3.4. Nadezda Cetkovic e Vera Litricin, Jugoslavia L'empowerment economico delle donne vittime della violenza domestica in situazioni di guerra e di economia povera
Mentre prende forma la New economy del Medio Oriente, l'industria tessile israeliana è entrata in crisi, e il settore arabo, che attualmente fornisce la maggioranza della sua forza-lavoro, corre il rischio di trovarsi dinanzi alla rovina economica.
Le grandi fabbriche di proprietà ebraica, come Delta, Kitan, Castro e Tefron, riorganizzano la forza-lavoro secondo gli orientamenti del capitalismo mondiale, che tende a cercare manodopera al costo più basso, e questo significa che la popolazione araba che vive nel nord d'Israele, la cui economia dipende quasi esclusivamente da questa industria, potrebbe essere completamente estromessa dal processo produttivo.
Il governo di Netanyahu ha celebrato il suo più grosso trionfo economico nel 1997: ha ridotto l'inflazione al "livello europeo" del 7%. Guardando al futuro, l'establishment economico israeliano progetta di ridurre il deficit, abbassare ulteriormente l'inflazione, tagliare i servizi e continuare a vendere le aziende pubbliche ad imprenditori privati. Questi traguardi implicherebbero la chiusura di intere industrie, provocando numerose bancarotte e causando una disoccupazione sul lungo termine a livello del 10% circa.
Per Israele, un basso tasso di inflazione rappresenta la carta d'ingresso nei vertici dell'economia mondiale.
Altrettanto si può dire del processo di pace conosciuto come Accordi di Oslo. Un paese instabile che si regge su un'economia di guerra non è il miglior posto dove investire. L'idea, nata agli inizi degli anni '90, era di usare il consenso palestinese per dichiarare la fine del conflitto, così da stabilizzare Israele come potenza economica della regione. Il principio che si doveva seguire era: non ascoltare ciò che dicono i politici, ma osservare quello che fanno gli economisti.
Questa tendenza cominciò in modo silente, ma adesso sta guadagnando terreno in modo piuttosto visibile: le industrie a forte intensità lavorativa stanno progressivamente abbandonando Israele per l'Egitto e la Giordania. Questo richiede la collaborazione tra compagnie israeliane e straniere, nonché degli imprenditori arabi.
Le barriere doganali si alzano, in accordo con il trend internazionale.
Agli occhi di Israele, il commercio con i vicini costituirà un ulteriore impulso all'economia del paese.
Durante l'ultimo summit sull'economia del Medio Oriente a Doha (Qatar), Giordania ed Israele firmarono un accordo che prevedeva una joint industrial zone, da situarsi in Giordania del Nord, nella città di Irbid.
I beni prodotti saranno commercializzati in USA senza essere gravati da imposte doganali. La zona industriale di Irbid ospita già dieci aziende Israeliane, incluse le Industrie Delta Tessili e Koor.
Sul quotidiano ebraico Yediot Aharonot del 16 gennaio 1998, Semadar Peri esamina il nuovo trend della cooperazione regionale, e cita Dov Lautmann, il proprietario della Delta, che impiega 3500 persone, (Lautmann era il consulente speciale per l'economia araba di Rabin, ed è stato il primo ad aprire una fabbrica in Egitto).
Egli descrive la strada tortuosa grazie alla quale la biancheria prodotta dalla Delta raggiunge gli scaffali dei negozi statunitensi dopo aver attraversato diverse località del Medio Oriente.
Lautman acquista cotone grezzo in Egitto e lo spedisce in Turchia per la filatura e la tessitura.
Da lì il tessuto va a Karmiel in Israele, dove viene tagliato e disegnato. Quindi viene trasportato sino a Irbid in Giordania per il lavoro di cucitura ed imballaggio, per tornare infine a Karmiel dove viene imballato e spedito negli Usa.
I bassi salari - che differiscono a seconda dei paesi dove si svolgono i diversi momenti della produzione - permettono alla Delta di affrontare il mercato americano al prezzo competitivo di dieci dollari per capo di biancheria. In questo articolo, Lautmann si vanta di non aver mai licenziato nessuno dei suoi lavoratori.
Le fabbriche in Egitto e Giordania, dice, gli consentono di creare lavoro in Israele. La cosa è ben lontana dalla verità. La Delta ha licenziato 250 lavoratrici arabe della filiale di Shefar'am, chiusa nel Marzo 1997.
Un'altra filiale nel villaggio di Beit Jan ha dovuto chiudere nel febbraio '97, lasciando un centinaio di operai senza lavoro.
Nell'ottobre '96, Doron Tamir, dell'Associazione Industriali fu citato dallo Yedíot Aharonot per aver dichiarato che, dei cinquantamila lavoratori tessili esistenti in Israele, ventimila avrebbero perso il posto nei successivi due anni.
Per la popolazione araba - particolarmente quella del nord d'Israele - il risultato sarà il disastro economico. Per anni, quella tessile è stata l'unica industria permessa nel settore arabo, e l'unica fonte di lavoro per la maggior parte delle donne.
Le stime dicono che le donne arabe costituiscono un terzo dell'intera forza-lavoro del settore tessile israeliano. A partire dagli ultimi vent'anni, accanto alle più grandi industrie tessili situate nelle città ebraiche, sono sorti piccoli laboratori che impiegano manodopera sottopagata, disseminati nei villaggi arabi.
I manager di queste piccole imprese agiscono abitualmente come subappaltatori di grandi aziende, impiegando migliaia di giovani donne arabe. Queste lavoratrici sono confinate nei loro villaggi, da una parte a causa della tradizionalismo delle loro famiglie, e dall'altra per la mancanza di altre opportunità di lavoro. Le condizioni di lavoro sono spesso al di sotto dei normali standard, ed esse ricevono salari assai più bassi di quelli che potrebbero guadagnare nelle fabbriche.
Amir Peretz, capo del sindacato nazionale Histadrut, diceva a Semadar Peri nell'articolo citato sopra che "il calo dell'industria tessile è inevitabile; l'importante, in ogni caso, è cercare di rendere questa transizione quanto più morbida possibile".
Invece di organizzare una lotta coordinata internazionalmente contro la globalizzazione, Peretz dunque si augura solo che questa avvenga facilmente.
Il significato è chiaro: garantire alle fasce ebraiche dei lavoratori israeliani la sicurezza di un graduale accesso a settori più redditizi, usufruendo nello stesso tempo dei benefici sociali.
Per i lavoratori arabi, invece, inclusi quelli che sono cittadini israeliani, non ci sono alternative. Infatti, la maggior parte delle industrie elettroniche - che costituiscono un settore trainante in questo paese - per motivi di sicurezza, non assumono lavoratori o lavoratrici arabe. Poiché questi appartengono a segmenti più deboli e non organizzati dell'economia, e spesso vivono lontano dagli uffici di collocamento governativi, raramente riescono a percepire sussidi di disoccupazione.
In un periodo di veloce privatizzazione, questo significa che centinaia di migliaia di lavoratori - quelli israeliani appartenenti alle fasce più deboli e quelli arabi - saranno relegati ai margini della società. Sono gli arabi, ad ogni modo, a trovarsi particolarmente nei guai. Sono esclusi dalle industrie ad alta tecnologia, ma non possono nemmeno trovare un lavoro ai livelli più bassi, che sono letteralmente "sommersi" dal lavoro straniero e palestinese. E nemmeno hanno parte in qualsiasi piano che riguardi lo sviluppo del paese: nessun settore ha bisogno di loro.
In termini sociali, questo si traduce in uno sfacelo, in degrado
sociale, in tagli ai servizi essenziali, e in meno soldi per l'educazione e la salute.
La globalizzazione, accettata in eguale misura in Israele dai sindacati dei lavoratori e dai padroni, si esprime nel processo di Oslo.
Dietro il bello slogan sul "nuovo Medio Oriente", si nasconde un nuovo, più potente apparato internazionale di sfruttamento economico.
Gli slogans politici ubbidiscono ai bisogni economici.
Israele si trova a competere per avere la propria parte nel mercato occidentale. Una forza lavoro a basso costo è quanto mai essenziale, anche se questo significa calpestare i più deboli.
Il colosso globalizzato del capitale israeliano ha, tuttavia, i piedi di argilla: fino a che Israele continuerà ad occupare i territori arabi, l'area rimarrà instabile. Non importa quanto le cose potranno andare lisce, non c'è via d'uscita a questa situazione: i lavoratori egiziani e giordani
non sono diversi da quelli palestinesi.
Tutti loro, compresi gli stranieri che lavorano in Israele, un giorno si organizzeranno e rivendicheranno i propri diritti. Allora, avremo un'Intifada globalizzata.
Roni Ben Efrat è direttrice del Challenge Magazine, rivista bimestrale in inglese specializzata sul conflitto arabo-israeliano.
Una copia omaggio può essere richiesta a Challenge, pob 41199, Jaffa, 61411, o semplicemente via
e-mail: <odaa@p-ol.com>.
3.2. Profughe, rifugiate politiche e lavoro a Belgrado
Dr. Maja Kandido-Jaksic
Psicologa
traduzione di Giovanna Martelloni
Introduzione
Gli ex stati e società della Yugoslavia sono stati colpiti da uno shock disastroso che ha causato la loro distruzione e disintegrazione. Ondate di rifugiati delle popolazioni della Croazia, della Bosnia e dell'Herzegovina si sono mosse prevalentemente verso Belgrado restando lì come profughi, accolti principalmente dai familiari più stretti, da amici o da conoscenti, ed in numero minore o persino trascurabile dalle autorità. In questo testo l'autore analizza le donne sotto stress ai tempi del conflitto a Belgrado. Dalla presente ricerca, attraverso il contatto diretto ed interviste alle rifugiate, sono stati raccolti ed analizzati dati relativi alle capacità lavorative nel nuovo ambiente, ai problemi di adattamento, ai traumi ed abusi sulle persone, alla salute fisica e mentale delle donne.
Ad ogni modo, si potrebbe concludere che la popolazione delle donne rifugiate a Belgrado, nel suo insieme, è stata fortemente traumatizzata con conseguenze negative di grande portata dai conflitti armati e dagli avvenimenti successivi ad essi accompagnati e dagli incidenti fra le ex repubbliche vicine.
Modello e metodologia
Strumenti:
Questionari per le donne rifugiate (Questionari differenti con tipi di domande in base al contenuto ed al soggetto specifico: dicotomia di domande, scelta multipla con categorie qualitative, domande nella forma di una scala qualitativa, domande che richiedono una classificazione, domande che richiedono una risposta libera).
Il campione di donne indagate consisteva di 195 madri dell'età compresa fra i 35 ed i 50 anni, i cui figli sono ora studenti nelle tre scuole superiori di Belgrado, è servito a fornire contatti con gli intervistati. La metà circa delle donne intervistate appartenenti alla popolazione rifugiata a Belgrado hanno un livello d'istruzione di scuola media e superiore, un quarto è di un grado di istruzione più basso e l'altro quarto di laureate presso istituti superiori.
Prima del loro arrivo in Serbia la gran parte delle donne erano impiegate, sposate ed avevano avuto una vita confortevole e regolare all'interno delle loro famiglie.
65% fuggite dalla Croazia, 1% dalla Slovenia;
34% fuggite dall'area della Bosnia e dell'Herzegovina e dalla Repubblica Serba;
86% Serbe, 14% Croate o Musulmane, provenienti da matrimoni misti.
Attualmente, tutte le donne sono state, chi più o chi meno, direttamente colpite e minacciate dalla guerra..
Il 10% sono vedove che hanno perso i loro mariti in guerra, il 19% sono divorziate, la metà di queste asseriscono che la guerra assieme alle condizioni di vita piuttosto difficili è stata la causa principale del loro divorzio.
Il 15% vive in famiglie smembrate a causa dell'assenza della madre, del padre, del marito o dei figli dovuta alla separazione forzata, o perché son dovuti rimanere nelle altre repubbliche per proteggere i propri beni o ancora perché sono stati inviati all'estero in luoghi più sicuri. Numerosi componenti delle loro famiglie sono deceduti per cause di guerra, in altre parole, perché sono morti di miseria, mancanza di medicinali e servizi medici, la qual cosa significa che i rifugiati devono prendersi cura di se stessi e dei loro figli senza avere alcun sostegno.
Problemi specifici di disoccupazione delle donne rifugiate.
L'emigrazione in larga scala e l'abbandono delle abitazioni restano tra le più tragiche conseguenze del cataclisma causato dalla guerra.
L'abbandono dell'ambiente d'origine imposto dagli eventi della guerra ha cambiato fondamentalmente le precedenti ed essenziali condizioni di vita delle rifugiate e profughe dalla Croazia e dalla Bosnia e delle loro famiglie. Le profughe rifugiate incontrano una serie di difficoltà: da quelle causate dalla insufficienza di denaro ad una più vasta gamma di problemi di ordine sociale e psicologico. Il crollo economico dovuto alle sanzioni delle Nazioni Unite e alla stessa guerra sembra che abbia causato un allargamento della disoccupazione nell'intera area della Yugoslavia, dove le donne rifugiate si sono prevalentemente raccolte e dove hanno trovato protezione ed una residenza temporanea o permanente.
In base al materiale di ricerca raccolto sulle rifugiate e le donne profughe, l'impoverimento e l'insicurezza patiti nell'affrontare i bisogni quotidiani, rappresenta un forte fattore di stress multi-dimensionale, nel senso che potrebbe produrre un'intera gamma di gravi disturbi di vario genere nelle famiglie e negli individui. La gran parte delle intervistate sentono minacciata la propria sopravvivenza dalla scarsità e dalla mancanza di denaro.
Qui seguono le percentuali delle risposte che indicano il parere delle intervistate su ciò che per loro costituisce un problema che presenta difficoltà concrete.
Fra le profughe politiche vengono indicati come "grandi difficoltà" tre ordini di problemi.
Il primo blocco di domande si riferisce ai problemi di sopravvivenza:
povertà 82%
impossibilità di lavorare 85%
ottenere un lavoro regolare 11,5%
stato di soggiorno irrisolto 78%
La povertà è considerata dalle donne rifugiate il primo e più serio problema che hanno affrontato nel nuovo ambiente. Solo la metà delle intervistate ha trovato un nuovo impiego pressoché in regola, tuttavia esse non lavorano più nell'ambito della loro professione. Più dei tre quarti di loro ora sono a "lavoro nero" e vendono persino una parte dei propri aiuti umanitari, alcune di loro hanno trovato una precaria fonte di guadagno come venditrici nei parchi, in luoghi all'aperto e nei mercati delle pulci, altre come domestiche presso famiglie, baby-sitter, accompagnatrici, governanti e infermiere per anziani e persone bisognose di aiuto. Si potrebbe dedurre che molte di loro fossero insegnanti di scuola superiore, medici, giudici e simili.
La frustrazione più grande per le donne intervistate è la loro condizione finanziaria, la povertà e l'impossibilità di avere altre fonti di guadagno per soddisfare i bisogni propri e quelli dei loro figli. La grande maggioranza di esse, il 76%, pensa che i bisogni elementari dei propri figli non siano abbastanza o per nulla soddisfatti.
Il secondo e più serio problema è l'abitazione e la condizione di coloro che non hanno il permesso di soggiorno. Il materiale raccolto suggerisce che i rifugiati che vivono in Serbia sono in gran parte (95%) sistemati presso le famiglie dei loro parenti o amici i quali, a loro volta, hanno avuto
grandi difficoltà finanziarie durante l'embargo.
Di fatto il problema principale di queste donne rifugiate è l'impossibilità di ottenere la cittadinanza nel nuovo paese e per questo hanno difficoltà ad ottenere lavori fissi e corrispondenti alle proprie professioni. Tutti gli altri problemi collaterali, tensioni e difficoltà che loro affrontano e di cui hanno esperienza vengono principalmente da tali gravi ed insormontabili problemi di vita.
Il secondo ordine di problemi è relativo alle condizioni fisiche, di salute mentale e di stress psicologico:
problemi di salute fisica 40%
problemi di salute mentale 78%
conflitti all'interno della famiglia 17%
nostalgia 8%
separazione dalla famiglia 83%
senso di paura 49,5%
solitudine ed abbandono 45%
noia 35%
Più della metà quasi delle donne intervistate (58%) ha risposto che sin dall'inizio della loro condizione di rifugiate o profughe, hanno sofferto assai di più di malattie e disturbi fisici e/o mentali. È anche importante notare che si è avuta la più grande percentuale di malattie e di disagi fisici e mentali fra i rifugiati politici e che tutto l'insieme dei problemi psicosomatici è stato direttamente correlato alla lunghezza della loro condizione di rifugiate e di profughe. Quanto più a lungo hanno vissuto la condizione di rifugiate e di profughe tanto più intensi sono diventati i disturbi fisici e mentali. Da quando queste donne sono rimaste in gran parte disoccupate, per mancanza della nuova cittadinanza, sono state private della previdenza sociale e a causa della loro totale povertà hanno vissuto gravi rischi e problemi..
Molte donne soffrono di sintomi assai seri di melanconia, ansietà, senso di abbandono, apatia e depressione.
Fra di loro sono assai diffusi diversi tipi di nevrosi e complessi di inferiorità, senso di solitudine, sensazione che la loro vita sia demotivata e priva di senso. Solitamente le donne si sentono inutili, non solo perché non lavorano, ma anche perché percepiscono e soffrono delle nuove condizioni in cui si trovano (nuovo ambiente, mancanza di dimora e problemi di soggiorno, separazione dagli altri componenti familiari, frequente e prolungata mancanza della vicinanza dei figli, di poterli accudire, guidare, amare, ecc): della perdita di un profondo scambio emotivo che prima avevano con i loro figli. Oggi molte madri rimpiangono il fatto di non aver partecipato abbastanza all'educazione dei propri figli e la quasi totalità (85%) lamentano il fatto che i figli le evitano, che non obbediscono né le rispettano più come in passato. Da questo punto di vista, le donne intellettuali
tendono ad adattarsi meglio e spesso riescono a trovare qualche attività all'interno di ambienti a loro più vicini o più lontani. In questo modo le donne sono in grado di conservare la fiducia in se stesse e l'auto rispetto, mentre le donne appartenenti alle classi più basse con un livello di istruzione più basso soffrono cinque volte di più di depressione e mostrano una maggiore tendenza al suicidio.
Il 12% di queste donne intervistate ha dichiarato che sebbene prima della guerra esse non avessero nei loro matrimoni nessun problema simile, oggi sono vittime dei loro mariti ubriachi che spesso le violentano e le picchiano dinanzi ai figli.
Un gran numero delle donne rifugiate si lamenta anche della monotonia e vuotezza della propria vita in tali circostanze e la maggioranza sta cercando l'opportunità di avere un lavoro pagato.
Il terzo ordine di problemi è legato alla questione dei diritti umani, da dove scaturiscono le seguenti risposte:
Più dei tre quarti delle donne rifugiate e profughe intervistate (78%) ha risposto che finora, a loro, i diritti umani non sono stati né riconosciuti né rispettati.
Molte di loro hanno incontrato specifiche difficoltà dinanzi a problemi elementari come ottenere i documenti di base (cittadinanza, passaporti, carte di identità, ecc.).
La guerra in Croazia e in Bosnia Herzegovina ha causato distruzione ed intolleranza in primo luogo fra i membri dei gruppi etnici coinvolti nel conflitto.
In tali circostanze di emergenza, si sono avuti stereotipi e pregiudizi sociali persino tra membri dello stesso gruppo etnico, se una parte di esso veniva individuata come possibile minaccia agli interessi della maggioranza messa così in pericolo.
Un problema di notevole significato e assai delicato in senso politico in tutta l'area della ex Yugoslavia, che il ricercatore ha osservato, ma che ancora non è stato racchiuso nello studio su "Rifugiate e profughe politiche", è relativo alle donne ed ai figli di matrimoni misti. Nel progettare i futuri programmi di accoglienza dei rifugiati e dei profughi politici nell'area dell'ex Yugoslavia, è importante prendere in considerazione il fatto che esiste una larga percentuale di persone (ogni sei matrimoni), i cui genitori o sposi sono di nazionalità differenti e quindi che queste donne rappresentano un gruppo di persone particolarmente traumatizzato ed esposto a particolari tipi di tensioni.
Tali persone hanno affrontato determinate difficoltà relative a problemi elementari come il conseguimento di documenti fondamentali (cittadinanza, passaporti, carte d'identità ecc.) e, in conseguenza dell'attuale guerra, sono state esposte ad una eccezionale aggressività ed intolleranza nei confronti delle loro origini etniche da parte dell'ambiente circostante.
Queste persone lamentano di più i problemi della sicurezza e dei diritti umani. Più dei quattro quinti delle donne intervistate (81%) sono pienamente o sostanzialmente soddisfatte del grado di sicurezza personale nella situazione attuale, mentre le donne che hanno matrimoni misti dichiarano che si sentono minacciate nei loro diritti e grado di sicurezza personale o considerevolmente violate a paragone con gli altri gruppi di donne. Le donne appartenenti a questa sono tre volte di più e più gravemente portate alla malattia mentale che gli altri gruppi.
Allora si può concludere che i matrimoni misti attualmente all'interno dell'intera area dell'ex Yugoslavia rappresentano una grave rischio mentale. Il primo aiuto del quale le persone appartenenti a matrimoni misti avrebbero bisogno sarebbe di vedersi riconosciuta la doppia cittadinanza in conformità alle origini dei due sposi, e questo problema dovrebbe essere risolto dalle Nazioni Unite al più presto possibile.
Note conclusive
La conclusione principale alla quale si giunge attraverso questa indagine è che quasi tutte le donne rifugiate ed i loro figli provenienti dalla Croazia, Bosnia ed Heregovina che vivono in Serbia sentono prevalentemente nostalgia di casa e che il desiderio della maggioranza di esse è di ritornare nelle proprie case.
In conformità con questo dato, la maggioranza delle intervistate (72%) si aspetta più che di essere profughe politiche di ritornare nelle proprie case. Rispetto al futuro, la maggioranza delle donne intervistate hanno espresso pareri pessimisti e si aspettano persino che i problemi aumentino.
"Donne per la dignità" è un'associazione nuova in Bulgaria, costituitasi cinque anni fa. Abbiamo voluto chiamarla così perché ci pareva che in una situazione di così grave crisi economica, psicologica e morale determinatasi nel Paese dopo il collasso del socialismo, la restituzione della dignità perduta fosse la cosa su cui concentrare primariamente gli sforzi delle donne.
Ci siamo molto impegnate sul problema del lavoro delle donne, organizzando studi, incontri, dibattiti, perché pensiamo che la salvaguardia o la conquista dell'indipendenza economica sia la cosa fondamentale. Di quale dignità della donna - e dell'uomo - si può parlare, infatti, quando non c'è lavoro, e se c'è è sottopagato, senza contratto o senza assicurazione sociale?
Di quale dignità si può parlare se il costo delle cure sanitarie, per l'istruzione dei figli comporta una spesa superiore a quello che una donna, pur lavorando, può guadagnare?
Per non parlare delle umiliazioni e delle violenze che le donne subiscono sul posto di lavoro: nella nostra attività abbiamo incontrato un'alta percentuale di donne che, pur in possesso di un'istruzione superiore, pur potendo aspirare ad un lavoro molto qualificato, sono invece costrette ad accettare qualunque condizione pur di guadagnare qualche soldo.
Qualche tempo fa, nel sud della Bulgaria, in un'azienda tessile impiantata di recente con capitale straniero, si è verificato il caso di due operaie che sono svenute sul posto di lavoro, per la fatica e l'ambiente malsano: solo allora è venuta fuori la verità sulle condizioni lavorative di queste donne, supersfruttate, prive di garanzie e maltrattate dai datori di lavoro.
Ma quando la nostra associazione si è recata sul posto per parlare con queste operaie e per chiedere loro di denunciare il fatto in televisione, queste hanno avuto paura. Ci hanno detto: e se perdiamo pure questo posto, come vivremo? Una situazione insostenibile per noi che appena pochi anni fa non sapevamo che cosa fosse disoccupazione.
Ma abbiamo tante testimonianze di donne che sono venute presso la nostra associazione per raccontare le loro amare esperienze: donne che, pensando di doversi solo adattare ad umili lavori, hanno ricevuto nel tempo, da parte del datore, richieste sempre più degradanti e proposte di prestazioni sessuali.
Tempo fa una giovane donna, laureata in filosofia, ci raccontò di avere accettato un impiego come cassiera in un piccolo caffè di proprietà di un arabo residente in Bulgaria. Dopo qualche giorno questi le aveva chiesto di fare anche le pulizie nel locale, e lei aveva accettato per non perdere il posto. Poi aveva preteso che facesse di fare le pulizie anche nella sua casa, poi l'aveva invitata a "stare" con lui e infine le aveva proposto di andare con certi suoi amici, a pagamento. A questo punto lei s'era ribellata ed era venuta da noi a denunciare il fatto. Ma quante donne, a differenza di lei, sottostanno a tutte le pretese, vengono irretite con la promessa di un lavoro all'estero e finiscono sulle strade d'Europa a fare le prostitute!
Sono sempre le condizioni determinate dalla crisi economica a costringere le lavoratrici bulgare a certi passi, capiamo che non è certo per scelta se tante donne vanno ad allargare le cifre della prostituzione in Europa.
Purtroppo tutte queste difficoltà, invece di determinare volontà di battersi per cambiare le cose, spesso generano apatia e sfiducia anche in tante donne che una volta erano molto attive nella vita sociale e nei movimenti femminili e che ora si sono ritirate nel loro privato. Invece di organizzarsi e protestare quando vengono aumentate le tasse scolastiche, quando vengono chiusi gli asili nido, quando salgono i prezzi dei beni di prima necessità, ciascuna cerca di risolvere da sé i propri problemi, magari coltivandosi i pomodori sul balcone.
Lo scopo della nostra associazione è di dire a queste donne sfiduciate che hanno dei diritti da fare rispettare e che li possono difendere unendosi alle altre, associandosi, costituendo cooperative.
Dobbiamo far capire che non è vero che le cose non possono cambiare, l'importante è credere nelle proprie forze e questo potrà avvenire solo se le donne uniranno le loro forze attraverso i confini per salvare i loro diritti.
3.4. L'empowerment economico delle donne vittime della violenza domestica in situazioni di guerra e di economia povera
Nadezda Cetkovic e Vera Litricin
Coordinatrici di Centro per donne maltrattate e di SOS Hotline Centro per le ragazze di Belgrado
La situazione economica in Serbia è critica. La ex Jugoslavia si usava classificarla fra i paesi europei di medio sviluppo economico.
Oggi è la più povera.
Nel 1997 la Jugoslavia (Serbia e Montenegro) aveva 2.331.000 occupati (2.014.000 nel terziario) e 814.000 persone in cerca di lavoro (tra questi 456.000 donne). In totale, il paese aveva 1.319.886 persone che beneficiavano dell'assistenza statale.
La media salariale netta nel 1997 era di 803 dinari mensili ( pari ameno di 150 marchi) che bastano per comprare circa 160 kg di pane o un paio di blue jeans.
La media delle pensioni è di 713 dinari.
La guerra e l'embargo hanno causato la distruzione dell'industria e il mercato nero è ora la sola istituzione che funziona. La situazione creata dalla guerra è stata sfruttata da uomini senza scrupoli ed un manipolo di potenti politici sono divenuti proprietari della maggior parte della ricchezza nazionale, mentre un altro ristretto gruppo di persone si è arricchito importando carburanti, armi, sigarette e qualsiasi altro bene di cui la gente necessiti. Si stima che questi uomini ricchissimi - profittatori di guerra - siano non più del 3% della popolazione, mentre la stragrande maggioranza è povera e poverissima. Il ceto medio non esiste più.
In tale situazione, le donne o hanno perduto il lavoro o lavorano a salari bassissimi.
Ma devono comunque trovare il modo di mantenere se stesse ed i propri figli.
Alla situazione problematica esistente si aggiungono i molti profughi che vivono nelle città o nei centri di accoglienza.
Il dover lottare per vivere in così difficili condizioni provoca uno
stress che inevitabilmente sfocia in violenze domestiche.
Le associazioni femminili lavorano da diversi anni sul problema della violenza all'interno della famiglia. Uno degli aspetti di questo lavoro consiste nello sforzo di migliorare le condizioni economiche delle donne.
Il Centro per donne e bambini maltrattati è una di queste associazioni che cercano di aiutare le donne ospitate a diventare il più possibile indipendenti economicamente.
Il Centro ha cominciato ad operare nell'aprile del '94 per iniziativa di SOS Hotline per donne e bambini vittime di violenze ed è un progetto femminista che dà sostegno alle donne vittime di violenza domestica e di discriminazioni, e a donne che si trovano in una posizione socialmente debole. In ogni caso, il nostro centro non accoglie coloro che sono irresponsabili nei loro comportamenti, come le alcoliste o le drogate.
Finora sono passati dal nostro centro 67 donne e 91 bambini.
Entrando nel rifugio, le donne firmano un contratto in cui sono stabiliti precisamente gli obblighi ed i diritti reciproci.
Delle 67 che sono state ospiti del rifugio, 52 erano state segnalate da SOS telephone for women and children di Belgrado, 11 dalla Caritas di Belgrado e 4 da altre organizzazioni consimili di altre città della ex Jugoslavia.
Metà delle donne erano comprese in una fascia di età adulta tra i 30 ed i 40 anni e ciò sta a dimostrare che esse avevano subito a lungo violenza prima di decidersi a lasciare le loro case e a difendere la propria integrità fisica e mentale.
L'analisi delle caratteristiche sociodemografiche delle donne ospitate dal centro ci fa concludere che la percentuale delle appartenenti a minoranze etniche o religiose è più alta di quelle della comunità di maggioranza. Venti sono profughe. Dalle testimonianze delle donne risulta che quattro di esse hanno trascorso l'infanzia in un brefotrofio, due sono straniere, due hanno avuto storie di psichiatria, quattro hanno figli illegittimi che probabilmente sono stati una concausa della violenza a cui esse sono state esposte.
L'appartenenza a minoranza o a gruppi marginali sembra dunque essere un considerevole fattore di esposizione alla violenza per queste donne.
Anche il razzismo è stata causa di violenza, soprattutto a partire dallo scoppio della guerra e con la pesante propaganda massmediale contro la gente di diversa nazionalità che vive nei territori della ex Jugoslavia.
Nei casi più gravi di violenza era compresa l'intolleranza razziale.
Sebbene le donne accolte nel centro avessero in totale 96 figli, solo 74 di questi erano stati condotti con sé dalle madri.
In circa i tre quarti dei casi, le donne avevano trovato accoglienza mentre si nascondevano dai loro uomini: mariti o ex mariti, conviventi o ex conviventi, padri, figli, fratelli. Dodici di esse sono venute nel centro per ragioni direttamente connesse con la guerra, anche se fra queste sono comprese casi di violenza subita da un membro della famiglia.
Tre sono venute nel centro per via della loro posizione inferiore nella società.
Il Centro non ha alcun supporto finanziario dallo Stato.
I contributi per affittare una casa nel villaggio, per impiantare un pollaio e alcuni laboratori li abbiamo ricevuti da organizzazioni umanitarie. Le coordinatrici del centro hanno realizzato diversi progetti per consentire alle donne accolte di guadagnarsi da vivere, con l'allevamento di polli, la tessitura di tappeti, i lavori a maglia, i laboratori cucito e di ceramica, i negozi di regali e dell'usato.
Le donne possono lavorare in uno di questi progetti sulla base del regolamento del centro.
Il guadagno della vendita delle uova, dei lavori a maglia, dei tappeti e delle ceramiche viene diviso in tre parti: un terzo alle donne stesse, un altro terzo per coprire i costi della loro permanenza nel centro ed il rimanente da investire nel negozio.
Sebbene il "potere" economico delle donne che lavorano nel centro antiviolenza non sia grande, è molto importante per loro e si è rivelata una buona terapia per molte. La violenza prodotta dalle stesse donne come conseguenza del trattamento subito ("violenza trasmessa") è diminuita, spesso traducendosi in forme creative ed artistiche. Le donne hanno imparato ad organizzarsi, a rispettarsi reciprocamente e ad essere orgogliose delle loro conquiste.
Il solo aspetto negativo è che il lavoro che noi siamo in grado di organizzare è a basso profitto: di fatto, uguale a quello delle nostre nonne.
La SOS Hotline ed il Centro per le ragazze è invece una Ong che lavora da quattro anni e mezzo. Le principali attività sono: ascolto telefonico, riunioni con le ragazze, un programma per le ragazze profughe, educazione sessuale, consulenza legale, psicoterapia e prevenzione dello stupro. Nel campo del rafforzamento economico delle giovani donne, abbiamo organizzato una scuola d'informatica e lezioni d'inglese. Le giovani che vengono al centro abitualmente sono profughe o provenienti da famiglie disturbate. Imparando l'inglese ed il computer, hanno molte più possibilità di trovare lavoro. Organizziamo workshops sui diritti delle donne, sulle molestie sessuali e diamo loro sostegno se si trovano in condizioni di vita pessime.
Sia il Centro di accoglienza che il Centro per le ragazze, infine, agevolano i contatti fra le donne e i Centri di assistenza sociale, l'Istituto di salute mentale, il Tribunale e tutte quelle istituzioni che sono importanti per
risolvere i loro problemi.
La Dichiarazione e il Programma d'Azione adottato alla quarta conferenza mondiale sulle donne, a Pechino nel 1995, hanno raccolto i contributi e le elaborazioni da parte di donne di tutto il mondo.
Nel documento finale si indicano gli obiettivi da conseguire e le iniziative che possono essere prese per raggiungere tale scopo sia da parte dei governi che dalle parti sociali.
I concetti della valutazione in una prospettiva di genere delle disuguaglianze esistenti tra uomini e donne, dell'acquisizione di potere e responsabilità da parte delle donne (empowerment), della loro valorizzazione, della necessità di informare le politiche quotidiane dei singoli Paesi all'attenzione non superficiale a due sessi, mettendo al centro della corrente (mainstreaming) la prospettiva di genere, attraversano il documento in tutte le sue parti e ne segnano il carattere nuovo.
Poiché Pechino è stato il punto più alto di elaborazione collettiva e condivisa da parte delle donne, mi è sembrato opportuno partire da quel documento
Nell'ambito del tema che è oggetto di questa settima conferenza, scelta preziosa della quale ringrazio le organizzatrici, richiamerò la vostra attenzione sulle molestie sessuali nei posti di lavoro.
Il Piano d'Azione della conferenza di Pechino affronta il tema della molestie sul lavoro nei capitoli dedicati alla VIOLENZA CONTRO LE DONNE (paragrafi da 112 a 130) inserendolo tra gli atti di violenza fisica sessuale o psicologica che provocano un danno o una sofferenza alle donne.
Inoltre troviamo le molestie sessuali al punto F del capitolo che riguarda DONNE ED ECONOMIA (paragrafi da 150 a 180) dove si dice che i "comportamenti discriminatori impediscono loro di essere promosse a posti di maggiore importanza" e che "l'esperienza delle molestie sessuali è sia un affronto alla dignità della lavoratrice, sia un ostacolo a che la donna possa arrecare un contributo proporzionale alle proprie capacità".
Quanto alle "Iniziative da assumere da parte dei governi ", viene indicato l'obiettivo strategico di "adottare misure concertate per prevenire ed eliminare la violenza nei confronti delle donne".
Nel paragrafo 124 si parla di "introdurre o inasprire le sanzioni penali, civili, amministrative o di lavoro nelle legislazioni nazionali per punire o risarcire i torti provocati alle donne e alle bambine che sono soggette a qualsiasi forma di violenza, sia in casa, sia nel luogo di lavoro sia nella società"; mentre nel paragrafo 125, viene indicato a governi, inclusi i poteri locali e le organizzazioni comunitarie ecc., l'obiettivo di "riconoscere la vulnerabilità alla violenza ed altre forme di abuso delle donne emigranti, incluse le donne lavoratrici emigranti, il cui stato legale nel paese ospitante dipende dai datori di lavoro che possono sfruttare tale situazione".
Infine, nel paragrafo 178, in relazione all'obiettivo strategico di "eliminare la segregazione professionale e tutte le forme di discriminazione sul lavoro", si chiede a governi, datori di lavoro, associazioni sindacali, lavoratori, organizzazioni delle donne di assumere iniziative rivolte a "emanare e applicare leggi e mettere a punto regolamenti che proibiscano le discriminazioni sessuali nel mercato del lavoro in particolare tenendo in considerazione le lavoratrici anziane, in materia di assunzioni, promozioni e benefici accessori e sicurezza sociale, così come le condizioni di lavoro discriminatorie e le molestie sessuali; creare meccanismi per il periodico riesame e verifica di tali leggi".
La situazione in Italia
Nel nostro Paese manca una legge specifica che affronti globalmente il grave problema delle molestie sul lavoro. Il Senato ha approvato nel mese di aprile un disegno di legge che dovrà passare all'esame della Camera prima di diventare legge dello stato. Fino ad oggi le indagini sindacali restano ancora le fonti di informazione più sensibili sull'estensione del fenomeno in Italia: in esse si segnala che una lavoratrice su tre nel corso della propria vita
lavorativa è soggetta a molestie.
L'Istat ha realizzato nel corso del 1998 un'indagine multiscopo nella quale erano inserite alcune domande sulle molestie nei luoghi di lavoro.
Dai primi dati emerge un 5% di donne molestate ed una grande reticenza nel dare le risposte.
Anche se scopo dell'Istat non è la denuncia, ed inoltre esiste il vincolo del segreto legato alle indagini statistiche, le donne difficilmente comunicano la loro situazione di disagio.
Tale difficile comunicazione viene confermata dall'indagine realizzata per la trasmissione televisiva "Porta a Porta", un'indagine telefonica che ha confermato gli stessi risultati percentuali.
Perché non tutte le molestate parlano della loro difficile situazione e tantomeno denunciano i fatti ?
All'azienda o alle forze di polizia arriva meno di una denuncia su 80 casi e, per quelle poche combattive che non rinunciano a difendere se stesse e il proprio diritto a lavorare con sicurezza, il percorso a ostacoli che le attende inizia di solito con la scoperta delle lacune e delle disfunzioni della "giustizia".
Le disfunzioni della giustizia
In mancanza di una legge specifica, sino ad oggi le querele per molestie sessuali, quando cioè non si sono trasformate in un reato più grave quale aggressione o tentata violenza, hanno dato luogo a delle ipotesi di reato ex art.660 del codice penale.
Questo articolo - molestie e disturbo alle persone - prevede una figura "minore" di reato; si tratta non di un "delitto" ma di una contravvenzione. La differenza pratica è che la pena è irrisoria: si ha o una pena detentiva ( l'arresto fino a sei mesi), o una pena pecuniaria (la multa fino a un milione di lire).
Da ciò consegue tra l'altro che, se il procedimento dura più di quattro anni e mezzo, il reato si prescrive.
Oltre alla mancanza di una legge specifica, le donne potranno scontrarsi col rifiuto di accettare la denuncia da parte delle forze dell'ordine, o col consiglio di "lasciar perdere", con il ritardo nella trasmissione delle informazioni e nell'inizio del procedimento; con l'archiviazione senza darne comunicazione all'interessata e senza motivarla ( salvo sapere che bisogna espressamente inserire la richiesta di essere informata del seguito); con la mancata costituzione di parte civile; con le difficoltà e gli ostacoli frapposti alla costituzione di parte civile per le associazioni di sostegno; con il costo delle procedure giudiziarie, con la lentezza del procedimento ed i continui rinvii; con i pregiudizi dei giudici; con l'atteggiamento irrispettoso verso le parti; con la declassazione del reato e la sua minimizzazione; col non veder considerato globalmente l'insieme dei reati commessi; col non riconoscimento integrale dei danni subiti.
Inoltre in mancanza di una legge, e quindi di norme che possano essere applicate uniformemente da Aosta a Canicattì, assume rilevanza la discrezionalità e l'organizzazione interna dei tribunali e delle preture. Se a Pordenone sono sufficienti 90 giorni per avere una risposta dalla Legge, a Roma occorrono 5 anni.
In molti casi è stato necessario fornire ai magistrati la documentazione in materia (nuova legge contro la violenza, sentenze della Corte Europea, raccomandazioni della Comunità Europea, Codice di comportamento, risoluzioni) poiché non ne avevano conoscenza.
Le richieste di archiviazione sono altissime anche a fronte di certificati medici per lesioni e aggressione. Nei casi di denunce plurime, da parte di uomini e donne, si manifesta la tendenza a sottovalutare o cercare di cancellare la denuncia maschile.
Tutti i tipi di comportamento elencati in precedenza sono indicativi della tolleranza sociale di cui gode questo genere di violenza contro le donne ed aiutano meglio a comprendere il perché della reticenza e del silenzio sui fatti.
Che fare ?
Se, a partire dalle sedi istituzionali e dalle parti sociali, c'è il rifiuto a riconoscere che le molestie sessuali sono una delle forme di violenza attraverso le quali si esercita nella società, nello spazio pubblico, fuori della famiglia, il potere "sessuale" maschile; che esse sono una grave forma di "aggressione" alla quale si somma un potere gerarchico ed economico, si nega di vederle in quel continuum della violenza contro le donne che è il meccanismo attraverso il quale passa la messa in subordine dell'intero genere e la riduzione al silenzio.
Gli argomenti evocati dai fautori dell'inutilità di legiferare su queste materie vanno dalla preoccupazione di "evitare gli eccessi all'americana" alla pseudo ironia del "lasciateci la seduzione almeno sul posto di lavoro", alla certezza della "inutilità della sanzione penale".
Esse testimoniano una reale ignoranza della vera gravità del fenomeno ma anche la voglia di rimettere in silenzio le donne, come soggetto che ha dato
nome, riconoscimento e visibilità a questa forma di violenza nello spazio pubblico tanto antica quanto sommersa.
È necessario riprendere le indicazioni che ci vengono da Pechino:
sollecitare un'azione dei Governi decisa e senza ambiguità verso tutti i tipi di aggressioni sessuali e sessiste;
un'azione sostenuta da campagne nazionali di prevenzione, di informazione e di formazione,
un'azione coordinata con le parti sociali e tutti i soggetti - specialmente le associazioni di donne - perché senza una politica globale e coerente di lotta contro tutte le forme di violenza contro le donne, le politiche di parità, l'empowerment, il mainstreaming, resteranno un obiettivo lontano.
Mi piacerebbe dare degli spunti per una discussione su fenomeni come la mafia, o meglio le mafie, e sui tratti comuni che possono esserci con certe forme d'integralismo e fondamentalismo: analizzando alcuni aspetti, come la rilevanza del controllo sociale che viene esercitato nei territori dominati dal potere mafioso, potremmo riscontrare degli elementi, situazioni di qualità simile a quelli che le donne conoscono in territori soggiogati da forme di terrorismo fondamentalista. Non sono in grado di dire molto su questo, sono evidentemente fenomeni diversi e vanno contestualizzati volta per volta, ma potrebbe essere utile rifletterci insieme.
La mafia e le mafie sono fenomeni che, paradossalmente, spesso vengono sopravvalutati ma allo stesso tempo sottovalutati.
Sopravvalutati come fatto eccezionale, terroristico, molto vistoso, quando interviene con attentati e fatti sanguinosi.
Sottovalutati nella loro dimensione più subdola, quella della vita quotidiana e dell'influenza sulla vita relazionale fra le persone.
Credo che questo aspetto, nel caso della mafia, abbia particolare rilevanza per le donne, implicitamente ed esplicitamente, anche se - ma forse proprio perché - esse formalmente sono escluse dall'appartenenza ai gruppi mafiosi.
Per certi versi, le donne - il femminile - rivestono una centralità in questo tipo di organizzazione criminale.
Teniamo conto che si tratta di un fenomeno, quello delle mafie, riscontrabile a livello internazionale, altamente integrato con i processi di globalizzazione ed economie avanzate, che però ha una base territoriale, dove questa gestione economica molto avanzata si mescola fortemente con le forme tradizionali della vita.
E proprio in questa mescolanza agisce l'elemento forte della capacità
di potere sulle persone che vivono in questi territori e sulle relazioni fra di loro.
Fra le donne del femminismo c'è chi sostiene che il patriarcato sia finito: io credo che questa della fine del patriarcato, possa essere una indicazione di tendenza ed è molto utile discuterne, ma quantomeno indicherei in contemporanea un'altra tendenza: in contesti democratici esistono e si sviluppano delle enclaves di carattere totalitario e antidemocratico, criminalmente patriarcale. Queste, però, non vanno confuse con le forme tradizionali del patriarcato.
Vorrei enucleare alcuni tratti caratteristici, e di particolare rilevanza per le donne, che queste organizzazioni criminali rivestono.
Si tratta di organizzazioni monosessuali, contrassegnate da rituali d'iniziazione, forme di esercizio del potere con una forte concentrazione sulla morte e sull'angoscia.
Gli uomini che ne fanno parte sono legati dal vincolo del segreto e della morte che crea una sorte di fortissima coesione sociale interna all'organizzazione.
Queste organizzazioni esercitano un potere totalitario, la cosiddetta signoria territoriale: queste enclaves all'interno di paesi con ordinamento democratico e rispetto dei diritti civili, sono territori in cui di fatto vige la pena di morte, dove i diritti individuali e collettivi sono sospesi.
Esse hanno un rapporto molto particolare con le forme pubbliche dello Stato: sono allo stesso tempo contro lo Stato e con esso.
Questo aspetto potrebbe essere oggetto di una riflessione, andando anche oltre le questioni di mafia.
Ancorando il proprio potere al loro carattere totalitario, queste organizzazioni hanno una presenza sul territorio tale che tende ad azzerare totalmente la divisione tra sfera pubblica e sfera privata, perché il dominio sulle persone viene esercitato non solo fuori casa, nelle relazioni sociali, nei commerci, nel lavoro, ma anche nelle relazioni intime, dentro casa. Non c'è più sfera privata, né privacy. Questo potere viene esercitato giorno e notte sul piano sociale e sul piano psichico dei singoli
individui.
Che cosa significhi questa costante ombra di presenza sulle vite dei singoli individui, soprattutto delle donne, credo che vada analizzato e contestualizzato: che cosa comporti per le donne che provengono o vivono in famiglie mafiose, è in quale misura sia diverso per le donne appartenenti a strati sociali che hanno contiguità con la mafia, per coabitazione nei quartieri dove domina la mafia o altre ragioni.
C'è poi da considerare c'è la questione generazionale e l'influenza della mafia sulle vite di donne che per estrazione e biografia vivono in contesti totalmente estranei agli ambienti mafiosi, ciò che in qualche modo lega tutte le donne, tutte le vite (anche quelle degli uomini) in luoghi dove "la paura dell'altro è una forza che oscura la socializzazione".
Questa forza agisce su tutti coloro che vivono nei territori dominati da essa, ma per le donne ci sono situazioni specifiche.
Come dicevo prima, paradossalmente, le donne e il femminile, proprio perché rimossi e formalmente esclusi, rivestono una centralità per gli uomini dell'organizzazione mafiosa.
Da un lato, l'estromissione delle donne, l'omofobia, psichicamente creano una fortissima coesione all'interno del gruppo segreto. Dall'altro, i forti legami fra uomini, l'omosessualità latente, si accompagnano ad un valore simbolico proiettato all'esterno dell'organizzazione: non a caso l'organizzazione mafiosa viene chiamata "mamma santissima"
Come sembrano confermare le testimonianze autobiografiche, al singolo affiliato con una debole identità maschile, l'organizzazione mafiosa e la sua ideologia offrono una via di autoaffermazione.
Da questo quadro, possiamo ricavare indicazioni di tendenza anche per il tema specifico della nostra discussione di questi giorni, cioé il rapporto delle donne con il lavoro.
È chiaro che in generale la presenza mafiosa sul territorio è un condizionamento estremamente negativo per il mercato del lavoro, perché blocca le attività, tranne quelle legate direttamente al profitto criminale: il pizzo, le tangenti, le estorsioni, la gestione degli esercizi commerciali. Ma soprattutto in un'ottica di rinnovamento, credo che vengano strangolate le nuove iniziative, quelle di tipo cooperativo e associativo, quelle che tendono ad avere un carattere economico non esclusivamente legato al profitto, ma anche con finalità di innovazione culturale.
La violenza fisica come meccanismo di regolazione del mercato evidentemente blocca ed impoverisce le possibilità - ad esempio con l'uccisione dei gestori di esercizi commerciali - e tendenzialmente aumenta la disoccupazione, tranne che nei rami criminali.
Viene alimentata costantemente la corruzione nel rapporto con gli enti pubblici, sotto la minaccia di morte s'impone un rapporto strumentale con tutto. Questa è una caratteristica, se vogliamo, del sistema capitalistico, però in territori egemonizzati dalla mafia assume delle forme estreme e quindi condiziona fortemente, nel mercato e nelle culture del lavoro, tutte le forme di coesione sociale, di solidarietà e di cooperazione anche informale; impedisce lo sviluppo della qualità della vita, dei servizi, delle garanzie legali e della sicurezza.
E, per quanto riguarda le donne, blocca i processi di emancipazione, perché in un contesto di libertà dominato da forme di potere e di morte, le donne non hanno possibilità di emanciparsi.
E non solo le donne delle famiglie mafiose: la libertà, come la democrazia, non è divisibile; se è bloccata per una parte della popolazione, tendenzialmente lo è per tutte.
Parlamentare italiana di Bari, dice che una delle principali ragioni delle migrazioni è la ricerca di sopravvivenza della gente.
Raramente emigra chi vive bene. Si riferisce alle donne che non hanno scelto di vendere i loro corpi ma sono state costrette a farlo come immigrate. Presenta due assunzioni: la pratica della prostituzione e la natura della prostituzione stessa come forme di violenza.
Le donne prostitute sono emarginate.
Le leggi dovrebbero essere adeguate poiché questo fenomeno sociale si sta diffondendo drammaticamente.
La maggior parte di queste donne sono immigrate irregolari e vittime del racket internazionale del crimine.
Esse sono obbligate a diventare prostitute e spesso non hanno scelta.
Parla infine di violenza sessuale sui bambini, droga ed altri problemi connessi con la prostituzione femminile.
Le donne immigrate vengono da diversi paesi. In quanto donne conoscono il loro destino, diventano prostitute e restano nell'ombra a causa del loro status di irregolari.
Mandano i loro guadagni a casa alle loro famiglie.
Occorre capire quali sono i loro bisogni e quelli delle loro famiglie
e creare una rete di informazione a riguardo.