omelia del vescovo
 
 
Lavoro e responsabilità cristiana

Qualche istante sulla preghiera che abbiamo rivolto al Signore all’inizio di questa celebrazione. “O Dio che nella tua provvidenza hai chiamato l’uomo a cooperare con il lavoro al disegno della creazione, fa’ che per l’intercessione e l’esempio di S. Giuseppe siamo fedeli alle responsabilità che ci affidi e riceviamo la ricompensa che ci prometti”.

In questa preghiera abbiamo affermato che lavorare è partecipare all’opera di Dio. Che di per sé potrebbe già essere qualcosa di esaltante. Certamente per chi crede, ma una prospettiva di apertura e di valore per tutti. Questo convincimento è immediatamente accompagnato dal desiderio di un aiuto, ed ecco che ci si rivolge appunto a S. Giuseppe, il lavoratore, “per l’intercessione e l’esempio di S. Giuseppe”. E infine, come in ogni preghiera, scaturisce una domanda: “fa’ che siamo fedeli alle responsabilità che ci affidi e riceviamo la ricompensa che ci prometti”.

E vorrei soffermarmi innanzitutto sulla ricompensa, vale a dire si ricorda al Signore che ci ha garantito un ricompensa. Qual è la ricompensa? Qual è il premio? Qual è il salario promesso dal Signore? Diciamolo: è il paradiso? È la vita eterna?
Credo che nel cuore di qualcuno abiti ancora il convincimento che tutto questo sia una specie distrazione dell’uomo rispetto alla possibilità di vivere fino in fondo la propria esistenza. Rimandare ad un’altra esistenza è come distogliere l’attenzione da questa; il promettere un’esistenza felice nel dopo, significa dimenticare l’importanza dell’esistenza del prima.

Oggi, forse, questa considerazione è un pochino dimenticata, superata, ma certo in molti alberga quasi naturalmente l’idea che parole come quelle che ho appena ricordato siano, in ultima analisi, una grande illusione. La religione è una grande illusione, una grande rappresentazione, anche significativa, qualche volta utile, delle speranze dell’uomo. Ma l’uomo se vuole veramente essere uomo, deve essere un disilluso, un disincantato, capace, appunto, di svelare, di smascherare le illusioni. 

Forse per molti questa promessa, questo salario del Signore non è né un’alienazione e neppure un’illusione. È piuttosto qualche cosa di insignificante. Non ci interessa questo salario, non ci interessa questa promessa. Ha perso la sua forza. Quella che ha animato generazioni, secoli, che ha sostenuto vite, sacrifici. Non ci interessa, non ci attrae. Quel che ci interessa è oggi. Nemmeno domani, il domani che è segnato sul calendario, non quello della vita eterna. Se il Signore ci vuole benedire ci benedica adesso. Se vuol darci soddisfazione ci dia soddisfazione adesso, altro lo lasciamo all’immaginazione. È forse più un problema suo che un problema nostro?

Cari fratelli, noi, dentro questo che si muove non nel cuore di altri ma anche nel nostro cuore, vogliamo accogliere la provocazione della vicenda di Gesù Cristo crocifisso e risorto. Vale a dire non di una speranza oltre la morte, ma di una vita riscattata dalla morte. La risurrezione di Cristo non è un’operazione riuscita, non è un’immortalità alla quale comunque, anche noi, con i nostri mezzi, con le nostre intelligenze, con le nostre tecnologie applicate alla medicina vorremmo arrivare. La risurrezione di Cristo è un fatto nuovo, significa che il potere della morte è stato inciso per sempre. Ma non solo della morte ultima, quella lacerante nel momento in cui perdiamo una persona cara, nel momento in cui un giovane, come è stato evocato, viene tolto alla sua famiglia, ma di quelle morti che in qualche modo sembrano appesantire i nostri giorni, di cui quasi si sente un sottile lezzo nelle nostre vite quotidiane; quella paura diffusa, che in fondo appunto è la figlia di questa rappresentazione di una morte che è alla fine comunque è capace di raggiungerci, ripeto, non solo nei suoi esiti decisivi e finali a conclusione della nostra vita, ma che è in agguato dietro ogni angolo della nostra esistenza.

Noi crediamo che Dio nella persona di Gesù, il suo Figlio incarnato, ha attraversato veramente le vicende umane, la mia vicenda, le nostre vicende, le vicende di questa storia, di questa fabbrica, di questo paese. E ha fatto di tutto questo non solo la sua carne, ma una carne che è entrata con la forza del suo amore dentro la storia di ciascuno, portandola alla vittoria sulla morte. E noi stiamo proprio celebrando questa vittoria sulla morte. E noi vogliamo mettere il lavoro umano, il nostro lavoro, il lavoro di chi lavora per chi lavora, sotto questo segno. Il segno di una vicenda umana, quella di Cristo Gesù, tutta umana, intensamente umana, perché Dio ha voluto essere così, che alla fine riscatta l’uomo dalla morte.

L’esito di tutto questo diventa allora un’assunzione di responsabilità. Credere in Dio non significa diminuire la nostra responsabilità, ma aumentarla. Credere nella resurrezione di Cristo significa non abdicare o alienarci rispetto alle nostre responsabilità, ma assumerle veramente, fino in fondo. Abbiamo pregato “fa’ che per l’intercessione e l’esempio di S. Giuseppe siamo fedeli alle responsabilità che ci affidi”. Il lavoro è proprio questo, tanto, quello che ci è stato ricordato. Io vorrei metterlo oggi, particolarmente, sotto il segno come di una delle espressioni più elevate, forse la più elevata della nostra responsabilità. 

Responsabilità significa risposta ad una appello, ad una chiamata. È risposta all’appello innanzitutto ad essere uomini. Ad essere veramente uomini. Il lavoro non può che essere non solo umano, ma umanizzante e di un umanesimo integrale nel quale tutto della persona possa essere compreso. Questa è la sfida, o meglio se volete, preferisco, la responsabilità alla quale siamo chiamati.

Responsabilità è risposta all’appello ad essere uomini insieme agli altri uomini. Certo, viviamo in un’epoca in cui dobbiamo riconoscere, anche se qualcuno ancora evoca, il superamento delle classi, ma il superamento delle classi non significa il superamento della solidarietà. Di una solidarietà che non è solo manifestazione di attenzione nel momento del bisogno.

In questo momento di crisi quanti sono stati ricordati segni di solidarietà, quanta disponibilità alla solidarietà, quanti gesti concreti e devo dire, sì qui, permettete, è stato unito Bergamo e Brescia, è una grande meraviglia vedere questo popolo così capace di solidarietà. E devo dire anche, se permettete con un po’ di soddisfazione, che la Chiesa non è ultima rispetto a questi gesti di solidarietà, che vanno dalle tragedie dell’Abruzzo fino, appunto, alle situazioni delicatissime di tante nostre famiglie. Peraltro, l’invito che ho condiviso con i sacerdoti a spezzare a metà una loro mensilità così come spezziamo il pane dell’Eucarestia a favore di questo fondo di solidarietà e delle famiglie che si trovano in bisogno, vuole essere un piccolo segno che si unisce concretamente, al di là della quantità, alla solidarietà di tutti.

Solidarietà significa… significa proprio questo: relazioni. La cultura della solidarietà significa uscire da questo microcosmo dell’interesse personale che è diventato veramente regola e una regola distruttiva, per abbracciare un universo più ampio, e l’universo proprio delle nostre relazioni familiari, delle nostre relazioni sociali, delle nostre relazioni con l’ambiente, di quelle relazioni che ci spingono ancora una volta a non esaurire quella partecipazione alla creazione di Dio che è la ricerca continua. La ricerca continua, l’impegno della ricerca è pure solidarietà. È quella combinazione tra umanità e pure capitale che è necessaria assolutamente. Non solo per lo sviluppo, ma per uno sviluppo sotto il segno della solidarietà.

Responsabilità è risposta all’appello ad essere uomini a partire dai più deboli, non dimentichiamoci questo. E noi diventeremo veramente uomini e donne migliori, nella misura in cui non sottovaluteremo mai chi è più debole di noi, perché quella è la misura del nostro miglioramento. Responsabilità è rispondere all’appello ad essere uomini a partire dai più deboli, da coloro che non riescono e non possono imporsi, che attendono semplicemente, e qualche volta rabbiosamente, di essere riconosciuti.

Per tutti, per i nostri giovani, è la libertà. Non possiamo adattarci ad una specie di fatalismo impotente. La crisi che stiamo attraversando, non dimentichiamocelo, non è un fatto ineluttabile, non è un terremoto non prevedibile. È frutto di un deficit diffuso di responsabilità, alla quale non facciamo alla svelta a sottrarci. Ma è questo, non un cataclisma che si è abbattuto su di noi. 

Chi è Gesù? Ce l’ha ricordato il Vangelo: è il figlio del carpentiere! È stato definito così, è stato definito in base alla relazione con la sua famiglia e con il lavoro. Così l’hanno visto, così l’hanno riconosciuto, così è passato nella loro terra e così passa anche oggi. Quindi il lavoro non come uno schema produzione – consumo, ma piuttosto espressione di una relazionalità che ci impegna e che è veramente allora capace di partecipare all’impresa esaltante della creazione di Dio.

Fratelli, e sorelle, veramente io ritengo un grande dono poter essere oggi qui con voi e celebrare l’Eucarestia proprio qui, in una delle rappresentazioni più intense e concrete del lavoro dell’uomo. Preghiamo con tutte le intenzioni che abbiamo ricordato, preghiamo perché il Signore ci dia ancora la passione. La passione per il nostro lavoro, ma soprattutto la passione per un uomo che nel lavoro possa veramente realizzarsi insieme con gli altri e con i più deboli nella maniera più ricca, più umana.

(trascrizione di don Francesco Bigatti da registrazione video.
Testo non rivisto dall’autore)
Omelia del Vescovo Francesco Beschi
nella memoria liturgica di S. Giuseppe lavoratore
venerdì 1 maggio 2009
Celebrazione Eucaristica alla “Tenaris Dalmine”