Martin Heidegger
1 - La fenomenologia esistenziale
Da Cioffi…, I libri di diàlogos, cit., vol. F, pp. 86-89
II problema del senso dell’essere I punti chiave
Il pensiero di Martin Heidegger si contraddistingue per il tentativo di riproporre nell’età contemporanea un problema che nell’antichità fu il centro dell’indagine filosofica: il problema dell’essere. L’apparente elementarità dell’interrogativo che Heidegger solleva - "che cos’è l’essere?" - ci pone di fronte al fatto che non solo manca oggi una risposta a questo interrogativo, ma che il suo stesso senso ormai ci sfugge. Se noi siamo senza risposte, afferma Heidegger, è perché nell ‘epoca attuale, dominata dai problemi settoriali del sapere e dai successi della tecnica, non avvertiamo neppure il bisogno di porre tale domanda. Occorre dunque ridestare anzitutto la comprensione stessa della domanda sull'essere, sottraendola al lungo oblio che, per il filosofo tedesco, coincide con la storia della metafisica avviatasi in Grecia; occorre riscoprirla appunto come "domanda", mentre oggi siamo portati a considerare l’essere come il concetto più semplice e più ovvio, tanto semplice e ovvio che non costituisce più neppure un problema. Non diamo forse per scontato il significato della parola "essere" nei suoi molteplici impieghi linguistici, quando per esempio diciamo: "questa cosa è", "il cielo è azzurro", "ora è mattino"?
Alla base della filosofia di Heidegger vi è dunque l’intento di risalire alla radice del problema filosofico per eccellenza, che egli ritrova nell’interrogativo aristotelico intorno all’essere dell’ente. La domanda che Heidegger si pone può formularsi così: dati i molteplici significati dell’essere (l’essere infatti, secondo Aristotele, "può dirsi in molteplici maniere"), qual è il senso unitario che è loro sotteso? Sollevare la questione del senso dell’essere non significa per Heidegger porsi domande circa il "senso della vita", quanto chiedersi in riferimento a che cosa l’uomo comprende l’essere dell’ente, vale a dire l’essere di tutto ciò di cui noi diciamo che è. Ne deriva che il problema del senso dell’essere va impostato anzitutto in relazione a quell’ente, l’uomo, che unico fra tutti gli enti si distingue per la comprensione dell’essere. L’esito cui Heidegger perviene nella sua opera maggiore, Essere e tempo (1927), consiste nell’indicare il tempo come l’orizzonte in base a cui l’uomo comprende l’essere.
Questa funzione "ontologica" del tempo non è ignota alla metafisica tradizionale. Quest’ultima, tuttavia, tra le dimensioni temporali ha privilegiato unilateralmente la modalità del presente. La filosofia ha infatti sempre concepito l’essere come ciò d che sta di fronte a noi, come la "semplice-presenza" di una cosa o di un oggetto: come sostanza. E’ questo il motivo per cui, secondo Heidegger, la riproposizione del problema dell’essere non può avvenire sulla base di una ripresa della metafisica, ma deve piuttosto orientarsi su un’analisi dell’essere dell’uomo e della sua temporalità.
La fenomenologia come metodo
Negli anni della sua formazione, dopo un interesse iniziale per il neokantismo, Heidegger trova nella fenomenologia di Husserl un terreno fecondo di elaborazione filosofica. Il principio di fondo del metodo fenomenologico, che è quello di andare al. le "cose stesse" per descriverlo nella loro datità originaria, appare a Heidegger come una riscoperta della concezione greca della verità. Essa è intesa, cioè, come originaria manifestazione degli enti (alétheia), ossia dei fenomeni, nel senso etimologico di "ciò che appare in se stesso".
Il luogo di questa manifestazione era tuttavia pensato da Husserl come la "coscienza pura", risultato del procedimento della epoché e della riduzione fenomenologica. Agli occhi di Heidegger, ciò stava a significare che i "fenomeni" ricadevano ancora sotto il dominio di una soggettività di tipo trascendentale: la fenomenologia husserliana sembrava orientarsi ancora sull’ ideale di un soggetto puro, disincarnato, come il soggetto della conoscenza della tradizione di Cartesio e di Kant.
A questa concezione, Heidegger oppone una diversa considerazione della soggettività che egli interpreta in termini di storicità, di concretezza vissuta, di radicale finitezza: in breve, di fatticità della vita umana. Ma la fatticità dell’uomo e il suo coinvolgimento nella situazione storica non possono essere colti mediante l’atteggiamento puramente contemplativo e neutrale di uno "spettatore disinteressato ", quale è quello indicato dalla fenomenologia di Husserl. Quest’ultima rimane improntata, secondo la Heidegger, a un atteggiamento fondamentalmente a-storico, che descrive l’uomo e i fenomeni nel loro darsi a-temporale, libero da quei pregiudizi di cui invece è intessuta abitualmente la nostra conoscenza. Proprio questa pretesa di una conoscenza "priva di presupposti" sembra ad Heidegger una strada impraticabile: ciascuno di noi si trova costantemente implicato in una certa situazione interpretativa che gli è preliminarmente data; per questo dispone sempre di una pre-comprensione di ciò intorno a cui si pone domande, precomprensione da cui non è possibile prescindere, ma che si tratta piuttosto di esplicitare e interpretare in modo consapevole come quell’insieme di presupposti che contraddistingue l’ "esserci" dell’uomo.
L’ermeneutica della fatticità
Molteplici motivi convergono in questo orientamento heideggeriano in direzione di una ermeneutica della fatticità, ossia di un’interpretazione della "vita fattizia": il cristianesimo di Paolo e Agostino, di Lutero e di Kierkegaard; l’influenza delle "filosofie della vita" dominanti nei primi decenni del secolo; la filosofia di Dilthey. Proprio la nozione diltheyana di "ermeneutica", come sapere rivolto all’interpretazione delle manifestazioni della vita, è ripresa da Heidegger per contraddistinguere il compito dell’interpretazione di quel fenomeno che egli designa come "vita fattizia", oppure anche come esserci. Si tratta di un fenomeno particolare, che non è solo oggetto d’interpretazione, ma anche soggetto, perché gli appartiene una tendenza a comprendersi e a interpretarsi (è ciò che abitualmente intendiamo quando diciamo che l’uomo è cosciente di sé, riflette su se stesso e sul mondo).
Prende così rilievo in Heidegger l’idea che solo a partire dall’uomo, ossia da quell’ente che si caratterizza per questa apertura ermeneutica, si può trovare una via di accesso al problema dell’essere e si può rimettere in discussione l’ontologia tradizionale, legata al privilegiamento dell’ente come "oggetto" (a sua volta concepito sul modello della cosa fisica). Occorre dunque interrogare l’uomo, l’unico fra tutti gli enti che si pone il problema dell’essere. Quale significato assume in questo contesto la "fenomenologia", cui Heidegger si richiama ancora in Essere e tempo, dichiarando che le ricerche da lui intraprese sono state possibili solo sul "terreno dissodato" da Husserl? Heidegger interpreta la fenomenologia a partire dal significato etimologico delle parole greche che sono alla base di questo termine: phainòmenon (ciò che si manifesta in se stesso) e logos (discorso che lascia vedere, che rende manifesto). Fenomenologia significa dunque: "lasciar vedere da se stesso ciò che si manifesta". La fenomenologia è intesa da Heidegger essenzialmente come un metodo: il metodo di lasciar che le "cose stesse" si mostrino da sé in quanto fenomeni, contro ogni possibile loro occultamento o fraintendimento. Ma la "cosa" che per eccellenza deve mostrarsi è ciò che, nell’apparire degli enti, per lo più resta nascosto: il loro essere. Sotto questo profilo la fenomenologia diventa scienza dell’essere, ontologia. Poiché inoltre essa pone al centro della sua indagine l’essere di quell’ente (l’uomo) che comprende l’essere, la fenomenologia diventa ermeneutica, ossia interpretazione dell’essere dell’uomo e delle sue strutture esistenziali fondamentali.
L’analitica esistenziale di Essere e tempo
Svolgere un’analitica esistenziale non significa indagare il soggetto anziché l’oggetto. L’esserci, Infatti, secondo Heidegger, non è il "soggetto" della moderna teoria della conoscenza, che per conoscere deve andare "al di là" della sua soggettività, la sfera immanente dell’io e delle sue rappresentazioni, verso una sfera trascendente: il mondo esterno. L’esserci, al contrario, è inteso sempre in un rapporto originario con il mondo, che precede ogni separazione e contrapposizione tra interiorità ed esteriorità, fra soggetto psichico e oggetto fisico, fra immanenza e trascendenza. Nel suo complesso, Essere e tempo è un’opera che costituisce una "analitica dell’esistenza", ossia una ricerca che studia l’essere dell’esserci (l’esistenza appunto), in quanto l’esserci umano è quell’ente che si pone problema del proprio essere e, di riflesso, dell’essere degli enti che sono differenti dall’uomo, questo motivo Heidegger compie un’analisi delle strutture costitutive dell’esserci (gli "esistenziali a partire da quella condizione abituale in cui l’uomo vive, che è la sfera della quotidianità.
Designando l’uomo con l’espressione "esserci (Dasein), Heidegger vuole sottolineare che egli l’unico fra tutti gli enti che si rapporta sempre al suo essere, che "si comprende" nel suo essere L’uomo, infatti, non è una cosa o un animale, latta essenza si risolve in una natura data una volta per tutte; non è nemmeno circoscritto da un complesso di proprietà stabili, come presuppone la definizione tradizionale di "animale razionale". L’essere invece è sempre "in gioco" per l’esserci umano, in quanto egli si realizza progettando e scegliendo la proprio esistenza in base alle sue possibilità d’essere. Heidegger esprime tutto ciò dicendo che l’"essenza" dell’esserci consiste nella sua "esistenza". Quest’ultima non deve essere intesa come una "semplice-presenza" dell’uomo nella realtà, ma designa propriamente uno "star fuori" (da ex-sisto), un tendere oltre, un oltrepassare (o trascendere) sé e la realtà in direzione della possibilità, del futuro di ciò che Heidegger definisce poter-essere.
Un altro carattere fondamentale dell’esserci è che, nell’esistenza, per ciascun esserci è sempre in gioco il suo proprio essere, e non quello di un essere generico, uguale per tutti gli uomini: l’esserci infatti va inteso non come un anonimo esemplare di una specie o di un genere, ma come questo o quell’esserci, ossia come un "io" o un "tu" il cui essere, per ciascuno, è dunque "sempre mio". Le formule di Heidegger riecheggiano qui il pensiero di Kierkegaard; tuttavia, l’esserci non coincide con il singolo kierkegaardiano, perché al centro della nozione heideggeriana il momento essenziale non è tanto quello della singolarità irripetibile della persona, quanto quello del legame con l’essere.
L’essere-nel-mondo e il prendersi cura
L’esserci si rapporta agli altri enti in quanto esso è sempre in una situazione di apertura rispetto al mondo: il suo essere è un "essere-nel-mondo". Con questa espressione. Heidegger vuole sottolineare anzitutto che l’esserci non costituisce uno dei due poli del rapporto con il mondo, ma la totalità di questo rapporto. L’esserci dell’uomo non è quello di un soggetto virtualmente "senza mondo", confinato nella .sfera interna delle sue rappresentazioni. Esso non corrisponde neppure a un io isolato, che debba poi "gettare un ponte" verso gli altri io. Così come è già sempre presso le cose, l’esserci è anche sempre con gli altri: il suo mondo è, fin dal principio, un "mondo comune". Ma che cos’è il "mondo"? Esso non è una "cosa" già data, che sta "là fuori": qualsiasi cosa, per essere data, deve infatti già situarsi in uno sfondo, in un orizzonte che è appunto il mondo. Tuttavia, esso non consiste nemmeno nella somma di tutti gli enti, oppure in un’immensa cornice che li racchiude.
Il mondo, così come Heidegger lo intende quando parla di essere-nel-mondo, non ha la struttura ontologica degli oggetti che l’uomo incontra al suo interno (gli "enti intramondani", le cose). Esso va inteso invece come un carattere (strutturale) dell’ esserci stesso, vale a dire come un esistenziale. Esso va a costituire quel campo di apparizione degli enti che è in quanto l’uomo stesso esiste.
Heidegger prende le mosse dall’analisi del mondo più prossimo dell’esserci, ossia del suo immediato mondo circostante, e degli enti intramondani con cui egli entra abitualmente in rapporto (ciò che normalmente chiamiamo "cose"). Questo rapporto, per come l’uomo vive nella sua quotidianità, non è da intendersi come un agire di tipo razionale, conoscitivo, ma come un prendersi cura. L’ente abituale di cui l’esserci si prende cura non è però la cosa come oggetto di sensazioni, ma la cosa come "mezzo", ossia come ciò che viene usato, utilizzato. Abitualmente il pensiero filosofico attribuisce alle cose quella modalità che Heidegger designa come "semplice-presenza": l’ente è ciò che si presenta all’interno di un rapporto contemplativo del soggetto con gli oggetti. Più propriamente, invece, il modo d’essere delle cose consiste nella loro utilizzabilità. La semplice presenza si manifesta solo quando il prendersi cura si attua nella forma-limite del puro conoscere, dell’osservare contemplativo privo di ogni manipolazione, di ogni uso.
Il mondo come totalità di rimandi e di significati
Il carattere pragmatico e strumentale che Heidegger attribuisce al rapporto dell’esserci con gli enti non significa che tale rapporto sia privo di qualsiasi forma conoscitiva. Al prendersi cura appartiene infatti sempre una circospezione, ovvero una sorta di conoscenza preliminare del complesso dei rapporti e rimandi fra le cose "utilizzabili". Ciascun mezzo, infatti, non costituisce una realtà isolata, ma è sempre collegato alla totalità degli altri mezzi, solo al cui interno ciascuna cosa può svolgere la sua funzione di mezzo. Il mondo, dunque, è la totalità dei ~ rimandi fra gli utilizzabili. Ogni mezzo rimanda all’altro e in questo modo gli dà "significato". L’intera catena dei rimandi, tuttavia, mette capo a un termine ultimo che è l’esserci stesso, come centro di riferimento primario dei rimandi e dei significati. Come quando, per esempio, l’uomo si serve dell’aratro per rivoltare le zolle di terra; ma l’aratro ha la sua destinazione nel preparare il campo per la nuova seminagione, la quale rinvia alla crescita del grano e questo, a sua volta, rinvia alla nutrizione dell’uomo. Appunto questa totalità di rimandi e di significati è il mondo, ciò "in cui" l’esserci sempre è e di cui sempre ha comprensione. L’espressione "essere-nel-mondo" non designa pertanto una pura relazione di inclusione spaziale, un "essere dentro" (come la sedia è nella stanza), ma vuol dire che l’uomo ha sempre "familiarità", è sempre in "intimità" con una totalità di rimandi e di significati.
~ Che cosa indica il concetto di esserci?
~ Che cosa indica il concetto di cura?