarci in origine. Nella zona del nostro campo invece continuiamo ad essere gli unici e ne siamo contenti.
Osserviamo anche il ghiacciaio e il pendio delle Droites: non c’è ombra di traccia anche se il ghiacciaio non sembra male. Decidiamo definitivamente quale sarà la nostra linea di salita di domani: lasceremo stare il solito versante occidentale della cresta e il canalino; invece ci dedicheremo al versante opposto, saliremo lungo la via normale delle Courtes e traverseremo alla cresta dal pendio sotto al Col des Droites.
Entriamo nel rifugio e ci sediamo ad un tavolo d’angolo. Prendiamo i nostri tè e un paio di bottiglie d’acqua, che ci serviranno per la notte e per preparare i beveraggi per domani.
Silvano ci comunica che ha deciso di non salire domani. Oggi si è già stancato parecchio, la camminata è stata lunga ed è quasi totalmente privo di allenamento, è stato lontano dalle montagne per parecchio tempo. Ci dice che preferisce non partire e lasciarci andare per conto nostro; soprattutto si dimostra preoccupato di rallentare troppo me e Andrea. E’ un peccato; mi dispiace parecchio, ma non discuto la sua decisione.
Restiamo poco in rifugio: il tempo di finire il tè e riscaldarci un po’, quindi torniamo alla tenda. La notte sarà molto breve, abbiamo convenuto di puntare la sveglia per la 1:45 e non abbiamo molto tempo a disposizione per dormire. Entriamo nella tendina, gonfiamo i materassini e ci infiliamo nei sacchi. Abbiamo circa tre ore e mezzo di sonno.

Il suono della sveglia è piuttosto traumatizzante: io e Galis abbiamo gli orologi sincronizzati al secondo e le suonerie partono nello stesso preciso istante moltiplicando il loro suono; probabilmente entra in gioco anche qualche strano meccanismo di risonanza perché mi pare impossibile che un paio di orologi possano produrre una potenza sonora di quel livello.
In tenda ci sono 12 gradi e mezzo, eppure uscire dal sacco non è piacevole, la differenza di temperatura è davvero notevole. Apro la cerniera della tenda per sbirciare l’esterno e ci trovo un cielo perfetto, una stellata meravigliosa: sarà una bella giornata.
Prima di uscire facciamo una breve colazione: un po’ d’acqua freschina e una barretta energetica. Provo anche un po’ del tè di Andrea, appena preparato: carcadè aromatizzato all’anguria! Freddo com’è, al momento, non riesco a capire come un essere umano possa pensare di ingerire una cosa simile. Al contrario, durante la giornata, inizierò ad apprezzarlo molto; è insospettabile il sapore di un carcadè all’anguria fino a quando non lo si prova!
Arriva l’ora di uscire. Mentre mi infilo l’imbragatura osservo una luna piena che tramonta alle spalle della Tour Ronde. Ci sarà buio sul ghiacciaio. Completiamo i preparativi in un clima piuttosto allegro. Intanto vediamo luci provenire dalla tendina che avevamo incrociato la sera prima e diverse altre uscire in un via vai continuo dal Couvercle. Siamo pronti. Non ci resta che salutare Silvano, affacciato alla tenda. Ci diamo appuntamento per il ritorno: contiamo di arrivare intorno all’una; Galis crede prima, io invece sono un po’ pessimista e mi pare già un tempo stretto.
La sera avevamo programmato di riuscire a partire per le due e mezza. Sono esattamente le 2:30:00 quando muoviamo il primo passo in direzione delle Droites.

Partiamo proprio quando iniziano a muoversi anche le luci degli occupanti di quella piccola tendina in pole position. Risaliamo fino all’altezza del rifugio e andiamo a prendere il nostro sentiero. Scoviamo la traccia che scende fino al ghiacciaio. I due davanti hanno un bel passo e al principio sembra che si allontanino; lo stesso quelli che seguono: pochi istanti dopo di noi sono partiti anche parecchi di quelli che hanno passato la notte al rifugio e i primi si avvicinano progressivamente. Una volta sul plateau del Glacier de Talefre vediamo che i due in testa sbagliano un po’ direzione, si portano troppo fuori, sulla destra, in campo aperto, e perdono un po’ di tempo: devono tornare indietro per scavalcare la valletta glaciale che li separa dalla dorsale del Jardin. Nello stesso tempo li raggiungiamo. Galis ci scambia un paio di parole e apprende che stanno andando alle Courtes; ci accorgeremo poi che si tratta della destinazione di tutte le cordate che vediamo in movimento. Ci mettiamo in coda: teniamo un passo molto riposato ma preferiamo non andare a cercarci la strada da soli.
Poco per volta si rifanno sotto gli inseguitori dal rifugio; i primi tre sono un gruppetto molto veloce; ci affiancano e proseguono spediti. Decidiamo di metterci a ruota. Si prosegue per un po’ l’aggiramento del Jardin de Talefre, poi vediamo che i tre francesi a cui ci siamo accodati piegano verso sinistra, per iniziare la risalita del pendio su un fastidioso terreno morenico. Ci fidiamo e continuiamo a seguirli; non conosciamo la linea di salita migliore, non sappiamo se sia giusto salire dove stiamo salendo o se esistano tracce più avanti, ma il tipo che guida pare deciso. A tratti pare di camminare in traccia, a tratti pare di essere su terreno vergine. I francesi sono veloci e si muovono senza esitazioni; ci convinciamo che conoscano bene il posto e ci fidiamo. Un po’ per volta le cose però si fanno più incerte, il pendio più faticoso e instabile, e iniziamo ad avere dubbi. Ad un certo punto vediamo in basso le luci di altre cordate che non risalgono la morena, ma continuano il traverso su ghiacciaio fino a trovare una linea di salita del pendio su neve. Non sappiamo se quella che stiamo facendo sia una via di salita comunemente frequentata, ma siamo sicuri che la risalita per neve sarebbe stata più semplice e meno faticosa. A questo punto non abbiamo alternative: ci dobbiamo sobbarcare la risalita di questi detriti sassosi.
Un po’ alla volta iniziamo a stancarcene; sulla nostra stessa costola detritica ci sono parecchie altre cordate, ma vediamo che quelli su neve si fanno sempre più vicini ed è chiaro che si muovono con più facilità di noi. Decidiamo di averne abbastanza e che sarebbe il caso di cercare un modo di traversare a destra fino al pendio nevoso. Pochi istanti dopo pare che il gruppo dei francesi abbia avuto lo stesso pensiero, perché inizia a tenere una linea di salita più diagonale. Progressivamente ci avvicinoamo al pendio, senza mai raggiungerlo. Arriviamo alla fine ad una macchia di neve, la attraversiamo, e ci imbattiamo alla fine in un bel lastrone ghiacciato ai margini del pendio nevoso. E’ ora di attrezzarsi con corda e ramponi.
Ci attrezziamo con quello che serve, sostituiamo le bacchette con una piccozza, e partiamo; qualche minuto in ritardo sul gruppetto che avevamo seguito fino a lì. Fino a qui ho seguito Andrea, adesso invece resto avanti io a fare il passo e cerco di salire con calma. La salita adesso è molto più agevole. Saliamo a stretto contatto con altre cordate che man mano si sono avvicinate. I tre francesi sono sempre in testa e adesso li vediamo che si allontanano con un passo spaventoso, sono davvero molto veloci.
La salita ci porta prima verso destra, attraverso il lastrone ghiacciato, poi di nuovo a sinistra su neve migliore. Siamo definitivamente in pieno pendio, su neve splendida, stabile e gelata. A tratti osserviamo i tre che ci precedono e non possiamo fare a meno di notare le loro costanti indecisioni. Li vediamo arrivare velocemente ai margini della fascia rocciosa che stringe in alto il pendio di neve, ma poi li vediamo iniziare uno strano zig-zag, una serie di lunghi traversi, come se avessero da aggirare qualche grosso crepaccio, o come se avessero in mente di andare a cercare l’attacco di una via di salita diretta attraverso le rocce; una cosa incomprensibile. Alla fine pare che ripartano normalmente; più avanti ancora li vediamo avvicinarsi alla fascia rocciosa della cresta di sinistra, e a tratti sembra che restino lì per esplorarla, si muovono con tornanti infiniti, si fermano, in un paio di occasioni abbiamo anche l’impressione che tornino verso il basso... non capiamo assolutamente cosa stiano facendo, sembrano alla ricerca di qualcosa che non riescono a trovare. Tutto questo sempre a una discreta distanza da noi, perché sono anche incredibilmente veloci; se si muovessero con più decisione sarebbero già in cima!
Noi prendiamo il nostro ritmo, decisamente più tranquillo; saliamo diretti per il nostro pendio. Periodicamente diamo un’occhiata alla cresta di sinistra e al pendio sopra di noi, per capire più o meno dove possa essere il punto del traverso che ci dovrà portare fino alla cresta della via normale. Io cerco di tenere d’occhio anche l’altimetro, ma non ne ricevo informazioni molto incoraggianti; quando lasciamo la morena per la neve abbiamo da poco passato i 3000 metri e sul pendio non procediamo molto velocemente, ma per ora non ce ne preoccupiamo: ci siamo stancati un po’ troppo salendo per detriti e adesso è meglio se rimaniamo più tranquilli.
Individuiamo il tratto che può essere il nostro traverso. Non ne siamo sicuri ma la posizione sembra buona. La traccia per le Courtes - che da qualche minuto si è fatta univoca, ampia e molto evidente - inizia a piegare con decisione verso destra, in un lunghissimo traverso in falso piano. Sopra di noi prosegue il pendio e a una centinaio di metri una fascia detritica e una lingua nevosa parallele si insinuano verso sinistra e sembra che possano condurre fino alla cresta senza particolari difficoltà; il Col des Droites è ancora abbastanza lontano. Abbandoniamo la traccia e saliamo in verticale lungo il pendio; seguiamo una dorsale appena accennata di neve dura. I primi tre francesi sono già lontani verso le Courtes; anche chi segue ha la stessa meta. Pare proprio che tra tutti siamo gli unici diretti alle Droites.
Per capire se ci troviamo nel posto giusto per il traverso cerco di regolarmi anche con l’altimetro, ma non mi da troppa fiducia: ogni volta che lo guardo non riesco a credere alle letture, mi sembra sempre che indichi quote troppo basse.
Valutiamo definitivamente conveniente l’attraversamento diagonale della fascia detritica che avevamo notato dal basso. Da lontano sembrava ripida e compatta, ma avvicinandosi cambia d’aspetto, perde quell’impressione di ripidità e quelle placcone di roccia compatta si trasformano in semplici roccette incastonate in un pendio di terriccio fortunatamente ancora un po’ compattato dal gelo. Sembra più semplice da attraversare della ripida lingua nevosa che lo sovrasta.
Saliamo in diagonale attraverso le roccette, facendo attenzione a smuovere meno roba possibile: c’è ancora gente sul pendio nevoso sotto di noi; la linea di salita alle Courtes non è più direttamente in linea con la nostra posizione ma è sempre meglio starci attenti. Il gelo ci aiuta davvero, e camminare con i ramponi tra roccette e terriccio si rivela abbastanza agevole. Dopo le roccette dobbiamo superare, sempre in diagonale, i pochi metri di neve rimasti prima della cresta; la pendenza pare intorno alla cinquantina di gradi, ma il tratto è piuttosto breve. Alla fine, approdati di nuovo alle rocce, arriviamo ad infilarci in un instabile canalino di rocce rotte. Stiamo puntando una forcelletta, punto culminante del canalino: sembra essere il punto più facilmente raggiungibile della cresta. Immaginiamo di trovarci in piena cresta sud, un centinaio di metri oltre la quota di uscita del canalino nevoso del versante occidentale, quello della via normale convenzionale.
I detriti del nostro canalino si dimostrano più instabili di quelli del traverso appena finito, dobbiamo stare molto attenti anche ai massi più grossi; molti sono appena appoggiati, molto suscettibili alle minime sollecitazioni, e anche quelli che a prima vista appaiono ben incastrati disilludono spesso con bruschi spostamenti. A complicare le cose la parte alta si fa piuttosto ripida. Superiamo un ultimo diedrino, fatto da una placchetta appoggiata e un inaffidabilissimo masso incastrato, e finalmente arriviamo alla forcelletta.
Quella che troviamo ad aspettarci è una vista decisamente sconfortante: eravamo davvero convinti che quella che eravamo andati a prendere fosse la vera cresta sud delle Droites, il crinale principale della via normale, e invece ci troviamo su un crestone sfasciato secondario; la cresta principale (sempre che a questo punto quella lì sia davvero la cresta principale, ci diciamo) sembra a un bel centinaio di metri da noi, più a sinistra; ce ne separa un enorme pendio di detriti rocce spaccate e un canalone che non abbiamo nessuna voglia di andare a visitare. Come se non bastasse, esaminando la cresta pare che il possibile punto di uscita del canalino della normale sia ancora parecchio più in alto di noi: siamo lontani dalla normale e probabilmente in ritardo; non faccio conti di tempo e dislivello; penso solo che speravo di essere messo un po’ meglio...
Osserviamo quello che c’è da fare. Guardando verso l’alto si intuisce un probabile punto di convergenza tra la cresta principale e la nostra dorsale secondaria; possiamo osservare un bel terreno di roccioni che ci sembrano saldi e divertenti e capiamo che quello che ci aspetta è la risalita di questo bel crestone: ci dovremo scovare una strada di salita, diagonalizzando verso la cresta sud, tra queste roccette. Dopo i primi improvvisi istanti di sconforto mi si trasforma tutto davanti e inizio a non vedere l’ora di arrampicare; sono sicuro che ci aspetta un gran bel divertimento.
Al principio la progressione non è il massimo, la roccia è ancora marcia e i tratti di terriccio franoso ancora troppo frequenti. Inizio a dubitare delle mie prime sensazioni. Un po’ alla volta però, man mano che guadagnamo quota e ci avviciniamo alla cresta sud, il terreno migliora, il terriccio si fa sempre più rado e le roccette più salde. Cominciamo ad arrampicare davvero, tra roccia vera, tra passaggi per nulla banali; mai niente di veramente complicato, niente di particolarmente impegnativo, ma al III grado ci arriviamo diverse volte ed è un gran divertimento per entrambi.
Procediamo in conserva; io sono davanti: cerco di scovare una strada abbordabile e Galis mi correggere dove serve. Ci muoviamo senza problemi; raramente c’è bisogno di assicurazione: la cresta non è ripida, si svolge sempre a salti successivi, e quasi sempre senza particolare esposizione. Quando serve non è mai un problema trovare uno spuntone adatto.
Anche qui inizio a tenere d’occhio l’altimetro, e anche qui mi faccio sempre più convinto che sia sbagliato, di un centinaio di metri almeno. Teniamo d’occhio la posizione del Col des Droites, della cima delle Courtes, delle Grandes Jorasses e del loro Colle alle nostre spalle per farci un’idea affidabile della nostra posizione, e le impressioni sono sempre più incoraggianti di quello che dice il mio orologio.
Salendo ci avviciniamo anche al sole. E’ già sorto da un po’ e pare che lo incontreremo proprio dove finiremo con l’immetterci sulla cresta principale.

Le Grandes Jorasses dalla cima delle Droites

Purtroppo oltre a luce, caldo e divertimento, inizia ad aumentare anche la mia stanchezza. Al principio la avverto appena, ma col passare del tempo le mie condizioni peggiorano e devo rallentare. Non mi sento male, non mi trovo nel mio abituale stato da mal di montagna di inizio stagione: sono semplicemente stanco. Prima un po’ stanco; poi decisamente stanco; poi incredibilmente stanco. Alla fine sarò quasi mortalmente sfinito. Niente mal di testa; niente nausea; solo mortalmente sfinito.
Nel momento in cui ci accorgiamo di essere finalmente arrivati all’incrocio con la cresta principale, ho raggiunto il livello di decisamente stanco. In fondo, in basso, un bel po’ più in basso, vediamo la sella di uscita del canalino della normale.
Proseguiamo lungo la cresta. Da qui in avanti il terreno cambia aspetto secondo un punto di vista fondamentale: ci sono tracce di passaggio di esseri umani. Quello che avevamo attraversato fino a qui sembrava terreno assolutamente vergine, selvaggio e incontaminato; da qui in avanti invece le cose cambiano: a parte una bottiglia di vetro rotta e le tracce di una scatoletta di metallo arrugginita di circa un milione di anni fa, iniziamo ad incrociare una lunga sequenza di cordini e fettucce, appesi tra spuntoni e rare clessidre, testimoni di punti di sosta e di calata di ascensioni passate.
Siamo sempre su terreno prevalentemente roccioso; solo un paio di brevissime macchiette di neve intervengono a spezzare la regolarità della cresta. L’arrampicata è ora su roccia sempre salda e i passaggi impegnativi si fanno più frequenti. Intervallati da roccette facili capita di affrontare salti verticali, tra gradoni e diedri, che richiedono un po’ di attenzione. Per lo più si riesce ad aggirare le difficoltà, ma qualche passaggio risulta obbligato. Ci toccano un bel caminetto aperto con una lamona verticale un po’ strapiombante, un passaggio divertente lungo una grossa fessura diagonale delimitata da una scaglia staccata molto aggettante, poi una bella sequenza di lame orizzontali sovrapposte in un passaggio strapiombante piuttosto faticoso... Il terreno è sempre quello: l’ambiente roccioso vagamente instabile dell’alta montagna, con la via da scovare e la fatica da sopportare.

Les Courtes e Triolet dalla cima delle Droites

Si perché la fatica inizia a farsi pesante e io mi muovo sempre più lento. Non so quanto fresco si senta Andrea, ma di sicuro non ha problemi a tenere il mio ritmo. Ad ogni nuovo passaggio di arrampicata mi devo fermare per prendere fiato. E’ strana la sensazione di quando ci si trova alla base di un salto di roccia con le braccia molli e la certezza del fatto che non riuscirebbero ad alzarti oltre; è lo stato che chiamavo di mortale sfinimento: non mi sento male ma sono fisicamente svuotato. Ad un certo punto sento affiorare anche una sensazione di nausea e non mi piace per niente: se arriva anche il mal di montagna sono nei guai. Come dice Kurt Russel: “se muoio sono fottuto”. Non è il mio caso, ma all’essere fottuto ci sto andando vicino. Cerco di vomitare per ricacciare indietro il disagio; non vomito niente perché ho lo stomaco completamente vuoto, ma la cosa funziona lo stesso e nel giro di un paio di minuti la nausea scompare per non tornare più.
Per fortuna siamo già abbastanza in alto e la parte rocciosa è quasi finita. Dopo un ultimo canalino e una serie di cengette ghiaiose arriviamo dove la roccia lascia spazio alla neve. Secondo le relazioni di salita che conosciamo la via dovrebbe essere quasi finita: dovrebbe mancare solo una “breve” crestina nevosa, poi un “breve” pendio nevoso ripido, e poi pochi passi sulla cresta sommitale. Definirei la cosa un tantino riduttiva, ma allora potevo anche crederci e pensare di essere prossimo alla fine delle fatiche.
Ci riattrezziamo per la neve e passa in testa Andrea.
Iniziamo con un breve pendio un po’ ripido e un canaletto tra due affioramenti rocciosi, sulla destra del filo di cresta. Sbuchiamo all’inizio di un ampio, lungo e ripido pendio di neve che porta in direzione di altre fasce rocciose, in alto; sembrano quasi in cima. Saliamo direttamente lungo il pendio, cercando di diagonalizzare un po’ verso sinistra, in direzione di un altro affioramento roccioso. Lo doppiamo in corrispondenza di un breve abbattimento della pendenza, ma subito il pendio si impenna di nuovo e si riapre. Sulla sinistra vediamo il filo di cresta che sale ripido verso la cima, mentre noi siamo nel mezzo del pendio; siamo tra i 45 e i 50 gradi qui, niente di particolarmente impegnativo, la neve è piuttosto buona anche se col sole sta iniziando a dare i primi segni di cedimento. Però là in alto, dove il pendio si incunea di nuovo tra un paio di isolotti di roccia più vicini alla cresta, la pendenza aumenta e non ho tanta voglia di andarmici a infilare. Non è una questione di difficoltà: vediamo che ci muoviamo senza problemi, che la neve tiene e non ci sono pericoli, però io sono davvero stanchissimo e su questa pendenza sto facendo una fatica balorda! Ogni pochi passi mi devo fermare a prendere fiato; non riesco a pensare alla fatica che dovrò fare quando la pendenza aumenterà ancora.
Indico a Galis la cresta alla nostra sinistra e gli chiedo di andare a prenderla; ce ne separa un pendio più breve e una volta raggiunta ci muoveremmo più agilmente. Lui però non è per niente convinto; fa qualche passo verso sinistra, poi però commenta che la neve in quella direzione non gli piace, che gli sembra più cedevole, e che preferisce seguire direttamente il pendio.
E sia, ci facciamo tutto il pendio. Saliamo in linea retta verso le roccette che vediamo in alto, e le impressioni della pendenza vengono confermate: nella parte alta siamo più o meno sui 55 gradi. Arriviamo alla base di un ultimo canale; valutiamo se sia il caso di aggirarlo o di salirlo direttamente. Decidiamo di salirlo aiutandoci con le roccette di sinistra; ci sistemiamo alla base del roccione, Andrea improvvisa un’assicurazione su uno spuntone, e io salgo per il primo mezzo metro liscio del roccione nel passaggio più faticoso che mi ricordi di avere fatto in tutta la mia vita: un gradone liscio e bombato di un buon primo grado, forse primo superiore. Dopo qualche altro passo sulle roccette traverso il canalino, in alto, e vado a sistemarmi su una selletta alla sua destra; quindi assicuro Andrea che ripete la mia strada.
A questo punto manca proprio pochissimo: ancora un breve tratto di pendio, meno ripido, e finalmente sbuchiamo sulla cresta nevosa principale; sembra quasi pianeggiante in questo tratto. La seguiamo per un po’, quindi saliamo in verticale verso la cresta sommitale, ormai vicinissima. Qualche passo per un ultimo pendio nevoso e poche elementari roccette e finalmente la raggiungiamo.

Mirko in cima alle Droites; sullo sfondo una sovrapposizione di Aiguille Verte, Grande Rocheuse e Aiguille du Jardin

La seguiamo per pochi metri. Quella che vediamo davanti a noi è indiscutibilmente la cima delle Droites, ma dal nostro punto di osservazione è un pinnacolo roccioso verticale inattaccabile. Galis prosegue, aggira il roccione per neve, sulla sinistra, e dopo pochi passi arriva alla cresta nevosa sul lato opposto. Quando lo raggiungo mi accorgo che siamo veramente in cima.
Basta. Ore 9: fine della fatica. Ho le gambe molli e il fiato azzerato, ma siamo in cima.
Solo qualche istante per respirare, sono troppo stanco, ma qui è bellissimo, c’è lì una Verte che sembra di toccarla, lì la piramide accuminata della cima delle Courtes, là l’Argentiére, e dietro il Bianco e le Grandes Jorasses; che strana la prospettiva sulle Grandes Jorasses.
La fatica sparisce subito. Calma e rilassatezza finalmente sono assolute e bastano pochi momenti a riportare tutto entro parametri di normalità. Adesso non c’è più niente, niente fatica, niente tensione, niente controllo, niente necessità; solo contemplazione, solo l’ultima constatazione. Cazzo Galis, siamo in cima alle Droites.
Per me è così. La prima reazione è di sollievo per la fine della salita, perché l’ultimo tratto è stato proprio pesante; ma dura solo un momento. Poi arriva la sorpresa, perché il posto è spettacolare. Mi sorprende la Verte più di tutto; è una strana sensazione quella che mi arriva dalla Verte, perché avrei dovuto aspettarmela, era ovvio, ci potevo anche pensare che l’avrei vista, e che vedere la Verte da lì sarebbe stato così, e invece non ci ero proprio preparato, non l’avevo mai considerata, e arrivare lì e vedere quel piramidone imponente, massiccio e slanciato insieme, così bella con quella sovrapposizione perfetta su Jardine e Grande Rocheuse, era stato davvero emozionante, roba da accelerare il cuore ancora più della quota. E alla fine arriva anche la soddisfazione, perché faccio presto a considerare l’insieme della salita che abbiamo fatto e a stabilire che si è trattato di una gran bella salita, con tutto quello che di solito amo considerare bello in una salita, dall’isolamento del posto, dalle impressioni che vengono da quell’ambiente solitario e selvaggio, al divertimento del movimento, tanto su roccia quanto su neve, per la bellezza e l’impegno che è stato necessario. Arriva la soddisfazione perché è inevitabile: perché questa salita è stata esattamente la sintesi di tutto quanto immagino quando penso a quella che uno definirebbe una “via di soddisfazione”. Eccola qua: le Droites. E siamo in cima.

Andrea in cima alle Droites; sullo sfondo Les Courtes

Dopo qualche minuto di calma assoluta ci rendiamo conto che non abbiamo molto tempo da perdere e iniziamo a darci da fare per scattare quelle poche fotografie che ci porteremo via da questa cima. I panorami sono quelli: Verte, Bianco, Grandes Jorasses, Courtes, Triolét, Argentiére. Immortaliamo quello che ci riesce, quindi raccattiamo forze e materiale perché è ora di pensare alla discesa.
Ecco, ci ho inciampato e mi trovo costretto a includere la seconda citazione della giornata, perché la situazione è inequivocabile: siamo in cima ma come diceva il mitico Wolf (alias Harvey Keitel) "ancora non è arrivato il momento di iniziare a farci pompini a vicenda”, perché da casa siamo ancora lontani e la discesa sarà tutt’altro che una passeggiata.
Quando muoviamo il primo passo verso valle sono passate da poco le nove e mezza. Do uno sguardo veloce all’altimetro, convinto che sarebbe stata una conferma dei frequenti dubbi che avevo avuto durante la salita, e invece vedo che segna 4025 metri: quasi perfetto, è sempre stato giusto questa mattina, e sono sempre stato io a sbagliarmi e a pensare - sperare - che desse indicazioni sballate.
Scendendo Andrea resta davanti e io dietro. Dopo la mezz’ora di riposo e con la discesa al posto della salita il cammino è tutta un’altra cosa, mi sento molto bene, sicuro e per niente stanco.
Seguiamo la stessa linea di salita senza difficoltà fino alla testa della cresta nevosa. Qui si tratta di scegliere; potremmo rifare al contrario lo stesso pendio della salita, ma da questo punto di osservazione la cresta sembra ancora più allettante che non dal basso. Già avevo anticipato ad Andrea che avrei preferito seguire quella almeno in discesa, ma da qui sembra indicare una linea quasi inevitabile. Al principio è facilissima, ampia e poco inclinata; poi, man mano che si procede, si fa più affilata e ripida; la progressione dell’inclinazione è continua, fino al colletto terminale, ma non passa mai i 45 gradi. Solo nel tratto finale Galis si gira per scendere di schiena, più per scrupolo che altro, perché la neve non è più molto stabile e il pendio che guarda a ovest è un po’ scivoloso, ma il fatto che io - che detesto così tanto i pendii di neve e ghiaccio - sia sceso faccia a valle per tutta la cresta è l’indubbio indice della banalità del posto.
Al colletto superiamo i pochi metri di un piccolo rilievo, quindi proseguiamo ancora per cresta - ora più aperta - per un’ultima trentina di metri. Abbiamo individuato una fascia rocciosa che scende in diagonale verso l’uscita del canalino dal quale eravamo sbucati durante la salita, quello che ci aveva introdotto alla base del grande pendio di neve. Pensiamo di seguire per neve il bordo superiore di quella fascia di roccette e di traversare alla fine in direzione del canalino. E’ esattamente quello che facciamo, e la progressione ci dà ragione, perché incontriamo pendenze poco rilevanti e, nonostante la neve ormai non sia più particolarmente consistente, ci troviamo sempre piuttosto protetti dagli spuntoni rocciosi alla nostra destra. Oltretutto ora stiamo usando due piccozze ciascuno - le abbiamo prese prima di attaccare la discesa - e anche nei brevi tratti più ripidi scendiamo con estrema sicurezza.

Mirko in cima alle Droites; sullo sfondo l'Aiguille d'Argentiére

Superiamo il tratto diagonale vicini alle roccette, quindi un tratto di pendio più aperto, in verticale. Arriviamo sulla testa di un piccolo dosso piuttosto pronunciato al margine di un canale. Siamo più o meno all’altezza del canalino che ci interessa, quindi iniziamo un breve traverso per allontanarci dalla cresta in direzione della nostra vecchia linea di salita. Andrea mi assicura su uno spuntone, mi dà corda, e io parto per l’attraversamento. Arrivo esattamente alla base del canalino che mi ricordavo: un paio di fettucce accoppiate appese ad un grosso masso indicano con esattezza il posto. Replico l’assicurazione e Andrea mi raggiunge velocemente.
Qui la neve dovrebbe essere finita... almeno per un bel pezzo; quindi ci fermiamo per una bella sosta e per toglierci di dosso l’attrezzatura che non ci serve: i ramponi vanno a destra dell’imbragatura, una piccozza va a sinistra e l’altra piccozza sullo zaino. Inizio ad avere un gran caldo: questa sosta la ricorderò sempre come il posto in cui ho cominciato ad apprezzare - come mai avrei pensato di poter fare - il carcadè all’anguria di Andrea; da qui e per il resto della discesa darò fondo alla sua borraccia ogni volta che ne avrò occasione.
Ci troviamo, su questa cengetta, in un punto nascosto alla cima, ma se ci spostiamo un po’ verso destra fino a doppiare uno spigolo e un pinnacolo torniamo a vederla. Prima faccio due passi io per controllare, poi va Andrea per farle una fotografia: vuole riprendere la cima con il pendio nevoso che abbiamo risalito qualche ora prima. Scatta la sua foto, e mi dice di vedere uno che sta scendendo dalla cima, là in alto, vicino alla cresta. Lo raggiungo e consideriamo la situazione: ci sono quattro persone là, e stanno salendo! Ma da dove sono arrivate? La cosa è chiara: sono saliti lungo la stessa linea che avevamo seguito noi e sono passati dal canalino mentre noi completavamo la discesa della cresta e il traverso.

Andrea in cima alle Droites; sullo sfondo il Monte Bianco

Prima di tutto c’è sorpresa: allora non siamo i soli su questa montagna! C’è altra gente al mondo che sale sulle Droites! Abbiamo passato la giornata in un posto deserto, senza l’ombra di una traccia, ma adesso vediamo che invece qualcun altro di qui ci passa.
La seconda considerazione è per un'altra forma di apprezzamento: da dove possono essere saliti quei quattro? Ovviamente dalla normale, dal canalino del versante ovest della cresta... e infatti scrutando verso il basso vediamo la loro chiara traccia sul filo di un tratto di cresta di neve, e sappiamo che a questo punto dovrà essere per forza tracciato in qualche modo anche il canale e il ghiacciaio sottostante. Non ci interessa avere una traccia, non è questo il problema: il punto è che se loro sono saliti, allora ci deve per forza essere un modo non troppo complicato per superare in discesa la terminale alla base del canalino, e ci deve per forza essere una direzione ben individuabile attraverso i crepacci sul ghiacciaio successivo; crepacci di cui conserviamo un ricordo poco piacevole. La cosa non era mai stata veramente in discussione; quando eravamo partiti la mattina dalla tenda ancora non sapevamo se saremmo ridiscesi dallo stesso versante della salita o se ci saremmo diretti verso il canalino, ma fin da quando eravamo arrivati a vedere dall’alto la cresta della via normale era stato chiaro che avremmo evitato di tornare attraverso la via di salita fino ai pendii della via alle Courtes, ma che avremmo seguito la cresta e che ci saremmo cercati un passaggio attraverso il canalino e il ghiacciaio. E ora la cosa sembra ancora più a portata di mano.
L’intera cresta è visibile da dove ci troviamo; possiamo osservare il tratto roccioso superiore, il tratto più aperto e detritico inferiore, un tratto di crestina nevosa affilata, e là in basso il colletto di uscita del canale. Però! Quanto è in basso! Il tempo da perdere è sempre meno; siamo decisamente in ritardo sulla tabella di marcia e la strada da fare è ancora parecchio lunga.
Iniziamo la discesa per le buone rocce del primo tratto di cresta. Ci sono fettucce nel punto in cui ci troviamo, e ci sono altre fettucce una ventina di metri più in basso. Ci dirigiamo verso quelle; Galis ha in mente di sfruttarle per una calata. Salendo ha notato che spesso si incrociano cordini e fettucce al termine di passaggi di arrampicata faticosi e complicati, quindi conta di usarle per evitare le difficoltà maggiori. In realtà a me l’idea non va tanto: il materiale che si incontra è sempre vecchio e consumato e non mi ispira una grande fiducia; probabilmente sono abituato troppo bene, ad arrampicare tra le guglie delle montagne di casa, con materiale perfetto, saldo e ben tenuto. Lo convinco a lasciarle stare e a scendere invece in arrampicata; stabiliamo di scendere in arrampicata ed evitare calate fino a quando non ci troviamo proprio costretti; si tratterà semplicemente di scovare tra le rocce i passaggi meno complicati: abbiamo i ricordi della salita e le numerose fettucce disseminate sul percorso a farci da guida.
Io per lo più rimango sopra, e Galis si dà da fare a cercare la strada migliore; spesso ci riuniamo in consiglio tattico: quel canaletto, quel diedrino, quel sistema di cengette, se scendiamo per quella rampa arriviamo almeno fino a quel terrazzo, se passiamo a destra riusciamo a sfruttare quel pendio di terriccio, se passiamo a sinistra arriviamo a quelle altre fettucce... Per lo più è sufficiente muoversi in conserva; spesso ci assicuriamo a vicenda tra lame e spuntoni. Nonostante la fretta cerchiamo di fare tutto con calma e sicurezza, senza lasciare niente al caso.
I passaggi complicati che incrociamo sono gli stessi che ci ricordavamo dalla salita: la grossa scaglia diagonale, le lamone orizzontali sovrapposte strapiombanti, un paio di diedrini verticali più lisci degli altri, l’aggiramento di un avancorpo su uno spigolo molto aggettante. Mi sembra di divertirmi come un bambino: muoversi così su questo terreno è bellissimo.
Solo in poche occasioni, un po’ per caso e un po’ per la foga di andare a cercare il passaggio migliore, ci capita di scambiarci le posizioni: io in basso a tastare il terreno e Galis in alto ad assicurare.
Verso la fine del tratto roccioso superiore - cioè quello che mentalmente ho iniziato ad identificare come il tratto di “vera roccia” della cresta, quello dove la roccia è salda e dove si “arrampica” nel vero senso della parola, cioè più o meno il tratto di cresta sud che va dal punto di convergenza con la nostra crestina secondaria di salita e i pendii di neve - arriviamo in un punto che non ci ricordavamo di avere attraversato salendo. Sopra di noi abbiamo appena superato un passaggio che mi ricordavo perfettamente di avere salito, eppure qui non mi sembra di esserci mai stato. Tutte le possibili direzioni di discesa sembrano sbarrate da saltini strapiombanti un po’ troppo impegnativi; solo una direzione sembra percorribile, ma ci si trova una placchetta inclinata molto liscia e compatta; sicuramente non siamo saliti di lì. Non fa niente: se scendiamo di lì e poi da quell’altro muretto là in fondo, arriviamo ad un bel terrazzo e ad una specie di traccia che porta facilmente a un lontano gruppetto di fettucce. Inauguriamo un nuovo stile di discesa: io calo Galis a spalla, quindi butto la corda - a mò di doppia - dietro uno spuntone, mi ci aggrappo con entrambe le mani, e scendo così, con stile un po’ sgraziato ma funzionale: ci vuole un decimo del tempo necessario a piazzare una vera doppia e non si abbandona materiale. E dopo tutto non sono che tre o quattro metri di placchetta. Ripetiamo la stessa manovra per scendere il secondo muretto; come avevo detto, non ci farei i 40 metri di calata dalla testa del Sigaro, ma per tre metri di muretto non c’è niente di meglio. Queste due sono state le uniche “finte” doppie che ci siamo concessi; di doppie vere invece abbiamo fatto a meno.
Con questo ci sembra di avere completato la parte “tecnica” della cresta; ormai, da qui in giù, dovrebbe esserci terreno più facile, niente più vera arrampicata. Ci abbiamo messo il tempo che ci è voluto, più o meno un’oretta.

Altri salitori tra i pendii superiori delle Droites

Da qui in avanti la cresta si fa via via più detritica: si smette di arrampicare e l’attenzione si rivolge a quella che è diventata la maggiore difficoltà di questo nuovo modello di discesa: cercare di far franare meno roba possibile. La roccia diventa sempre più instabile e raggiunge qualità assurde. Al principio roccette incastrate tra roccioni più o meno stabili; poi roccioni incastrati tra roccette, decisamente meno stabili; poi roccioni e roccette infissi nel terriccio, e l’instabilità è completa. Scendiamo in conserva molto vicini, per evitare di farci male a vicenda con il materiale che facciamo rovinare a valle.
Scendendo teniamo d’occhio quella che ci sembra la possibile selletta di uscita del canalino della normale, come riferimento, per capire la nostra posizione sulla cresta. Il ritardo rimane stabile, faccio mentalmente due conti e mi convinco che se va bene potremmo arrivare al rifugio per le 14:30 o per le 15. Non ne sono molto contento, perché sappiamo che l’ultimo trenino di discesa dal Montenvers parte alle 18:30.
La discesa per questo tratto instabile di cresta si fa lunga e monotona: si deve stare sempre attenti, sempre all’erta, non ci si può mai fidare di una sola roccia. All’inizio siamo su cresta ben definita; poi la cresta si apre quasi in un pendio; poi torna a farsi affilata; poi si passa una macchietta di neve; poi di nuovo cresta affilata; poi una crestina nevosa facile; poi di nuovo detriti marci e fastidiosi.
Proprio in un istante in cui sto pensando “ma quella forcelletta è sempre lì, ma quando ci arriviamo a ‘sto canale?”... sento Galis che mi chiama e che mi indica la cresta dietro di noi: siamo già troppo avanti!! Quella forcelletta là in basso con il canalino non centra niente, abbiamo già superato lo sbocco del canale, e ormai siamo una buona cinquantina di metri più in basso. La notizia all’inizio mi sorprende, ma poi mi fa solo piacere: per ora significa solo che abbiamo fatto più progressi di quelli che pensavo.
Sono le 12:15 e dobbiamo prendere una decisione. Prima di tutto penso che sarebbe bene fare un colpo di telefono a Silvano, che è al rifugio ad aspettarci: abbiamo appuntamento tra le 12 e le 13 ed arriveremo con due ore e mezza di ritardo più o meno, quindi vorrei evitare che si preoccupasse per niente. Abbiamo fortuna: sulla cresta sud delle Droites il segnale GSM arriva forte e chiaro! Riusciamo a parlarci; spiego la situazione a Silvano, gli dico della nostra posizione e del tratto che ci manca, gli dico delle tracce che vediamo nel canale, delle 4 persone che avevamo visto in alto e del fatto che contiamo di trovare un passaggio facile per superare la crepaccia in fondo al canale. Nuovo appuntamento per le 15.
Ripartiamo dopo una breve sosta. Il canalino non sembra molto invitante: la parte alta sembra parecchio ripida e le roccette che dovremmo superare per raggiungerla hanno un aspetto del tutto inaffidabile. Per ora non ci avviciniamo al canale: scendiamo per roccette. E’ possibile scendere paralleli al canale lungo il pendio franoso. Qualche decina di metri più in basso vediamo un sistema di cengette che sembra poter condurre verso il canale senza troppe difficoltà; al principio pensiamo che potremmo seguirle, ma una volta raggiunte si rivelano inconsistenti: seguirle significa arrivare in una zona troppo pericolosa, troppo franosa, e per accedere al canale si dovrebbe attraversare un’ultima fascia di placche lisce coperte di ghiaietta che pare invalicabile. Per ora lasciamo perdere e continuiamo la discesa lungo il pendio di detriti. Io continuo a sperare di trovare il modo di raggiungere il canale, studio periodicamente il tratto di pendio che ce ne separa, ma ogni volta che sembra di raggiungere un abbozzo di traccia più facile, il progetto di rivela inattuabile e ogni volta siamo costretti a proseguire lungo le roccette. Andrea cerca di convincermi a più riprese del fatto che non varrebbe nemmeno la pena di entrare nel canale, visto che scendiamo comunque piuttosto spediti anche lungo questo pendio marcio, eppure ogni volta che faccio franare qualcosa la tentazione di traversare verso la neve si fa più forte. Alla fine si dimostrerà che modi sicuri di accesso al canale non ce ne sono, non più sicuri che restare dove siamo, e l’impressione di Andrea sarà quella giusta: meglio proseguire per detriti fino all’imbocco del canalino, in fondo, in prossimità della crepaccia terminale.
Proseguiamo per roccette, ghiaietta e terriccio in un franamento costante fino al termine del pendio. Arriviamo in prossimità dell’imbocco del canale. Qui la lingua di neve è tagliata da due crepacce parallele: una, minore, è alla nostra stessa altezza e non taglia tutto il canale, ma solo i primi metri; un paio di metri sotto di noi si chiude e forma un rassicurante terrazzino; un’altra, quella maggiore, la terminale vera, è una decina di metri più in basso; o meglio: “inizia” una decina di metri più in basso... e finisce una ventina di metri più in basso... ed è parecchio larga. Sotto di noi uno speroncino e quella ventina di metri di salto verticale di roccette dall’aspetto estremamente malsicuro che porta fino al fondo della terminale.
Qui si tratta di decidere cosa fare. Una opzione sarebbe quella di affidarsi a una calata in doppia: una ventina di metri dovrebbero bastare, si arriverebbe in fondo alla terminale, ma poi non si capisce bene come si potrebbe fare per uscirne. Da dove siamo non si capisce quanto la terminale sia aperta e quanto chiusa, non si può dire se sia fattibile una risalita lungo il muretto opposto, o se sia possibile seguirne il fondo verso destra - verso il centro - o verso sinistra - dove sembra che si apra in un canaletto, ma è solo un’impressione. Non c’è niente da fare, da qui non si capisce abbastanza: se andasse bene, se fosse in buone condizioni e percorribile, probabilmente con una calata fino alla sua base si risolverebbe tutto, però potrebbe anche andare male e se andasse male saremmo costretti a risalire e a rifare tutto.
La seconda opzione consisterebbe nel portarsi nel canale: dalla nostra posizione si potrebbe scendere di qualche metro, raggiungere la neve del canale e traversare in orizzontale costeggiando al di sopra l’ampia terminale. Sul lato opposto del canale si vedono le orme di salita di quei 4 ragazzi e io penso che se loro sono saliti di là, allora noi dovremmo poterci scendere... optiamo per la seconda soluzione.
Galis rimane fermo ad assicurare: sta su una cengetta e può usare uno spuntoncino, dove già si trovano un paio di vecchi cordini. Io scendo lungo uno speroncino di roccia un po’ sporco di ghiaietta, traverso di pochi passi e raggiungo il terrazzino all’inizio della prima crepa: solido e comodo, il posto perfetto per mettersi i ramponi. Quindi riparto; seguo in orizzontale la lingua di neve tra le due crepe e mi porto verso il centro del canale. La neve non è il massimo, si affonda parecchio, ma è molto facile e tutto sommato comoda; la pendenza si aggirerà tra i 40 e i 45 gradi. In traverso raggiungo una rigola che solca l’intero canale; è molto profonda e di neve ovviamente più compatta. Secondo i piani dovrei superare la rigola e continuare il traverso fino alle orme dei salitori, ma il muretto di uscita dall’altra parte è troppo complicato: un metro e mezzo perfettamente verticale di neve schifosamente molle, non riesco nemmeno a capire come potrei attaccarlo. Scendo un po’ lungo la rigola, cinque o sei metri, con l’intenzione di dare uno sguardo a dove sbocca sulla terminale: il punto diretto sotto alla rigola è quello in cui il canale ha scaricato la maggior parte della sua neve, ed è quello in cui la terminale dovrebbe essere più chiusa e dove il bordo opposto dovrebbe essere più alto. Arrivo a pochi passi dall’uscita e dall’osservazione mi sembra che le cose stiano effettivamente così, però vedo anche che si tratta di un bel dislivello, ci saranno circa tre metri tra i due margini della terminale, e più o meno un metro e mezzo di ampiezza. Provo a vedere se c’è la possibilità di piazzare qualche ancoraggio per una doppia, ma la neve è troppo molle ed è impossibile attrezzare qualcosa di decente. Risalgo di qualche passo e raggiungo un tratto in cui il margine opposto della rigola non è più così verticale; ne esco e vado a dare un’occhiata alla direzione di uscita delle impronte dei salitori. Le seguo pieno di fiducia... ed arrivo in un posto pazzesco: le impronte sembrano arrivare dal nulla, approdano alla neve da un punto da cui tutto quello che si vede è una decina di metri di salto verticale, alternativamente di neve inconsistente o di placche rocciose incredibilmente lisce. Quando lo vedo mi domando: ma da dove sono arrivati questi? Dal 6b li sotto? Constatata l’impossibilità di piazzare un’assicurazione per una doppia anche su quel lato non posso fare altro che tornare indietro. Arrivo al margine della rigola, descrivo la situazione a Galis, e gli comunico di raggiungermi. Nel tempo che impiego a rientrare nella rigola, a infilare i manici delle mie due piccozze nella neve e a improvvisarci un’assicurazione, Andrea scende lo sperone e si mette i ramponi. Velocemente supera il tratto di traverso e mi raggiunge nella parte bassa della rigola.
Ormai ho preso una decisione: o riesco a scavare un po’ e a trovare un pochino di neve compatta abbastanza da lasciarci una vite - non dico ghiaccio, ma almeno quel tantino di compattezza sufficiente a reggermi per tre metri di calata - oppure me la salto; a questo punto non posso fare altro. Calo Andrea lungo la rigola e poi lungo il salto della terminale; raggiunge il fondo e mi comunica che è bello chiuso. In pochi passi risale il cono di neve che occlude la crepaccia e si piazza sul versante opposto per descrivermi il posto: neve compatta, crepaccio chiuso, ma verso l’interno c’è un po’ di pendio che scende verso il muro superiore.
Constatata l’impossibilità di piazzare alcunché, mi decido per il salto. Andrea toglie dal punto di atterraggio tutti i sassi che trova - non pochi - mentre io scendo lentamente verso il bordo del salto. A tratti mi viene da pensare: sono solo tre metri, e si atterra su neve, che cavolo vuoi che sia... ma quando si tratta di saltare sul serio non riesco a decidermi, mi fa una grande impressione e non riesco a fare a meno di pensare che se incastonato lì sotto ci fosse qualche altro grosso masso o se per la compattezza della neve mi scivolasse nel modo sbagliato un piede mi potrei anche fare male... non ho voglia di farmi male.
Alla fine ovviamente salto, e atterro con assoluta precisione sul cocuzzolino più alto del margine esterno della crepaccia; la neve è di una consistenza perfetta, morbida abbastanza da ammortizzare nel modo migliore l’atterraggio, compatta abbastanza da non farmi affondare troppo. Solo tre metri con atterraggio su neve: alla fine l’opzione del “che cavolo vuoi che sia” si è rivelata quella corretta. Però quando mi rialzo per riprendere la discesa mi accorgo che mi stanno tremando le gambe...
Galis mi battezza “Batman” e mi fa notare che dopo quella della marmotta, mi sono appena perso la seconda foto della mia vita: avrebbe potuto scattarla mentre saltavo, ma stranamente in quel momento non ci aveva pensato nessuno dei due.
Ripartiamo subito. Ora che siamo definitivamente sul ghiacciaio non ci rimane che una facile camminata fino al rifugio. Il primo tratto sotto alla terminale è un po’ ripido, poi un po’ alla volta la pendenza diminuisce. Vorrei scendere in scivolata, ma Galis preferisce di no perché pare che ci possa essere un’altra crepa più avanti. A un certo punto però scivolo davvero: giuro che non ho fatto apposta: sulla neve ormai sfatta dal sole mi parte un tallone. Al momento cerco di piantare la piccozza, ma poi lascio perdere e semplicemente continuo così. Peccato che anche Galis non si decida subito, invece di partire cerca di frenarmi, ci strattoniamo un po’, mi si impiglia anche un rampone nella corda... Alla fine normalizziamo la situazione e ci dedichiamo alla scivolata. Ci facciamo di culo un gran tratto, della pendenza perfetta e senza buchi. I pantaloni di Galis sono evidentemente più scivolosi dei miei e tende ad accelerare di più; per bilanciare la cosa a tratti cerca di rallentare e ogni tanto sento la corda tendersi. Facciamo in scivolata il primo tratto, poi camminiamo per allontanarci da un affioramento di ghiaccio, e poi in scivolata un altro bel pezzetto.
Arriviamo molto velocemente dove cominciano i grossi crepacci che ci avevano dato da pensare. Non c’è ombra di tracce, ma dall’alto avevamo avuto modo di osservare bene la conformazione del pendio e ci siamo fatti un’idea della linea di passaggio migliore, abbiamo visto che sulla destra del primo grosso sistema di crepe scende una grossa lingua di neve uniforme che sembra percorribile senza problemi. Troviamo conferma alle nostre supposizioni: traversiamo parecchio a destra sopra ai crepacci, quindi prendiamo il pendio che scende verso il Jardin de Talefre. Come fa notare Andrea potremmo traversare ancora di più e andare a prendere una seconda lingua di neve buona che pare arrivare fino alla base della conca glaciale del Talefre, però non si capisce bene come possono essere le crepe nell’ultimo tratto ghiacciato. Restiamo dove siamo e scendiamo lungo un pendio molto facile, a tratti su comoda neve, a tratti su ghiaccio granuloso. Dobbiamo scavalcare anche un paio di brevi affioramenti di roccette.
Arriviamo all’inizio delle placcone rocciose che delimitano il Jardin de Talefre. Ci fermiamo per togliere i ramponi, quindi ripartiamo. Scendiamo lungo le facili placcone, poco inclinate, fino al plateau finale. Qui siamo costretti a rimetterci i ramponi per superare un ultimissimo dosso di ghiaccio. Dopo poche altre decine di metri di attraversamento arriviamo alla base della morena che ci dovrebbe portare fino al rifugio.
All’inizio dobbiamo sopportare la fatica della risalita lungo tracce ghiaiose instabili - come se non avessimo attraversato abbastanza tratti franosi per oggi - ma poi la traccia si fa pianeggiante e comoda.
Arriviamo in vista del Refuge du Couvercle. Silvano è sul terrazzo e ci nota immediatamente. Ci salutiamo da lontano, quindi ci viene incontro e ci raggiunge con una provvidenziale bottiglia d’acqua in mano. Quando scarichiamo gli zaini davanti al rifugio manca ancora qualche minuto alle 15.
Silvano ha già sistemato tutto il materiale, ha già preparato il suo zaino e ha raccolto la nostra roba. Di diverse cose si è fatto carico lui, e ora ha lo zaino ancora più pesante di ieri. Ci racconta di averci visto mentre scendevamo in scivolata il pendio sotto alla terminale, e di avere capito che quei due puntini eravamo noi e non due sassi solo per il fatto che a scivolata finita avevamo ricominciato a camminare con ritmo normale. E ci racconta di essere stato un po’ preoccupato negli ultimi minuti, perché poco prima di noi erano arrivati al rifugio quegli altri 4 ragazzi che erano stati sulle Droites: quelli che avevamo visto da lontano, là in alto. Hanno fatto tutto il giro e sono arrivati prima di noi; non ho idea della via di discesa che hanno fatto, se qualcosa di simile alla nostra linea di salita, o se qualcosa di più diretto, tipo quella linea di calate che scende direttamente dalla cima al Col des Droites. Comunque sia sono stati velocissimi. A parte i paragoni con noi, che non possiamo certo dire di essere stati veloci, questi sono andati proprio forte. Quando erano arrivati al rifugio Silvano ci aveva scambiato qualche parola e gli avevano detto di averci visti vicino alla cima, ma non più durante la discesa, quindi Silvano aveva cominciato col preoccuparsi.
Cerchiamo di perdere meno tempo possibile perché siamo parecchio preoccupati per l’orario e la possibilità di raggiungere l’ultimo trenino. Io e Andrea abbiamo bisogno di qualche minuto per riempire gli zaini con quello che era rimasto qui e per mettere un po’ di ordine nel materiale che abbiamo ancora appeso a zaini e imbragature. Intanto convinciamo Silvano a partire subito: potrà iniziare a scendere più tranquillo; poi noi cercheremo di recuperare.
Parte solo con pochissimi minuti di vantaggio; io e Galis in discesa cerchiamo di darci da fare per raggiungerlo, ma non ci riusciamo: scende decisamente veloce anche Silvano. Lo ritroviamo solo alla fine della ferrata, sulle ultime scalette, alla base dello zoccolo roccioso, dove alcune altre persone stanno facendo un po’ di traffico.
Da qui in avanti continuiamo insieme: prima la ‘mer de sass’, poi la Mer de Glace... Procediamo abbastanza spediti e i ripetuti riscontri cronometrici ci rendono sempre più fiduciosi per il trenino.
L’ultimo ostacolo è la ferrata di risalita delle placcone per raggiungere la stazione del Montenvers. Molto faticosa, ma abbiamo la possibilità di risalirla in tutta calma perché a questo punto sappiamo di aver già scongiurato il rischio di perdere il treno. Arriviamo alla stazione pochi minuti prima delle 18. Il prossimo treno è alle 18:10, ed è solo il penultimo.

Dopo la discesa in treno e l’arrivo alla macchina, quello che manca è solo il viaggio di ritorno. Un viaggio particolare, perché nonostante il sonno imperante, nessuno dei presenti ha intenzione di dormire. Quando passiamo il tunnel del Bianco e riusciamo a sintonizzarci su una radio italiana sono circa le sette e mezza; alle otto ci sarà il fischio d’inizio della finale dei mondiali di calcio: Italia - Francia.
Vabbè, tralascio la storia del viaggio, della partita, degli sfottimenti dei francesi sopportati per due giorni in territorio francese, e delle recriminazioni assortite del prima e del dopo, perché se no mi si allunga troppo la relazione... Metto solo il risultato: Campioni del Mondo!
Il resto è Storia. Quella con la S maiuscola. Che non è questa. Questa è quella di un fine settimana memorabile: un fine settimana in cui una marmotta mi ha leccato un dito, sono arrivato in cima alle Droites, ho fatto Batman e ho visto l’Italia vincere la finale della Coppa del Mondo. Che fine settimana!


Mirko Sala Tesciat
2006

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