Le quattro forme del principio di ragione sufficiente, che corrispondono alle quattro classi di rappresentazioni che abbiamo descritto, forniscono la spiegazione di ciò che il mondo è in guanto rappresentazione, ma non consentono un accesso alla cosa in sé (in questa conclusione l'autore concorda col risultato negativo della Critica della ragion pura). Tuttavia l'esigenza metafisica di una spiegazione totale della realtà non può essere soddisfatta da questa risposta. Tale esigenza, del resto, trapelava già nella spiegazione del mondo come rappresentazione: nell'analisi sulla libertà del volere a proposito della quarta classe di oggetti. Potrà essa trovare una risposta positiva, al di là dei limiti del kantismo? Esiste un'altra via di accesso alla cosa in sé diversa da quella (di tipo trascendente) proposta da Kant nella sua seconda Critica, con i postulati della ragione pratica?
IL MONDO COME VOLONTÀ E RAPPRESENTAZIONE
Componendo Il mondo come volontà e rappresentazione Schopenhauer intende elaborare una metafisica che sappia fornire appunto una risposta a questa domanda. Egli non ripete, nell'opera maggiore, le dottrine contenute nella Quadruplice, ma le presenta come indispensabile introduzione propedeutica al Mondo. Qui non si tratta di edificare una "classica" metafisica della trascendenza, ma una metafisica dell'immanenza: secondo una direzione che solo l'analisi trascendentale kantiana ha per la prima volta reso possibile. "La mia metafisica - scrive - non va, di fatto, ai di là dell'esperienza, ma presenta soltanto la vera comprensione di quel mondo che esiste in essa". Una metafisica dell'esperienza non può essere "una scienza di meri concetti" ovvero "un sistema di deduzioni da principi a priori" (secondo le definizioni della Critica della ragion pura), ma un sapere concreto, "attinto dall'intuizione del mondo esterno e reale, nonché dall'orizzonte che, su tale mondo, ci ha dischiuso la realtà interiore dell'autocoscienza".
Il principale merito di Kant sta nella distinzione, tra fenomeno e cosa in sé, che ha posto una barriera critica invalicabile tra il conoscere obiettivo - perché empirico - e il pensare meramente soggettivo e arbitrario delle speculazioni trascendenti - Dio, l'immortalità dell'anima ecc. - L'errore di Kant, invece, che con ciò fosse definitivamente preclusa la via alla conoscenza della cosa in sé, ossia a una filosofia che non si esaurisca nell'a-nalisi trascendentale della possibilità del conoscere, ma pervenga a una conoscenza effettiva del mondo. Schopenhauer crede di aver trovato una via di accesso alla cosa in sé - che egli identifica con la volontà e ritiene perciò possibile edificare, su basi kantiane, una nuova metafisica.
Egli introduce ora la distinzione tra mondo come rappresentazione e mondo come volontà. Osserva infatti che finché il soggetto è orientato verso l'esterno e vuol conoscere obiettivamente quel mondo fenomenico che gli sorge davanti (mediante l'applicazione ai dati sensibili delle categorie intellettive di spazio, tempo e causa; mediante cioè il principio di ragione), l'unica conclusione cui può pervenire è: "il mondo è la mia rappresentazione".
Il carattere illusorio del mondo fenomenico
Schopenhauer accetta il principio dell'antico idealismo, secondo cui il mondo che cade sotto i sensi non è il mondo vero, ma è solo un'immagine ingannevole, apparenza, sogno, illusione. Su questa affermazione concordano poeti come Pindaro, filosofi come Platone, o l'antica saggezza religiosa dell'india consegnata nei Veda: "E' maya, il velo dell'illusione, che ottenebra le pupille dei mortali e fa loro vedere un mondo di cui non si può dire né che esista né che non esista; il mondo infatti è simile al sogno, allo scintillio della luce solare sulla sabbia, che il viaggiatore scambia da lontano per acqua, oppure ad una corda buttata per terra ch'egli prende per un serpente". Questo genuino principio idealistico, che considera illusoria ogni rappresentazione sensibile del mondo, era stato ripreso, in epoca moderna, da Berkeley, per il quale l'essere si risolve nell' essere percepito, e posto da Kant a fondamento di una visione finalmente critica del conoscere.
Ma Kant non ha considerato il fatto che questa riduzione del mondo a mero fenomeno conoscitivo (condizione peraltro indispensabile per la fondazione di una visione scientifica obiettiva) è resa possibile solo da un atto di astrazione, che esclude, come inessenziale al conoscere, una dimensione pur fondamentale della nostra esperienza del mondo: la volontà. Se rivolgiamo lo sguardo non all'esterno, verso le cose, ma all'interno, nell'autocoscienza, ci si rivela un'altra dimensione del mondo e una diversa verità, che suona: "il mondo è la mia volontà".
La funzione mediatrice del corpo proprio
La nozione che consente di gettare un ponte tra il mondo come rappresentazione e il mondo come volontà è quella di
corpo. Il corpo - sede degli organi sensitivi e del cervello, organo della conoscenza intellettiva - può essere riguardato da opposte prospettive. Come oggetto tra gli oggetti, corpo tra i corpi, esso non è altro che "fenomeno". Rispetto agli altri corpi, che vengono co-nosciuti attraverso l'azione causale da essi esercitata sugli organi di senso (quindi in forma mediata), il corpo proprio ha il relativo privilegio di costituire per il soggetto l'oggetto primo e immediato, ma resta pur sempre una rappresentazione. Ma il corpo è conosciuto in tutt'altra maniera nell'autocoscienza. E sufficiente l'affermazione "io voglio" e subito questo atto del soggetto si traduce in un movimento del corpo! Il movimento corporeo, anzi, non segue propriamente all'atto di volontà, concepito come un atto di decisione intellettuale da esso distinto, come pensa l'intellettualismo, ma coincide con questo atto stesso, è la sua manifestazione obiettiva. Che cosa sia in se stessa la volontà rimane un mistero, togliere quest'ultimo "velo" alla verità equivarrebbe a voler conoscere che cosa sia in sé il soggetto: ossia conoscerlo non in quanto soggetto, ma come oggetto, il che è assurdo; ma come si manifesti oggettivamente la volontà, che si identifica con la cosa in sé, è qualcosa che può essere conosciuto in via immediata, nell'esperienza interna dell'autocoscienza (vedi TESTI, Unità 7 - testo 2).
LA VOLONTÀ NELLA NATURA
Pervenuto all'identificazione della cosa in sé con la volontà, Schopenhauer procede all'applicazione, in via analogica, di questa intuizione originaria a tutti gli aspetti della realtà. Il. mondo è studiato dalla scienza della natura in maniera eziologica: ricercando, cioè, le cause del mutamento nei fenomeni; ma la spiegazione scientifica si deve arrestare davanti all'ammissione di forze (quali per esempio la forza di gravità) che in se stesse rimangono incognite, e di cui ci si limita a constatare le manifestazioni nel mondo fenomenico. Nella ammissione di forze che sfuggono alla spiegazione scientifica e che non vanno quindi scambiate con le cause, ovvero con le loro manifestazioni empiriche nei fenomeni, la scienza sembra dover riammettere l'esistenza di qualita-tes occultae nella natura. La spiegazione scientifica, per non cadere nel dogmatismo o nell'irrazionale, deve perciò aprirsi alla considerazione filosofica.
Una metafisica della natura - quale si può svolgere a partire dall'identificazione della cosa in sé con la volontà - può anzi completare e integrare razionalmente i risultati della scienza. Una simile metafisica empirica assume co-me ipotesi direttiva quella che le forze presenti in natura siano, nella loro essenza, identiche alla volontà, che ci è direttamente nota nell'autocoscienza.
I gradi di oggettivazione della volontà
Considerata nella sua essenza metafisica la natura si rivela un unico, complesso e stratificato fenomeno della volontà. Benché non giungiamo mai a co-noscerla in toto, dobbiamo supporre che la volontà sia in sé unica e identica in tutti i fenomeni.
La molteplicità risulta infatti dall'applicazione al mondo delle forme del principio di ragione sufficiente: spazio, tempo, materia e quindi corporeità, individuazione - il corpo è per Schopenhauer il principium individuationis in senso metafisico - finitezza. A mediare tra l'assoluta e inconoscibile unità della volontà e la molteplicità dispersa delle sue manifestazioni fenomeniche -i singoli corpi - stanno, come gradi intermedi che consentono l'oggettivazione della volontà, le idee.
Le idee: i modelli del mondo fenomenico
Esse sono nell'accezione platonica del termine, gli archetipi o i modelli cui la volontà per così dire, si ispira nel suo manifestarsi fenomenico. Le forze naturalistiche sono assimilabili a idee: come le idee mantengono intatta la propria unità, pur esplicandosi in molteplici modi nel mondo fenomenico. La legge naturale non è che la mediazione tra l'idea e il fenomeno: essa determina l'esplicazione necessaria e infallibile della forza, in relazione alle condizioni causali che si verificano nell'esperienza.
La natura inorganica, quella organica, il mondo vegetale, animale e, infine, l'uomo costituiscono i gradi successivi e ascendenti di oggettivazione della volontà. Considerata sotto questa prospettiva unitaria la natura perde il suo apparente determinismo, per rivelare all'opera un più profondo teleologismo: ritornano, in un certo senso, i problemi della kantiana Critica del giudizio. Tuttavia, nulla è più lontano dalle intenzioni di Schopenhauer di una prospettiva di armonia metafisica.
La sofferenza universale
Nel suo modo di manifestarsi la volontà si presenta, al contrario, come lacerata da un'insuperabile conflittualità. La natura, a tutti i livelli, mostra uno spettacolo desolante di lotta e sopraffazione, di miseria e dolore. Le forze naturali lottano per contendersi il limitato spazio della materia. Le forme viventi sembrano avere come condizione necessaria della loro sopravvivenza la morte e la soppressione di altre forme viventi. E come se la volontà, per affermarsi, divorasse continuamente le proprie stesse oggettivazioni, come se la volontà fosse in perenne lotta con se stessa.
Sollevato il velo della maya dei sensi ingannatori, ciò che si rivela allo sguar-do, dietro l'apparenza razionale del fenomeno, cioè del mondo come rappresentazione, è lo spettacolo di una volontà cieca e irrazionale, che non si propone altro scopo che la propria autoaffermazione. La volontà vuole se stessa: è una volontà di vivere cieca e astuta, che sfrutta ogni occasione per affermarsi, senza avere di mira uno scopo razionale.
È questo, per Schopenhauer, il volto vero e demoniaco del mondo, il mondo come volontà
Schopenhauer intende contrapporsi al tradizionale dualismo di filosofia teoretica e pratica che egli considera una derivazione del dualismo di anima e corpo, di ascendenze ebraico-cristiane. Egli intende edificare una filosofia che sia "etica e metafisica in uno", come si legge in un inedito frammento giovanile. Come in metafisica, anche nella morale egli si attiene al metodo dell'immanenza, che consiste nel descrivere e interpretare come di fatto si attui la condotta umana, anziché prescrivere come essa dovrebbe svolgersi, sulla base di vuote speculazioni trascendenti. Del resto sarebbe una pazzia "aspettarsi che i nostri sistemi di morale formino i virtuosi, i nobili e i santi, o che le dottrine dell'estetica formino i poeti, gli scultori e i musicisti". La virtù, come il genio artistico, non si insegna e quelli che, come Kant, vogliono prescrivere al mondo un "dovere incondizionato", cadono in una pretesa assurda: "è una contraddizione palese: chiamare libera la volontà, e tuttavia prescriverle delle leggi, secondo cui debba volere; "dover volere", come chi dicesse: ferro di legno!".
L'etica di Schopenhauer è dunque tutt'uno con la sua filosofia teoretica e si concentra nella risposta a un unico problema: quello della libertà del volere.
Qual è l'essenza della volontà? E' libera di volere ciò che vuole? Che posto occupa l'uomo in rapporto alla volontà metafisica? Per affrontare tali domande occorre preliminarmente chiarire qual è, in generale, il rapporto tra intelletto e volontà.
DALLA METAFISICA ALLA MORALE
I primi due libri del Mondo sviluppano una teoria della immancabile servitù dell'intelletto alla volontà. La volontà è concepita come un'essenza metafisica, unica e identica in tutte le sue manifestazioni fenomeniche. Essa è al di là dei modi della nostra comprensione intellettuale e, come tale, senza scopi né fini, quindi irrazionale. La sua oggettivazione necessaria sono i singoli modi finiti in cui essa si esplica nello spazio e nel tempo: i singoli corpi e organismi che si sviluppano, secondo una scala ascendente, dalla natura inorganica all'uomo. Nell'uomo si presenta per la prima volta il fenomeno della coscienza, la quale è peraltro legata al funzionamento di un organo corporeo: il cervello. Anche la coscienza è dunque u fenomeno della volontà; essa comprende l'ntelletto, ossia la capacità di intuire il nesso causale tra fenomeni, che l'uomo condivide con tutti gli animali superiori, e la ragiona, ossia la capacità del pensiero astratto, che è una prerogativa esclusiva dell'uomo.
Schopenhauer ribadisce con insistenza, anche in polemica con Hegel, questa teoria della coscienza come "epifenomeno del cervello", che differenzia nettamente il suo idealismo da ogni versione di spiritualismo. Ne risulta la teoria dell'intelletto al servizio della volontà, che rovescia l'antica dottrina dell'intellettualismo.
Non è la volontà ad attuare, nella volizione, gli scopi razionali dell'intelletto; ma è quest'ultimo a offrire alla volontà, che ne muove, per così dire, i fili, i motivi affinché essa possa attuare consapevolmente, ossia "razionalmente, ciò che già vuole inconsciamente e irresistibilmente. Se tale dottrina fosse l'unica insegnata dal Mondo, non si vede in che modo, da una metafisica cosiffatta, Schopenhauer possa derivare un'etica della libertà. Ma nel terzo e quarto libro l'autore arricchisce questo pensiero fondamentale di valenze nuove e inaspettate.
L'arte come conoscenza intuitiva della volontà
L'estetica di Schopenhauer rappresenta un ampliamento della sua gnoseologia. L'arte è infatti una forma di conoscenza: quella che si riassume nella nozione di genio. La conoscenza dell'uomo comune si serve di nozioni intuitive cioè tratte dai sensi e dall'intelletto, e astratte, i concetti della ragione. Essa si muove nei limiti del fenomeno ed è al servizio della volontà: è cioè una conoscenza eminentemente "utilitaria". Al contrario, quella del genio o dell'artista è una conoscenza rivolta all'idea. Si tratta di una forma superiore di intuizione, che oltrepassa i limiti del fenomeno per cogliere l'oggettività immediata della volontà, perché le idee, a differenza dei concetti, sono intuitive e non astratte.
All'arte Schopenhauer assegna una funzione direttamente metafisica: quella di esprimere l'aspetto profondo della realtà come volontà, oltre il fenomeno. Nelle sue diverse forme - dall'architettura alle arti figurative, alla poesia lirica, da questa al dramma e alla tragedia, fino alla musica - l'arte non fa che esprimere un unico contenuto: la volontà, dai gradi inferiori di oggettivazione nella materia, fino a quelli più elevati nell'uomo e nella coscienza. Che tipo di atteggiamento conoscitivo realizza l'arte? Un atteggiamento puramente contemplativo, in cui il soggetto diventa "puro soggetto conoscente e limpido occhio del mondo", emancipandosi cioè dalle forme del principio di ragione sufficiente e dal servizio alla volontà. Schopenhauer riprende da Kant la definizione del bello come l'oggetto di un piacere disinteressato, caricandolo però di valenze metafisiche. Tanto l'artista, nel momento della creazione, quanto lo spettatore, in quello della fruizione estetica, si pongono di fronte al mondo come a una rappresentazione pura della volontà, distaccando per un momento la considerazione obiettiva del fenomeno da qualsiasi riferimento utilitario all'io.
L'emancipazione dell'intelletto dalla volontà
L'arte rivela cioè la possibilità di una, almeno momentanea, emancipazione dell'intelletto dal servizio alla volontà e sembra offrire una risposta qualitativamente all'enigma stesso della volontà. E come se, nel sereno mondo dell'arte, in cui tacciono il bisogno e il dolore connessi con la volontà di vivere, il volere deponesse il proprio tendere oscuro e cieco per assumere un volto innocente e razionale. È come se il mondo esistesse al solo scopo di fornire alla volontà uno specchio in cui rivelarsi e prendere coscienza di sé. Questa catarsi estetica della volontà - che, tra le arti, realizzano soprattutto la tragedia e la musica ci predispone a una rinnovata considerazione del rapporo tra volontà e intelletto, che riguarda ora direttamente l'etica.
IL PROBLEMA DELLA LIBERTA'
Quella del Mondo è un'etica della liberazione. Il concetto di libertà, infatti, è un concetto negativo in quanto significa semplicemente "negazione della necessità, negazione della relazione di causa ed effetto".
In polemica con la concezione tradizionale di un libero arbitrio della volontà, Schopenhauer fa sua la distinzione kantiana tra il piano empirico o fenomenico dell'azione, che è sempre determinata, e quello noumenico della volontà in sé libera. Ma in Kant la volontà è libera in quanto coincide con la ragione. Essa è libera nel senso che, obbedendo alla legge della ragione, che si esprime nella forma del dovere, obbedisce solo a se stessa, è cioè autonoma. Schopenhauer, invece, restringe l'ambito della ragione (principio di ragione sufficiente) al fenomeno e concepisce la volontà come qualcosa di irrazionale. Perciò la libertà non può essere definita positivamente, ma solo negativamente, come assenza di necessità.
L'uomo propriamente non è libero ma si libera, superando via via i condizionamenti del mondo fenomenico e approfondendo il senso della propria appartenenza al mondo noumenico, della propria identità essenziale con la volontà metafisica (vedi TESTI, Unità 7 - testo 3).
Abbiamo visto una prima applicazione di questo concetto in ambito estetico. L' arte è liberazione, in quanto consente di sospendere il rapporto utilitario nel conoscere e di instaurare una relazione di perfetta coincidenza tra soggetto e oggetto, tra volontà e fenomeno. Ma solo la moralità rende definitiva tale conquista, superando la sporadicità e l'eccezionalità dell'esperienza estetica e instaurando nel soggetto uno stabile habitus morale.
Affermare o negare la vita?
L'azione morale consiste nella scelta libera del proprio carattere intelligibile, ossia nella scelta etica fondamentale, che decide una volta per tutte il valore delle nostre azioni successive, che saranno, comunque, empiricamente determinate. L'uomo è libero solo identificandosi con la volontà metafisica; ma questa volontà è pura volontà di vivere: : volontà è infatti sinonimo di vita. L'alternativa etica fondamentale sarà allora quella tra affermazione o negazione della volontà di vivere.
Due sono i comportamenti etici possibili: quello di chi, avendo compreso che il mondo è solo fenomeno e che l'unica realtà è la volontà, accetta di identificarsi attivamente con essa, vuole consapevolmente ciò che prima la volontà, in lui, voleva inconsciamente, in una parola: afferma la vita. Un tale uomo, "che ami la vita qual è, che l'affermi con tutta la sua potenza, può senza scrupolo ritenerla come infinita, bandire il timore della morte come un'illusione suscitata in lui dall'insensato orrore di poter perdere un giorno il possesso del presente". A questa scelta, di chi afferma la vita, se ne contrappone un'altra: quella dell'asceta, che rinuncia alla vita, che nega in se stesso la volontà. L'asceta è colui il quale, avendo compreso che l'essenza del mondo è la volontà, ha orrore della realtà di dolore e di miseria che tale identificazione necessariamente porta con sé e, pur continuando a vivere - il suicidio non è una soluzione perché la volontà di vivere è immortale e non è annullata da un gesto che ne tocca solo il fenomeno -, sospende liberamente il suo assenso alla volontà.
Quale dei due atteggiamenti è quello eticamente preferibile? Schopenhauer rifiuta - coerentemente con il ripudio di ogni morale prescrittiva - una risposta aprioristica. Essa dovrà scaturire da una considerazione puramente razionale.
Il pessimismo schopenhaueriano
Come abbiamo visto, la volontà si presenta, nel mondo fenomenico in lotta con se stessa. La vita è un processo di continua creazione e distruzione; essa ha, come condizione del proprio perpetuarsi, il suo contrario: la morte e la distruzione di altri esseri viventi. La sofferenza muta del mondo vegetale e quella inconsapevole del mondo animale giunge solo nell'uomo alla presa di coscienza della verità fondamentale, che "ogni vivere è per essenza un soffrire". L'uomo tende al piacere, ma questo stimolo ha per condizione uno stato di bisogno e quindi di dolore. La vita, anche considerata da un punto di vista strettamente "utilitaristico", si rivela come un affare in perdita, come una perpetua oscillazione tra i due estremi del dolore e della noia (che subentra alla momentanea soddisfazione del bisogno), che si conclude con la catastrofe finale della morte. L'uomo che si elevi, con la ragione, a questa consapevolezza si domanderà che cosa sia meglio per la vita, che cosa possa assicurare l'eliminazione non solo provvisoria, ma definitiva, del dolore. Affermare la vita o negarla? Volere la volontà, usando la conoscenza come un motivo per vivere, o negarla, usando la conoscenza come un quietivo della volontà di vita? (Vedi Pessimismo)
Ascesi e compassione: le forme della noluntas
Posto di fronte a questa domanda l'individuo potrà trovare la soluzione dell'ascetismo come quella razionalmente preferibile (nonostante le apparenze). L'ascetismo si traduce per Schopenhauer in una morale della compassione. Essa consiste nell'abolire ogni distinzione tra l'io e l'altro, nella capacità di patire-con-l'altro (nel significato etimologico di com-passione), giungendo a respingere l'egoismo in quanto forma tipica di cui si serve la volontà di vivere per attuare i suoi scopi (vedi TESTI, Unità 7 -~ testo 4).
Vi sono gradi diversi nell'ascesi, che Schopenhauer intende come un'ascesi inframondana, anche se cita come esempi pratiche ascetiche di tipo religioso, dalla castità, alla povertà volontaria, all'autoabnegazione, al sacrificio eroico di sé. La castità è il primo e indispensabile gradino dell'ascesi, in quanto rappresenta la scelta, per l'individuo, di liberarsi dalla subordinazione alla volontà della specie che utilizza le lusinghe dell'amore per uno scopo interessato: garantire la propria sopravvivenza, sia pure a costo del dolore e dell'infelicità dei singoli. Essa, non il suicidio, rappresenta il vero scacco nei confronti della volontà di vivere. Ogni forma di ascesi non ha tanto valore di per sé, quanto piuttosto esprime una sorta di "esperimento metafisico": essa ci pone di fronte allo spettacolo di una volontà che, sopprimendo se stessa, "provoca un antagonismo del fenomeno con se stesso fino a creare lo stato di santità". Non è possibile definire in positivo il termine dell'ascesi, che non ha in ogni caso, di mira l'annullamento nichilistico dell'uomo e dei suoi valori, quanto piuttosto la loro trasformazione. Schopenhauer può solo esprimerlo in negativo, col termine di noluntas: che sta a indicare la condizione della volontà liberata, non più cieca volontà di vivere, ma sua catarsi definitiva, non più, propriamente, "volontà", ma "non volontà".
Testo di lettura: "Affermazione e negazione della volontà" da Il mondo come volontà e rappresentazione