Premessa
Il brano che segue, tratto dal IV libro del Il mondo come volontà e rappresentazione, riassume bene la visione pessimistica di Schopenhauer. La volontà è un impulso cieco e irrazionale, che si afferma anche a scapito del benessere e della felicità degli individui. La natura non è fatta in vista dell’uomo, come crede l’ingenuo antropomorfismo religioso, ma della volontà.
Solo elevandosi a questa consapevolezza è data, all’uomo, la possibilità di sottrarsi all’universale condizione di dolore in cui è immersa la natura, avviandosi a un difficile cammino di liberazione.
TESTO
La volontà libera e onnipotente, di cui l’universo fenomenico è l’estrinsecazione, la manifestazione, l’immagine, che si sviluppano secondo le leggi intrinseche alla forma della conoscenza, può, nel suo fenomeno più compiuto, nell’essere in cui sorge alla più perfetta coscienza di sé (1), assumere una forma nuova di manifestazione, che si realizza in due modi. Sollevatasi al sommo della riflessione e della coscienza di sé, la volontà può continuare a volere la stessa cosa che prima voleva con un impulso cieco e incosciente e, in tal caso, la conoscenza, sia generale, sia particolare, resta sempre un motivo; oppure, viceversa, la conoscenza medesima diviene un quietivo, che addormenta e annulla il volere. Si hanno, così, l’affermazione o la negazione della volontà di vivere (2). Sotto il punto di vista dell’esistenza dell’individuo, questa nuova manifestazione della volontà è di natura, non particolare, ma generale; non turba né modifica lo sviluppo del carattere, nè si esprime in atti isolati; anzi, traduce in espressione vivente, mediante la forte accentuazione o la soppressione completa della precedente condotta, la massima che la volontà, divenuta ormai cosciente, adottò con atto di libera scelta. È questo il tema che dobbiamo illustrare nel presente libro. [....]
Chiedo anzitutto al lettore di richiamare alla memoria la riflessione presentata al termine del secondo libro, quando si affacciò il problema del fine e dello scopo della volontà: invece di trovare una risposta positiva, constatammo che la volontà, in ogni grado della sua manifestazione, dal più basso al più alto, manca interamente di un fine ultimo, aspira sempre, perché la sua essenza si risolve in un’aspirazione che non può cessare per effetto di alcun conseguimento e che quindi è incapace di una soddisfazione definitiva; la volontà, per sua natura, si slancia nell’infinito e soltanto degli ostacoli possono metterle un freno. [...] E rammentiamo, dal secondo libro, che dappertutto le varie forze naturali e le varie forme organiche si disputano la materia che tendono a dominare, ciascuna possedendo ciò che ha tolto all’altra; di qui deriva, fra la vita e la morte, una lotta continua, che tende invano a superare le resistenze opposte allo sforzo costituente l’essenza intima di ogni cosa; essenza che tuttavia dura e si tormenta, finché il suo fenomeno svanisce per far posto ad altri che avidamente afferrano la stessa materia (3).
- Già da tempo riconoscemmo che questo sforzo, costituente il nocciolo e l’in sé di ogni cosa, è tutt’uno con ciò che è in noi, dove si manifesta con la massima chiarezza nella piena luce della coscienza, e si dice volontà. Al suo impedimento per via di un ostacolo che ne impedisca il fine momentaneo diamo il nome di sofferenza, mentre il conseguimento del suo fine lo chiamiamo soddisfazione, benessere, felicità. Queste denominazioni si possono applicare anche ai fenomeni, più deboli di grado ma identici di natura, del mondo privo dì conoscenza. Anche questi, allora, li vediamo affetti da un perpetuo soffrire, senza piacere durevole. Ogni tendere nasce infatti da una privazione, da una scontentezza del proprio stato; è dunque, finché non sia soddisfatto, un soffrire; ma nessuna soddisfazione è durevole; anzi, non è che il punto di partenza di un nuovo tendere. Il tendere lo vediamo sempre impedito, sempre in lotta: è dunque sempre un soffrire; non c’è nessun fine ultimo al tendere: dunque nessuna misura e nessun fine al soffrire (4).
Ma ciò che nella natura incosciente possiamo scoprire soltanto con acume e fatica, ci appare chiaramente nella natura consapevole, nella vita degli animali, di cui è facile dimostrare il soffrire continuo. Ma senza indugiarci su questo gradino intermedio, veniamo alla vita umana, dove tutto appare con la massima chiarezza, nella luce della conoscenza più distinta. Infatti, quanto più perfetto è il fenomeno della volontà, tanto più manifesto è il soffrire. Nella pianta non c’è ancora sensibilità, quindi non c’è dolore; gli animali inferiori, infusori e raggiati, non hanno di certo che un grado minimo di sensibilità e di dolore; la facoltà di sentire e di soffrire è ancora limitata negli insetti: solo con il perfezionarsi del sistema nervoso nei vertebrati tocca un grado è più alto, che lo diviene sempre di più quanto più si sviluppa l’intelligenza. Dunque: man mano che la conoscenza diviene più distinta e che la coscienza si eleva, cresce anche il tormento, che nell’uomo raggiunge quindi il grado più alto, e tanto più alto, quanto più l’uomo è intelligente; l’uomo di genio è quello che soffre di più. In questo senso, cioè in ordine alla conoscenza in generale, non al semplice sapere astratto, intendo e cito il detto del Qohelet: Qui auget scientiam, auget et dolorem (5). […]
Studieremo perciò nell’esistenza umana l’intimo, essenziale destino della volontà. Ciascuno riconoscerà facilmente il medesimo destino, solo con minore intensità e in gradi diversi, nella vita dell’animale, persuadendosi così, anche nell’animalità sofferente, che ogni vivere è per essenza un soffrire. (Vedi Pessimismo)