Spesso si è convinti che quel
che si teme non accadrà; che i rischi paventati siano destinati
a non materializzarsi mai. Ma non è sempre così. In Iraq
quel che si temeva è accaduto e, nella strage dei diciotto italiani,
troviamo un segnale inquietante: che l'Italia è coinvolta in quella
guerra; è nel mirino dei terroristi.
Ci si è cullati sull'idea
degli "italiani, brava gente", anche in divisa: idea confortata dalle immagini
dei soldati italiani che scherzavano con i bambini iracheni e distribuivano
medicinali alla gente. Ci si è cullati sull'idea che quella umanità,
testimoniata da tanti militari italiani impegnati in delicate missioni
nel mondo, potesse stornare da loro, da noi, il "giudizio" pronunciato
dalle "cupole" del terrore: che quelli erano alleati dell'esercito USA,
collusi con il nemico invasore.
Ci si è cullati sull'idea,
nobilissima peraltro, che si può essere contemporaneamente soldati
e uomini di pace, in un ambiente dove le schematizzazioni sono drammaticamente
presenti. O stai da una parte, o dall'altra.
Diciotto vittime, diciotto storie
di vita, dove la motivazione ricorrente per la scelta di andare in "quella"
missione è il desiderio umanissimo di qualche beneficio economico
in più, per sé e la propria famiglia.
Si respira oggi cordoglio e commozione,
e stima nei confronti dell'Arma dei Carabinieri, che ha pagato il tributo
più pesante. E si ha, forse, conferma di una convinzione che dovrebbe
essere elementare: che non si fa opera di pace, anche in divisa, se non
sotto l'autorità di un'istituzione di pace. Si è esautorata
l'ONU. Gli USA hanno fatto tutto da sé e si trovano invischiati
in una guerra da cui è difficile uscire. Un "solidarietà
anche se non belligerante" con la politica dell'amministrazione Bush ha
i suoi costi.
Per questo non sono esattamente
d'accordo con quanto Marcello Sorgi scriveva sulla "Stampa" di ieri. L'Italia
non è entrata, oggi, in guerra, quasi senza accorgersene. C'era
già.
piero agrano