La parità di trattamento fra uomo e donna nel lavoro - tema di questa relazione - è stata oggetto di una consistente produzione normativa a livello sia nazionale che comunitario e internazionale, regolamentata in specifiche disposizioni applicative del principio di uguaglianza, il quale trova generale accoglimento negli ordinamenti europei.
In particolare la nostra Costituzione, che garantisce, nell'art.3, l'uguaglianza formale e sostanziale di tutti i cittadini, riconosce, nell'art.37 alla lavoratrice parità di diritti e di retribuzione.
A livello comunitario il principio di non discriminazione - richiamato anche nelle disposizioni del Trattato CEE, che vietano disparità di trattamento in base alla nazionalità - trova espresso riconoscimento nell'art.119, che impone la parità di retribuzione tra uomini e donne per "uno stesso lavoro"; pertanto, la stessa unità di cottimo per il lavoro retribuito a cottimo e la stessa unità di tempo per quello compensato a tempo.
La nozione di retribuzione, ai sensi del secondo comma dell'art. 119, comprende non solo la paga-base, ma tutti gli "altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell'impiego di quest'ultimo", precisazione di non scarso rilievo in quanto una parte del corrispettivo dell'attività lavorativa è erogata proprio sotto forma di vantaggi vari e diversi, frequentemente non in denaro.
La norma, pur collocata fra le disposizioni sociali, per ragioni di ordine sistematico, ha trovato in realtà la sua sostanziale motivazione iniziale piuttosto in esigenze di ordine economico, cioé di predisporre misure idonee ad eliminare i possibili fattori di distorsione della concorrenza dovuti allo scarto fra i salari maschili e quelli femminili, in quanto disparità di retribuzione a danno delle donne si registravano in tutti i Paesi membri, anche in quelli nei quali la parità è sancita dalla legge nazionale.
Invero, se la parità fra i lavoratori dei due sessi è un principio dell'ordinamento della CEE, pur tuttavia, esso, nell'ambito della costruzione comunitaria, appare avere minore importanza funzionale del divieto di discriminazione basato sulla nazionalità, essendo quest'ultimo indispensabile per l'esistenza e non solo per il funzionamento del Mercato Comune, ora Unione Europea, mentre la parità di trattamento retributivo, la quale evita ingiustificati vantaggi alle imprese a prevalente occupazione femminile, che si verificherebbero nel caso in cui queste potessero praticare salari più bassi per le donne rispetto agli uomini, garantisce il migliore funzionamento della Comunità economica, ma non è fondamentale per la sua esistenza; benché sia da rilevare una più ampia sfera di applicazione soggettiva del divieto di discriminazione sessuale rispetto a quello di disparità nazionale, che è diretto esclusivamente ai lavoratori migranti da uno Stato membro ad un altro, diversamente dal primo che riguarda sia i migranti che i non migranti.
Questo minore rilievo comunitario della parità di trattamento fra i due sessi spiega lo scarso impegno dei diversi Stati nel dare attuazione al disposto dell'art.119, interpretato quanto più possibile in senso riduttivo: così l'espressione "stesso lavoro" si riteneva riferibile esclusivamente alle cosiddette "funzioni miste", cioè quelle svolte nella stessa impresa e nelle stesse condizioni di lavoro, da uomini e donne indifferentemente; situazioni che, secondo un'indagine statistica fatta dalla CEE, interessavano non più del 23% delle lavoratrici.
Del resto, anche in Italia si registrava la stessa assenza di una volontà politica attuativa dell'art.37 della Costituzione: infatti, la giurisprudenza anche della Corte di Cassazione fino al 1970 ancorava la parità di lavoro alla parità di rendimento, che nel caso delle donne per definizione era considerato inferiore rispetto a quello degli uomini, giustificando una disparità salariale per le lavoratrici nonostante le identiche mansioni da esse svolte.
Solo nel 1971 la Corte di Cassazione afferma che bisogna fare riferimento all'inquadramento professionale, e non al rendimento, per individuare la parità di lavoro.
Stante l'inerzia degli Stati membri di dare compiutamente attuazione all'art.119, la Corte di Giustizia delle Comunità europee è intervenuta non soltanto obbligando questi a rispettare gli obblighi che essi si sono assunti nel Trattato istitutivo, ma altresì incidendo sugli stessi rapporti interprivati.
Infatti, nella sentenza 8 aprile 1976, causa 23/75, Defrenne II, si è riconosciuto alla disposizione in esame carattere di norma dotata di effetto diretto negli ordinamenti nazionali, attribuendo ai singoli diritti tutelabili in sede giurisdizionale almeno rispetto alle "discriminazioni dirette" e palesi, cioè a quelle "che si possono accertare con l'ausilio dei soli criteri di identità del lavoro e parità di retribuzione indicati da detto articolo", mentre le "discriminazioni indirette dissimulate" possono essere messe in evidenza solo valendosi di disposizioni di attuazione più precise, di carattere comunitario o nazionale.
In ordine alle discriminazioni dirette ed aperte, il magistrato può procurarsi tutti gli elementi che gli consentono di verificare se una lavoratrice sia retribuita meno di un lavoratore a parità di lavoro; pertanto l'art.119 può essere applicato direttamente: esso attribuisce agli individui un diritto che i giudici dei Paesi membri sono tenuti a tutelare.
Grande risalto è stato dato al riconoscimento che questo articolo sia per sua natura idoneo a sortire effetti oltre che in rapporto allo Stato anche fra i privati, cosicché è stata evidenziata come una grossa novità l'efficacia diretta "orizzontale" oltreché "verticale", riconosciuta all'art.119.
All'uopo la Corte riconosce una duplice finalità, economica e sociale, perseguita da tale disposto, collocato nel capo del Trattato dedicato alla politica sociale, argomentando l'attribuzione alla parità retributiva della natura di principio fondamentale del Trattato.
La Corte, ricostruendo il contenuto di questo principio, lo fa coincidere in sostanza con il divieto di "qualsiasi discriminazione fra i 1avoratori di sesso femminile e quelli di sesso maschile, tanto diretta quanto indiretta, nell'ambito non solo delle singole aziende, ma anche d'interi settori industriali o persino dell'economia nel suo complesso".
L'uguaglianza della retribuzione e lo stesso lavoro passano da elementi costitutivi a meri criteri di verifica della sussistenza delle disparità proibite.
La Corte, grazie alla sua interpretazione estensiva, allarga l'ambito di operatività dell'art.119 spianando la strada ad ulteriori suoi sviluppi applicativi ed impegnandosi con la sua giurisprudenza creativa nell'allargare gli orizzonti di una politica sociale comunitaria.
La Corte ha aperto così un varco nella delimitazione fra competenze comunitarie e statali, giungendo a riconoscere una necessaria competenza comunitaria, concorrente con quella nazionale, per l'effettiva attuazione della norma del Trattato specie nella determinazione dei criteri integrativi richiesti per la sua piena applicazione, che non siano stati fissati con opportuni provvedimenti degli Stati membri.
Nella giurisprudenza successiva (sentenza 11 marzo 1981, causa 69/80, Worringham e Humphreys) la Corte comunitaria ha deciso che "l'art. 119 si applica direttamente a qualsiasi forma di discriminazione che possa venire rilevata in base ai soli criteri d'identità del lavoro e di parità di retribuzione da esso indicati, senza che provvedimenti comunitari o nazionali che determinano detti criteri siano necessari per la loro attuazione.
Un ulteriore ampliamento della portata dell'effetto diretto dell'art .119 viene realizzato con la sentenza 4 febbraio 1988, causa 157/86, Mary Murphy, nella quale si afferma che questa disposizione deve essere interpretata nel senso che si riferisce del pari, oltre che all'ipotesi della disparità di retribuzione per lo stesso 1avoro, al caso in cui chi lo invoca per ottenere una retribuzione uguale ai sensi di esso, svolga un lavoro di valore superiore a quello del lavoro della persona presa come termine di paragone.
La Corte, andando oltre il criterio dell'identità di lavoro, sostiene che il principio della parità retributiva, se vieta che, a motivo del sesso, una retribuzione inferiore venga corrisposta ai dipendenti di un certo sesso che prestano un'attività di valore uguale a quello prestato dai dipendenti dell'altro sesso, vieta a maggior ragione una disparità salariale qualora la categoria dei dipendenti che percepisce la minore retribuzione effettui un lavoro di valore superiore.
Essa aggiunge che spetta al giudice nazionale, dinanzi al quale viene fatta valere una disposizione del Trattato direttamente efficace, dare al diritto interno, in tutti i casi in cui questo gli lascia un margine discrezionale, un'interpretazione ed un'applicazione conformi alle esigenze del diritto comunitario e, qualora una siffatta interpretazione conforme non sia possibile, disapplicare le norme nazionali incompatibili.
L'evoluzione della giurisprudenza della Corte nel senso dell'ampliamento della portata dell'art.119 trova conferma anche in altre decisioni, che puntualizzano il concetto di retribuzione o individuano fattispecie di discriminazioni dirette o indirette che verranno di seguito meglio individuate.
Così nella sentenza 27 giugno 1990, causa 33/89, Kowalska, si precisa che le indennità corrisposte al lavoratore dal datore di lavoro al momento del1a cessazione del rapporto di lavoro costituiscono una forma di retribuzione differita, che spetta al lavoratore in ragione del suo impiego, ma che gli viene versata al momento del1a cessazione del rapporto di lavoro allo scopo di rendere più agevole il suo adattamento alle nuove situazioni derivanti da tale cessazione.
Pertanto tali indennità rientrano nella nozione di retribuzione ai sensi dell'art.119 del Trattato, il quale osta all'applicazione di una disposizione di un contratto collettivo, stipulato per il pubblico impiego nazionale, che consenta ai datori di lavoro di escludere dei lavoratori a orario ridotto dal godimento di un'indennità temporanea in caso di cessazione del rapporto di lavoro, quando risulti che di fatto lavora a orario ridotto una percentuale notevolmente più bassa di uomini che di donne, a meno che il datore di lavoro provi che la detta disposizione sia giustificata da fattori obiettivi ed estranei a qualsiasi discriminazione basata sul sesso.
La Corte ritiene che in presenza di una discriminazione indiretta ad opera di una disposizione di un contratto collettivo, i membri del gruppo sfavorito, uomini o donne, devono, in proporzione al loro tempo di lavoro, essere trattati allo stesso modo ed essere assoggettati allo stesso regime degli altri lavoratori, in proporzione al loro orario di lavoro; regime che, in mancanza della corretta trasposizione dell'art.119 del Trattato nel diritto nazionale, resta il solo sistema di riferimento valido.
Tale posizione della Corte viene ribadita nella sentenza 7 febbraio 1991, causa C 184/89, Nimz, nella quale vengono riportate nell'ambito di applicazione dell'art.119 anche le modalità con cui un accordo collettivo dispone il passaggio praticamente automatico, per anzianità da un livello retributivo ad un altro.
Essa giudica non conforme alla norma in esame la clausola di un contratto collettivo che preveda, ai fini dell'accesso a un 1ivello retributivo più elevato, la presa in considerazione per intero dell'anzianità per i dipendenti che prestino servizio per almeno i tre quarti dell'orario di lavoro normale, ma per la metà soltanto di tale anzianità per i dipendenti il cui orario sia compreso tra la metà e i tre quarti dell'orario normale, qualora risulti che quest'ultima categoria di fatto sia composta da una percentuale di uomini notevolmente inferiore a quella delle donne, a meno che il datore di lavoro non dimostri che la suddetta clausola del contratto collettivo sia giustificata da fattori la cui obiettività dipende, in particolare, dal rapporto tra la natura delle mansioni espletate e l'esperienza che l'espletamento di tali mansioni fa acquisire dopo un determinato numero di ore di lavoro effettuate.
In conseguenza dell'efficacia diretta orizzontale che tale norma esplica, il giudice nazionale - in presenza di una discriminazione indiretta ad opera di una disposizione di un contratto collettivo - è tenuto a disapplicare la disposizione stessa senza doverne chiedere e ottenere la previa rimozione in via di contrattazione collettiva o mediante qualsiasi altro procedimento e ad applicare ai membri del gruppo sfavorito da tale discriminazione lo stesso regime che viene riservato agli altri lavoratori.
Del resto, già nella sentenza 9 febbraio 1982, causa 12/81, Garland, la Corte - dopo avere rilevato che il fatto che un datore di lavoro, al di fuori di qualsiasi obbligo contrattuale, conceda speciali agevolazioni di viaggio ai dipendenti di sesso maschile, dopo il pensionamento, costituisce, ai sensi dell'art 119, una discriminazione a danno delle ex dipendenti, le quali non possono fruire degli stessi vantaggi - statuisce che, qualora il giudice nazionale sia in grado di accertare, in base ai soli criteri d'identità di lavoro e di parità di retribuzione, senza necessità di provvedimenti comunitari o nazionali, che la concessione di speciali agevolazioni di trasporto ai soli pensionati di sesso maschile implica una discriminazione in ragione del sesso, a tale situazione si applica direttamente l'art .119 del Trattato.
Per concludere circa la portata dell'art.119, da segnalare la sentenza 17 maggio 1990, causa 262/88, Barber, nella quale viene ulteriormente precisato il concetto di retribuzione, nel senso che le prestazioni corrisposte dal datore di lavoro ad lavoratore all'atto del licenziamento costituiscono una forma di retribuzione cui il dipendente ha diritto in ragione del suo impiego, che gli viene versato al momento della cessazione del rapporto di lavoro, per assicurargli un reddito durante la ricerca di un nuovo lavoro.
Siffatte erogazioni economiche rientrano nella sfera di applicazione dell'art.119, secondo comma del Trattato, a prescindere dal fatto che siano corrisposte in forza di un contratto di lavoro, di disposizioni di legge o volontariamente.
Rientrano altresì tra i vantaggi corrisposti eventualmente in modo indiretto dal datore di lavoro al lavoratore, in ragione dell'impiego di quest'ultimo, le pensioni versate dai regimi professionali privati, caratterizzati dal fatto di essere istituiti in esito ad una concertazione tra le parti sociali ovvero ad una decisione unilaterale del datore di lavoro, che il loro finanziamento sia interamente a carico del datore di lavoro o di quest'ultimo e dei lavoratori, che la legge ammette che con il consenso del lavoratore si sostituiscano in parte al regime legale e che riguardano solo i lavoratori di talune imprese.
Secondo la Corte, la norma del Trattato non consente la fissazione di un requisito di età che varia secondo il sesso per le pensioni versate nel contesto di un regime professionale privato che si sostituisce in parte al regime legale, anche se la differenza tra l'età di pensionamento degli uomini e quella delle donne è analoga a quella stabilita dal regime legale nazionale.
A giudizio della Corte, in materia di parità di retribuzione fra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile, una vera trasparenza, che consenta un controllo efficace, è garantita solo se il principio di uguaglianza deve essere rispettato per ciascun elemento della retribuzione corrisposta agli uomini e alle donne e non globalmente per il complesso dei vantaggi connessi agli uni ed alle altre.
La Corte ribadisce, come già nella sentenza 25 maggio 1971, causa 82/70, Defrenne I, che le prestazioni corrisposte dai regimi legali nazionali di previdenza sociale ( nella fattispecie in esame, la pensione di vecchiaia) non rientrano nella nozione di retribuzione, in quanto il contributo del datore di lavoro al loro finanziamento non costituisce pagamento indiretto di vantaggi al lavoratore, poiché tali regimi non sono stati stabiliti in funzione del rapporto di lavoro, ma in base a considerazioni di politica sociale e i vantaggi che ne ricavano i lavoratori non dipendono dal contributo del datore di lavoro, ma dal possesso dei requisiti di legge.
Per altro verso, la Corte nella sentenza 15 gennaio 1978, causa 149/77, Defrenne III, precisando che l'art. 119 si pone come regola speciale rispetto agli art. 117 e 118 del Trattato CEE, ha affermato che esso non si applica all'eguaglianza di trattamento nelle condizioni di lavoro.
L'introduzione, accanto al principio della parità di retribuzione, del più ampio principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione ed alla promozione professionale, nonché le altre condizioni di lavoro, quindi tutti gli aspetti del rapporto di lavoro, si è in effetti realizzata con una apposita Direttiva del Consiglio, la nr. 76/207 del 9 febbraio 1976, che in Italia ha trovato attuazione in larga parte nella legge n. 903 del 9 dicembre 1977.
Essa, nonostante l'accusa di aver proibito la discriminazione per motivi di sesso limitatamente ad alcune condizioni di lavoro, in virtù del divieto generale di discriminazione contenuto nell'art.13 è stata riconosciuta con la sentenza 26 ottobre 1983 (causa C 163/82 - Commissione contro Italia) dalla Corte di Giustizia pienamente conforme alla Direttiva Comunitaria n.76/207, che viene emanata un anno dopo la Direttiva n.75/117 del 10 febbraio 1975, per il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative all'applicazione del principio della parità della retribuzione fra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile.
Tale atto comunitario vincolante per gli Stati membri estende la parità retributiva anche al lavoro al quale è attribuito "valore eguale".
Inoltre, sancisce che quando un sistema di classificazione professionale sia utilizzato per la determinazione delle retribuzioni, esso debba usare parametri comuni ai lavoratori dei due sessi.
In merito, la decisione della Corte di Giustizia, sentenza 1/7/1986, causa 237/85, Rummler, precisa che in via generale la succitata Direttiva non osta a che un sistema di classificazione professionale, ai sensi dell'art.1, 2° comma, usi per determinare il livello retributivo il criterio dell'impegno o sforzo muscolare o del grado di pesantezza del lavoro manuale, qualora, tenuto conto della natura delle mansioni, il lavoro da compiere esiga effettivamente una certa forza fisica, purché, mediante la presa in considerazione degli altri criteri, esso sia in grado di escludere nel suo complesso, qualsiasi discriminazione basata sul sesso.
In particolare dalla Direttiva emerge:
- che i criteri per l'inquadramento ai vari livelli retributivi devono garantire la stessa retribuzione per lo stesso lavoro obiettivamente considerato, indipendentemente dal fatto che sia svolto da un uomo o da una donna;
- che il basarsi su valori corrispondenti alle prestazioni medie dei 1avoratori di un solo sesso, onde determinare l'entità dell 'impegno o sforzo richiesto dal lavoro o la sua eventuale pesantezza, costituisce una forma di discriminazione basata sul sesso, vietata dalla Direttiva;
- che per non essere discriminatorio nel suo complesso, il sistema di classificazione professionale deve tuttavia prendere in considerazione, qualora lo consenta la natura delle mansioni da svolgersi nell'impresa, dei criteri in relazione ai quali i lavoratori di entrambi i sessi possano possedere particolari
attitudini.
Sempre, con riferimento alla Direttiva 75/117 la Corte di Giustizia delle Comunità europee nella sentenza del 17 ottobre 1989, causa 109/88, Danfass, ha puntualizzato due aspetti particolarmente rilevanti che per certi versi vanno oltre l'ambito specifico della parità di trattamento fra uomo e donna:
- l'obbligo per il datore di lavoro di osservare un criterio di trasparenza nella gestione dei sistemi retributivi applicati al proprio personale dipendente;
- l'onere della prova per l'accertamento delle pratiche di discriminazione specialmente della "discriminazione indiretta", l'individuazione della quale - come detto in precedenza - è stata ripetutamente oggetto della giurisprudenza Comunitaria.
La Corte afferma che, qualora un'impresa applichi un sistema di retribuzione caratterizzato da una mancanza totale di trasparenza, il datore di lavoro ha l'onere di provare che la sua prassi salariale non è discriminatoria, ove il lavoratore di sesso femminile dimostri, su un numero relativamente elevato di lavoratori, che la retribuzione media dei lavoratori di sesso femminile sia inferiore a quella dei lavoratori di sesso maschile.
Quando risulta che l'applicazione dei criteri in aumento, quali la flessibilità, la formazione professionale o l'anzianità del lavoratore sfavorisce sistematicamente il lavoratore di sesso femminile, il datore di lavoro può giustificare il ricorso al criterio della flessibilità se esso viene inteso come attinente all'adattabilità ad orari e luoghi di lavoro variabili, dimostrando che tale adattabilità riveste importanza per l'esecuzione dei compiti specifici che sono affidati al lavoratore, ma non se tale criterio viene inteso nel senso che si riferisce alla qualità del lavoro svolto dal lavoratore; il datore di lavoro può giustificare il ricorso al criterio della formazione professionale dimostrando che tale formazione riveste importanza per l'esecuzione dei compiti specifici che sono stati affidati al lavoratore; egli non deve particolarmente giustificare il ricorso al criterio dell'anzianità, poiché quest'ultima va di pari passo con l'esperienza, la quale pone generalmente il lavoratore in grado di meglio svolgere le sue prestazioni.
Si tratta indubbiamente di una sentenza di importanza fondamentale per reprimere, in particolare nel campo del lavoro, le discriminazioni sessuali, specie indirette.
La decisione della Corte appare senz'altro equilibrata, in quanto - pur non negandosi in generale la possibilità di adottare parametri differenziali di retribuzione - essa rileva come dietro l'applicazione di certi criteri soggettivi di maggiorazione salariale potrebbe celarsi l'insidia di una discriminazione indiretta, una fattispecie insidiosa proprio perché difficile da definire quanto da individuare, come dimostra lo sforzo fatto dal legislatore italiano, nel definirla nell'art.4 della Legge n. 125/91.
Essa è stata, comunque, individuata dalla stessa Corte di Giustizia europea in una qualsiasi "misura che, apparentemente neutra, svantaggia di fatto in modo prevalente i lavoratori di un sesso, senza essere obiettivamente giustificata", secondo il dispositivo della sentenza del 31 marzo 1981, causa 36/80, Jenkis.
In quest'ultima decisione la Corte ha asserito che una retribuzione oraria inferiore per i lavoratori a tempo parziale rispetto a quelli a tempo pieno è discriminatoria, ove la percentuale delle donne che lavorano part-time nella stessa impresa sia notevolmente superiore a quella degli uomini.
Il datore di lavoro potrebbe sottrarsi all'accusa soltanto dimostrando che la differenza retributiva era necessaria al raggiungimento di obiettivi cui era estranea qualsiasi discriminazione sessuale.
Quindi, il concetto di "discriminazione indiretta" definisce l'effetto differenziato sui singoli individui di un certo sesso di criteri formalmente uniformi; la peculiarità della "discriminazione indiretta" riposa sull'irrilevanza dell'intento discriminatorio ai fini dell'integrazione della fattispecie tipica.
Si tratta di prassi che, pur legittime nella forma, sono discriminatorie nell'applicazione: ciò si verifica quando si rileva che una prassi ha un effetto sproporzionato sulle donne, nel senso che più donne che uomini sono negativamente colpite dalla stessa, o meglio meno donne che uomini possono soddisfare una determinata richiesta, a causa di fattori sociali ed economici, come le responsabilità delle donne riguardanti la cura dei figli, che le penalizzano nel mondo del lavoro extracasalingo.
Vengono così messi in risalto gli aspetti sociali e collettivi della disuguaglianza, in modo tale da evidenziare quella condizione di fattori, di diversa natura, determinanti la disparità nei punti tanto di partenza, quanto di arrivo, permettendo di cogliere meglio la dimensione più spesso collettiva che individuale della discriminazione.
Per stabilire, infatti, se una prassi ha effetti negativi, deve osservarsi il comportamento abituale del gruppo di appartenenza del soggetto che si reputa discriminato, cioè nel caso di specie la lavoratrice la quale lamenta una disparità di trattamento retributivo rispetto ai colleghi di sesso maschile; all'uopo il riscontro della discriminazione indiretta dovrebbe aversi allorché, pur in presenza di requisiti comuni per i due sessi, questi possono essere soddisfatti in proporzione ad un numero di donne considerevolmente inferiore rispetto a quello degli uomini.
Ciò apre la porta - ed è questa una delle affermazioni più interessanti della sentenza che si sta esaminando - alla prova statistica, vale a dire ad una valutazione comparativa dei trattamenti rispettivamente dei lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile; questa scelta è stata poi condivisa dal nostro legislatore nell'art. 4 della legge 10 aprile l991, n. 125: ed invero, la nozione della discriminazione indiretta conduce logicamente alla prova statistica; una discriminazione sistematica non potrebbe essere trovata che attraverso una valutazione qualitativa dei suoi effetti.
Ora, è indubbio che dal riconoscere l'ammissibilità di una prova siffatta, ne consegue il passaggio ad un regime probatorio più favorevole alle presunte vittime di comportamenti discriminatori.
Se, infatti, una delle ragioni di ineffettività della tutela processuale predisposta dai legislatori nazionali nei confronti della discriminazione è da rinvenirsi nella difficoltà che di norma il soggetto discriminato incontra a provare la sussistenza del fatto illecito, questo è tanto più vero allorché si è in presenza di discriminazioni indirette.
La Corte Europea pertanto giustamente ha deliberato che, in una situazione dove è in causa un meccanismo di maggiorazione del salario individuale caratterizzato da una mancanza totale di trasparenza, le lavoratrici non possono che fare riferimento alle differenze tra retribuzioni medie.
Esse saranno private di ogni mezzo efficace per far rispettare il principio della parità retributiva, davanti alla giurisdizione nazionale, se il fatto di apportare questa prova non avrà per effetto di imporre al datore di lavoro l'onere di dimostrare che la sua pratica salariale non è in realtà discriminatoria, in quanto le sue scelte sono giustificabili, a prescindere dalla diversità sessuale, per "ragioni obiettive" dell'impresa: come risulta da una precedente sentenza del 13 maggio 1986, causa 170/84, Bilka, nella quale viene asserito che un'impresa può giustificare I'adozione di una politica salariale che comporti l'esclusione dei lavoratori ad orario ridotto (prevalentemente donne) dal regime pensionistico aziendale, sostenendo che essa non è indirettamente discriminatoria, solo qualora sia accertato che:
- i mezzi scelti per raggiungere tale obiettivo rispondono ad
un'effettiva esigenza dell'impresa;
- sono idonei a raggiungere l'obiettivo in questione;
- sono a tal fine necessari.
Ciò implica, per il datore di lavoro innanzitutto, l'onere di provare che l'azione ad effetto indirettamente discriminatorio abbia efficacemente contribuito a realizzare le esigenze oggettive dell'impresa; dimostrando, in secondo luogo, che i mezzi da lui scelti sono adeguati allo scopo perseguito, mentre comportamenti indirettamente discriminatori non sono ammissibili qualora il medesimo risultato possa essere conseguito altrimenti.
L'importanza di questa giurisprudenza della Corte Comunitaria è di aver anticipato, per via giudiziaria, quanto previsto in una proposta di Direttiva, presentata dal Consiglio CEE il 24 maggio 1988, sull'onere della prova nel campo della parità di retribuzione e dell'uguaglianza di trattamento fra uomini e donne; si prevede che l'interessato potrebbe limitarsi a fondare la presunzione della discriminazione, diretta o indiretta, sulla base di un fatto o di una serie di fatti indiziari, in modo che spetti al datore di lavoro controbattere siffatta presunzione.
In altri termini, qualora il dipendente fornisca un serio indizio dell'esistenza della discriminazione, incombe al datore di lavoro provare che la differenza di trattamento è1egittima.
Nonostante questa proposta a tutt'oggi non sia stata approvata, il nostro Paese si è adeguato con il già citato art. 4 della legge n. 125/1991 alle indicazioni comunitarie.
Ai sensi dell'art.6 della Direttiva n. 75/11 7, invero, gli Stati membri debbono prendere, conformemente ai loro sistemi giuridici, le misure necessarie per garantire l'applicazione del principio di parità di trattamento ed assicurarsi dell'esistenza di mezzi efficaci per una effettiva realizzazione dell'uguaglianza; il che implica anche la possibilità di regole innovative relativamente all'onere della prova.
L'ampia analisi che è stata fatta delle pronunce della Corte evidenzia come nel corso di oltre un ventennio - la prima sentenza in materia è infatti del 1971 - la giurisprudenza della stessa abbia cercato di mettere a fuoco, e non senza qualche ombra, la ratio della regolamentazione comunitaria sulla parità uomo/donna in materia di lavoro, precisandone il campo applicativo oggettivo e soggettivo, sulla base della convinzione che la politica sociale della Comunità va concepita come degna finalità a sé stante e non soltanto come rimedio ai negativi effetti sociali del progresso economico.
È, infatti, a seguito dell'elaborazione ad opera della commissione e dell'approvazione da parte del Consiglio in data 21 gennaio 1974 di un Programma di azione sociale, teso a ridurre le disparità nelle condizioni di vita, nonché a migliorare la qualità della vita e il tenore di vita della popolazione della Comunità, che vengono adottate, oltre quelle due già esaminate, altre tre Direttive in materia di parità: la 79/7 del l9 dicembre 1978, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento fra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale; la 86/378 del 24 luglio 1986, relativa all'attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne nel settore dei regimi professionali di sicurezza sociale; la. 86/613 dell '11 dicembre 1986, relativa all'applicazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne che esercitano un'attività autonoma, ivi comprese le attività nel settore agricolo e relativa altresì alla tutela della maternità.
Nella nuova prospettiva politica più sensibile alla tematica sociale, che sfocerà nella Carta Comunitaria dei diritti sociali fondamentali (1989), si ampliano gli spazi di intervento comunitario anche in materia di parità non solo grazie all'intervento del Consiglio, ma anche mercé l'azione della Corte di Giustizia, che è tuttavia istituzionalmente limitata: l'accertamento ha per oggetto esclusivamente l'applicazione delle norme di cui il giudice razionale domanda l'interpretazione o la Commissione CEE assume l'inadempimento; inoltre, la Corte esamina soltanto quei provvedimenti del legislatore nazionale allegati in giudizio dallo Stato membro per dimostrare l'esecuzione dell'obbligo comunitario, mentre restano esclusi dall'area oggettiva del giudicato i provvedimenti interni non adottati in giudizio.
Una preoccupazione che attraversa orizzontalmente tutte le pronunce della Corte in materia è quella di dare effettività al principio di parità.
Questo obiettivo viene perseguito innanzitutto attraverso l'applicazione, anche in questo campo, del principio della efficacia dell'art. 119 e delle Direttive che disciplinano la materia.
Il fatto che l'art.119 sia formalmente indirizzato agli Stati non impedisce - come si è già ampiamente visto - di attribuire i diritti da esso derivanti ai singoli individui che abbiano interesse alla sua attuazione (efficacia verticale o orizzontale); le Direttive sono provviste di efficacia diretta non solo verticale tutte le volte che le disposizioni in esse contenute sono incondizionate e sufficientemente precise: i singoli potranno allora invocarle nei confronti dello Stato membro che non le abbia attuate correttamente.
In tal senso si esprime la sentenza 12 1uglio 1990, causa C188/89, Foster, che riconosce efficacia diretta all'art.5 n.1 della Direttiva 76/207, nonché la sentenza 24 giugno 1987, causa 384/85, Borrie Clarrke, che ha riconosciuto efficacia diretta all'art.4 n.1 della Direttiva n.79/7.
Così anche, la sentenza 25 luglio 1991, causa 345/89, Stoekel, ha riconosciuto all'art.5 della Direttiva n. 76/207 un'efficacia esclusivamente verticale, dalla quale deriva l'obbligo per gli Stati membri di non stabilire come principio legislativo il divieto di lavoro notturno delle donne, anche se derogabile, qualora non sia previsto alcun divieto di lavoro notturno per gli uomini.
Successivamente, però, con la sentenza 2 agosto 1993, causa 158/91, Levy, la stessa Corte ha parzialmente ridimensionato la portata della precedente pronuncia, affermando che il giudice nazionale deve garantire l'osservanza del citato art.5, disapplicando ogni altra disposizione contraria della normativa nazionale, a meno che l'applicazione di tale norma sia necessaria ad assicurare l'esecuzione, da parte dello Stato membro interessato, di obblighi derivanti da una Convenzione conclusa con gli Stati terzi, precedentemente all'entrata in vigore del Trattato CEE.
Pertanto, il giudice italiano avrebbe potuto continuare ad applicare l'art.5 della legge n. 903/1977 - diversamente da quanto sostenuto dal Tribunale di Catania nella sentenza dell'8 luglio 1992, confermata dalla Cassazione con decisione 3 febbraio 1995 n. 1271, sulla base della citata decisione del '93 della Corte Comunitaria, almeno fino alla ratifica da parte dell'Italia della nuova Convenzione dell'OIL n. 171 del 16 giugno 1990; invece il nostro governo ha denunciato la Convenzione OIL n. 89 del 1948, resa esecutiva con la legge 2 agosto 1952 n.1305, quindi prima del Trattato CEE.
Tralasciando questo aspetto, altri profili meritano considerazione in questa sede.
All'uomo è opportuno ricordare che in Italia, la regolamentazione del lavoro femminile notturno era contenuta nella legge n. 653 del 1934 che, con il combinato disposto degli articoli 12 e 13, faceva divieto alle aziende industriali e alle dipendenze di queste di adibire le donne di qualunque età e i minori di anni 18, ad un'attività che non prevedesse un periodo giornaliero di riposo di almeno 11 ore consecutive, comprendenti l'intervallo tra le 22 e le 5. L'aver assimilato le donne ai minori lascia chiaramente capire che l'intento principale - ma non unico - della legge fosse quello di proteggere quanti non sono dotati di un organismo abbastanza forte da sopportare i rischi fisici e psichici derivanti da condizioni di lavoro particolarmente gravose.
Lo spazio lasciato dalla legge a possibili deroghe era limitatissimo e riguardava i casi di donne che avessero compiuto 16 anni e adibite "a 1avori che per loro natura devono essere necessariamente continuati giorno e notte" (art. 14).
L'integrazione apportata dalla Convenzione OIL del 1948 si è limitata ad introdurre la possibilità di deroga al generale divieto di lavoro notturno femminile in casi di "forza maggiore": la rigidità di tale divieto ha portato all'incostituzionalità di quelle norme del '34.
Con l'emanazione della Direttiva CEE n. 76/207 viene completamente capovolta la prospettiva di valutazione della prestazione lavorativa notturna delle donne: all'art.5, 1° comma, questa dispone che "l'applicazione del principio della parità di trattamento, per quanto riguarda le condizioni di lavoro... implica che siano garantite agli uomini e alle donne le medesime condizioni, senza discriminazioni sul sesso"... "dagli Stati membri devono essere prese le misure necessarie affinché siano riesaminate quelle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative contrarie al principio della parità di trattamento, originariamente ispirate a motivi di protezione non più giustificati. . . " (2° comma).
La Direttiva ha inoltre previsto, all'art.9, un termine massimo di 30 mesi dalla sua notificazione per l'emanazione di disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative, conformi ai principi della stessa.
Un termine più lungo (quattro anni) è stato concesso per la revisione delle disposizioni contrarie ai principi su citati, allorché la necessità di protezione che li ha ispirati all'origine non sia più fondata.
Di fronte a queste prospettive paritarie il legislatore italiano si è adeguato con solerzia riconsiderando la materia del lavoro notturno femminile nella legge del 1977 n. 903.
L'art. 5, infatti, che sostituisce la disciplina dettata dalla legge n. 653, restringe l'ambito del divieto notturno innanzitutto dal punto di vista temporale: dall'intervallo tra le ore 22 e le 5, previsto dalla legge 653 del 1934, si passa a quello tra le 24 e le 6 dell 'art. 5 della legge 903/77.
La novità di maggiore rilievo introdotta dall'art.5 è però quella contenuta al 1° comma: il divieto del lavoro notturno può essere diversamente disciplinato o rimosso dalla contrattazione collettiva, anche aziendale.
In concreto, però, questa norma, se da una parte ha superato il vaglio di legittimità costituzionale del nostro giudice delle leggi - la vigente regolamentazione del lavoro notturno delle donne, infatti, è stata giudicata conforme al dettato costituzionale dai giudici di palazzo della Consulta con la sentenza n. 246 del 6 luglio 1987, nella quale si afferma che la disciplina del lavoro notturno introdotta con l'art.5 della legge n. 903/77, si è rilevata particolarmente "flessibile ed equilibrata, capace di coniugare l'esigenza di protezione della donna lavoratrice con la necessità di non disincentivare le assunzioni di manodopera femminile - dall'altra è stata ritenuta in contrasto proprio con la Direttiva n.76/207 dalla Corte di Giustizia della CEE con l'ormai celebre sentenza del l991.
In questa causa si poneva il problema di decidere se il divieto di lavoro notturno per le donne, previsto dal diritto francese, fosse compatibile con il principio di parità di trattamento tra uomini e donne quale risulta dalla Direttiva europea del 9 Febbraio 1976.
Più precisamente, la sentenza ha risolto una questione pregiudiziale d'interpretazione dell'art.5 della Direttiva del 1976 n. 207, sollevata da un giudice francese.
Nel giudizio, il governo francese aveva sostenuto che il divieto di lavoro notturno per le donne, accompagnato da numerose deroghe, risponde a generali finalità di protezione della manodopera femminile e a considerazioni di ordine sociale; ma la Corte, davanti alla quale il governo italiano era intervenuto adesivamente, ha respinto tale tesi replicando che le pur numerose deroghe poste dalle legislazioni francesi e italiane non sono sufficienti a garantire il rispetto pieno della Direttiva.
Il principio affermato è il seguente: "l'art.5 della Direttiva del Consiglio 1976 n.76/207, relativa all'attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione, alla promozione professionale, e le condizioni di lavoro, è sufficientemente preciso per far sorgere a carico degli Stati membri l'obbligo di non vietare per legge il lavoro notturno delle donne, pur dove tale obbligo comporti delle deroghe, mentre non esiste alcun divieto di lavoro notturno per gli uomini".
Questa affermazione merita di essere analizzata per dedurre la criticabile nozione di parità che la ispira: una parità esclusivamente formale, non sostanziale.
In effetti, la Corte pare avere sottovalutato gli argomenti portati dal governo francese e italiano a sostegno della permanenza in ambedue gli ordinamenti di divieti legali di lavoro notturno per le donne.
L'Italia, ad esempio, nelle sue conclusioni sul caso, aveva presentato due ragioni che giustificavano una protezione speciale delle donne dal lavoro notturno: i rischi specifici di aggressione sessuale durante la notte e le particolari responsabilità familiari che gravano sulle donne.
Ma le considerazioni che gli uomini e le donne non sono nei fatti nella stessa posizione rispetto ai rischi di aggressione sessuale o alle responsabilità familiari e che, di conseguenza, l'eguaglianza sostanziale consiste nel trattare in diritto in modo diverso tali diverse situazioni, è una concezione respinta dalla Corte adducendo a motivo che si tratta ai "preoccupazioni estranee all'obiettivo della Direttiva", che dunque non rientrano nel concetto di protezione della donna ai sensi del 3° comma dell'art.2.
Tale atteggiamento torna a "separare radicalmente l'eguaglianza formale nella vita professionale (oggetto della Direttiva) e le inuguaglianze sostanziali nella vita extraprofessionale".
È evidente a cosa conduce questo modo di ragionare: giudicando la vita privata dei lavoratori una "preoccupazione estranea" al diritto del lavoro, verrebbero necessariamente giudicate contrarie al diritto di eguaglianza formale tra i lavoratori tutte le misure che hanno lo scopo di facilitare la vita del lavoratori con responsabilità familiari.
Invero, la rimozione del divieto del lavoro notturno femminile non potrebbe oggi non essere supportata, a mio parere, dall'adozione di "azioni positive".
Invece, in ambito comunitario, le valutazioni di tutte le misure giuridiche diseguali (tra le quali rientrano a buon diritto le vecchie norme di "tutela" femminile, ma anche alcune fra le più recenti disposizioni promozionali come le "quote") sono guardate con molto sospetto.
Legislatore e giudice comunitario pensano che, salvo limitate e giustificate eccezioni, ogni differenza di trattamento fondata sul sesso costituisca "discriminazione"; per discriminazione intendono, allora, la "diseguaglianza" in sé (intesa come norma specifica), e non le conseguenze sfavorevoli di una diseguaglianza di regolamentazione priva di giustificazione.
Il diritto comunitario cammina in questo modo verso l'eliminazione graduale, ma totale, delle misure giuridiche diseguali, sia di quelle "vetero-protettive", che di quelle "promozionali".
Il significato della sentenza Stoeckel può, quindi, essere ragionevolmente ridotto alla condanna del vecchio modo di proteggere il lavoro femminile, caratteristico delle legislazioni dello scorso secolo e della prima metà di quello che sta finendo.
Sembra, dunque, che la Corte di giustizia si sia limitata solo a giudicare negativamente quelle misure che, in nome della protezione, escludono le donne da qualche tipo di lavoro o da qualche settore di attività senza alcun richiamo alle azioni positive, per superare le attuali disparità di fatto.
Lo strumento utilizzato dalla Corte è stato quello di eliminare il limite discriminatorio (in quanto diseguale); per eliminarlo ha dovuto dire che il limite non giustificato, e per negare la giustificazione ha dovuto però negare anche l'evidenza.
Infatti, se l'esistenza di maggiori rischi può essere discutibile - ma non tanto - la maggiore penosità del lavoro notturno per le donne, dovuta anche all'ineguale distribuzione delle responsabilità familiari, non può tuttora essere negata.
Non resta alla Corte che ricorrere ad un argomento "tecnico": 1e preoccupazioni relative all'organizzazione della famiglia e alla ripartizione delle responsabilità familiari sono del tutto estranee alla Direttiva 75/207, dato che 1e sue disposizioni sono rivolte a garantire la parità di trattamento nel lavoro e non nella famiglia.
In conclusione, mentre il diritto italiano continua ad affrontare talune specificità del lavoro femminile affidando ai divieti la salvaguardia dei diritti delle donne alla salute e alla sicurezza, e dunque eterodirigendo le donne, il diritto comunitario sceglie la strada dell'autodeterminazione delle donne, conferendo loro dei diritti e lasciandole libere di esercitarli.
Così facendo, il diritto comunitario pensa a donne già eguali sia in diritto che nei fatti; ignora, però, la realtà di una larga parte dell'Europa nella quale le donne sono uguali in diritto, ma nei fatti sono ancora molto lontane dall'eguaglianza.
Perciò necessitano - a mio parere - allo stato attuale misure "promozionali" del lavoro femminile in luogo della vecchia legislazione protettiva che va abolita secondo la Direttiva CEE.
Conformemente a questa visione della parità piuttosto in senso formale la Corte ribadisce nella sentenza del 15 maggio 1986, causa 222/84, Johnston, che la disposizione (art.2,n.2 e n.3) della Direttiva 76/207 che ammette deroghe alla parità di trattamento degli uomini e delle donne in fatto di accesso al lavoro e di condizioni di lavoro deve essere interpretata restrittivamente.
Eccettuate le norme a protezione della gravidanza e del puerperio, la tutela della donna che essa nomina non comprende la tutela contro i rischi e i pericoli che non riguardino specificatamente le donne come tali, come - nel caso in specie - quelli cui è esposto il poliziotto armato nell'esercizio delle sue funzioni.
Pertanto, solo le differenze fisiologiche tra uomini e donne possono giustificare trattamenti differenziali in casi limitati: ad esempio, quando si debbano assicurare misure specifiche a salvaguardia della salute della donna.
D'altra parte, però, questa concezione formale del principio di parità di trattamento fra lavoratori e lavoratrici ha il limite di portare ad un'insufficiente considerazione, da parte della Corte di Giustizia, di quelle "misure volte a promuovere la parità di opportunità tra uomo e donna, in particolare ponendo rimedio alle disparità di fatto che pregiudicano le opportunità delle donne", pur previste dall'art.2, comma4, di cui è ammessa la compatibilità con il principio di non discriminazione; in altri termini quelle "azioni positive", di cui viene sollecitata l'adozione anche nella Raccomandazione 84/635/CEE del 13 dicembre 1984 e nei quattro Programmi Comunitari a medio termine per le parità di opportunità per le donne 1982-85; 1986-1990;1991-1995;1996-2000.
Con questi programmi la Comunità Europea si è proposta di incrementare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e di valorizzare il loro contributo alla vita economica e sociale, favorendone l'occupazione e la carriera specie nei settori in cui sono sottorappresentate, grazie anche all'adozione di azioni positive che, sulla base dell'art.2 comma 4 della Direttiva, consentono d'intervenire per innalzare la soglia di partenza della categoria svantaggiata, al fine di assicurare uno stato effettivo di pari opportunità.
L'azione positiva dovrà dunque essere diretta, intervenendo ad esempio sull'orientamento scolastico e sulla formazione professionale, alla rimozione degli ostacoli che impediscono alle donne la parità di opportunità.
L'azione positiva non potrà invece essere diretta a garantire alle donne una parità di risultati nell'occupazione di posti di lavoro, dunque nei posti di arrivo, a titolo di compensazione per le discriminazioni storicamente subite.
Insomma, l'azione positiva non può non essere considerata, tanto meno utilizzata, come un mezzo per restaurare, attraverso misure discriminatorie, una situazione di eguaglianza ferita nel passato".
In queste conclusioni, fatte proprie dalla Corte di Giustizia, si registra a mio avviso una maggiore cautela rispetto a quanto rilevato dalla Corte Costituzionale italiana nella sentenza 24/26 marzo 1993, n.109, sia pure con specifico riferimento alle misure previste dalla legge 25 febbraio 1992, n.225, azioni positive per lo sviluppo dell'imprenditorialità femminile.
Viene dalla nostra Corte ammessa la legittimità costituzionale delle azioni positive a favore delle donne, quindi anche di quelle disciplinate dagli articoli 1,2 e 3 della legge n.125/1991, che trovano il loro fondamento nel comma 2 dell'art.3 della Costituzione italiana, cioè nel principio di uguaglianza sostanziale, anche in deroga al generale principio di formale parità di trattamento, stabilito dal comma &.
Il risultato da raggiungere con le azioni positive, infatti, è quello di redistribuire a favore dei gruppi svantaggiati, su di una base proporzionale, le opportunità di accedere a benefici e risorse.
Orbene, le leggi n.125/91 e n.215/92 si propongono proprio di realizzare siffatto obiettivo a favore di uno di questi gruppi socialmente svantaggiati, le donne appunto.
La nostra Corte Costituzionale pare tenda ad avallare nella sentenza citata una nozione ampia di di azioni positive, più di quella che è stata accolta a livello comunitario dalla Corte di Giustizia.
Specie nella sentenza del 17 ottobre 1995, relativa ad un procedimento avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta a norma dell'art.177 del Trattato - domanda vertente sull'interpretazione dell'art.2, n.1 e 4 della Direttiva n.76/207 - la Corte assume un atteggiamento molto restrittivo, quasi di chiusura di fronte ad alcune misure che si propongono di realizzare nei fatti la parità sostanziale.
Chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dell'art.4 del Landespleichstellungsgesetz 20 novembre 1990 (legge del Land di Brema relativa alla parità fra uomini e donne nel pubblico impiego), il quale dispone - come si è detto - che sia nell'assunzione che nella promozione venga data precedenza alle candidate di sesso femminile, a parità di qualificazione, rispetto agli uomini, qualora esse siano sottorappresentate, la Corte ha sentenziato che una siffatta normativa nazionale va oltre la promozione della parità ed eccede i limiti della deroga prevista dalla Direttiva.
Nonostante il rilievo dato dal terzo "considerando" della già richiamata Raccomandazione 13 dicembre 1984 - per cui "le disposizioni normative esistenti in materia di parità di trattamento, intese a conferire diritti agli individui, sono inadeguate per eliminare tutte le disparità di fatto, a meno che non siano intraprese azioni parallele da parte dei governi, delle parti sociali e degli altri enti interessati, per controbilanciare gli effetti negativi risultanti per le donne, nel campo dell'occupazione, da atteggiamenti, comportamenti e strutture sociali" - la Corte conclude che la preferenza accordata alle donne, sempre che ne ricorrano le condizioni indicate, "in quanto mira a far sì che le donne siano rappresentate in pari misura rispetto agli uomini in tutte le categorie retributive e in tutti i livelli di un servizio, sostituisce all'obiettivo della promozione della parità di opportunità, di cui all'art.2 n.4, un risultato al quale si potrebbe pervenire solo mediante l'attuazione di tale obiettivo".
Nulla viene detto su come raggiungere il traguardo di una effettiva parità, mentre il giudice nazionale nell'ordinanza di rinvio giustamente evidenziava che un regime di quote, come quello controverso, può contribuire per il futuro a superare svantaggi tuttora subiti dalle donne e che perpetuano le ineguaglianze del passato, in quanto esso crea l'abitudine di vedere le donne ugualmente impegnate nello svolgimento di alcune funzioni più prestigiose".
Inoltre egli esattamente ha puntualizzato che "la tradizionale assegnazione delle donne a determinate attività e la concentrazione del lavoro femminile in posti che occupano un rango inferiore nella gerarchia professionale sarebbero in contrasto con i canoni di parità giuridica attualmente in vigore".
Ed in effetti in molti paesi si possono affermare principi generali avanzati per i cittadini, ma allo stesso tempo non ci si impegna a sviluppare le politiche sociali per attuarli.
Orbene, come rilevato dal Bundesarbeitsgericht, nella fattispecie non ricorre un regime di quote rigido che riservi alle donne una determinata percentuale dei posti vacanti, prescindendo dalle loro qualificazioni, tanto che il giudice nazionale lo ritiene compatibile con le norme costituzionali e legislative tedesche, interpretando la disposizione controversa "nel senso che, sebbene in linea di principio la preferenza debba essere accordata alle donne in caso di promozione, l'equità impone tuttavia di fare un'eccezione a questo privilegio ove sia necessario".
Si è in presenza, quindi, di un provvedimento che, pur apparendo discriminatorio, mira a perseguire "lo scopo di migliorare l'attitudine delle donne a concorrere sul mercato del lavoro ed a proseguire nella carriera in posizione di parità rispetto agli uomini".
Ma la Corte di Giustizia, sorda a tali esigenze di ordine sociale, ha considerato prioritario il salvaguardare la parità formale e ha ritenuta illegittima una disposizione finalizzata a realizzare direttamente la parità sostanziale.
Questo atteggiamento a livello CEE più favorevole ad una uguaglianza formale può far sorgere il dubbio che il principio della parità nel lavoro tra i due sessi abbia trovato un terreno favorevole per germogliare e crescere nell'ordinamento comunitario, incidendo - è vero - positivamente anche negli ordinamenti nazionali, in quanto però non confligge con i prevalenti interessi economici, ai quali, più che ad istanze di carattere sociale, sembra tuttora sensibile l'Unione Europea.
Invero, i padri dell'Europa si sono mossi secondo un'ottica liberista: non a caso l'attuale Unione nasce nel 1967 come Mercato Europeo Comune, nel quale la politica sociale è strettamente in funzione del buon funzionamento del mercato, improntato alla regole della "libera concorrenza".