Di preti si torna a parlare più
spesso, mi sembra. Non foss’altro perché il venire a mancare di
un sacerdote residente in una parrocchia, è avvertito o paventato
dai più - credenti e non - come un fattore d’impoverimento di tutta
la comunità, anche sotto il profilo sociale.
Così i 250 preti affluiti
lo scorso mercoledì al Colle Don Bosco, per l’XI convegno regionale,
assieme allo staff dei Vescovi piemontesi quasi al completo, hanno accettato
di mettersi davanti allo specchio, o di sottoporsi alla lente d’ingrandimento
degli studiosi di scienze sociali.
Sempre di meno, sempre più
anziani
E’ il dato evidente, analizzato
dalla ricerca di “demografia sacerdotale”, condotta dalla Fondazione Agnelli,
sui tremila preti della Regione Pastorale piemontese (corrispondente grosso
modo, ma non esattamente, a Piemonte e Valle d’Aosta). Il primo dato esaminato
è quello dell’invecchiamento: 63/64 anni è l’età media
dei preti piemontesi, dieci anni in più dell’età media della
popolazione piemontese maschile oltre i trent’anni (i due dati che possono
essere messi direttamente a confronto). Molti dei loro coetanei si stanno
godendo (si fa per dire), da anni, la pensione. Il divario d’età
e d’esperienza risulta ancora più evidente, se si considera che
l’età media del lavoratore “attivo” piemontese è di quarant’anni.
Quanto alla distribuzione del clero
sul territorio, la “densità”, in Piemonte, è di 0,64 preti
per mille abitanti. Dato molto fluttuante da diocesi a diocesi: si va dallo
0,32 di Torino, all’1,53 di Mondovì. Interessanti (o preoccupanti)
le proiezioni sul futuro: assumendo come stabili il numero annuo
di ordinazioni (25 ogni anno, in tutto il Piemonte) ed altri dati, nell’arco
del prossimo ventennio, si profila, nella nostra diocesi ed in quelle vicine,
un dimezzamento dell’organico. Metà dei preti, rispetto al numero
attuale. Aumenta contestualmente la quota dei “grandi vecchi” (con ottant’anni
e più): dal 16% attuale si passerebbe, in dieci anni, al 21%. Con
tutti i problemi che si possono presentare (inabilità, non autosufficienza,
salute precaria, accoglienza e cure in strutture adeguate...).
Come si vedono
Come gli interessati percepiscono
la loro missione e condizione, nella Chiesa e nella società d’oggi?
L’indagine sul clero in Italia condotta dall’Eurisko, su un campione d’ottocento
preti italiani, e commentata da Franco Garelli (nel volume intitolato “Sfide
per la Chiesa del nuovo secolo”, Ed. Il Mulino) fornisce alcuni dati interessanti.
L’ipotesi che “guida” la ricerca è che “il prete non sia solo l’uomo
del sacro, ma un acuto sensore delle dinamiche del nostro tempo”, “un termometro”
con cui osservare e misurare i cambiamenti in atto nella Chiesa.
Indagine, dunque, sui preti, ma,
nel contempo, sulla Chiesa, osservata con i loro occhi. In primo luogo,
essi hanno una visione e danno una “valutazione generalmente «possibilista»”,
circa le sorti della fede in Italia, anche se non mancano “difficoltà
ad orientarsi” nello stadio attuale della “modernità avanzata”.
Le sfide più gravi sembrano venire non dall’esterno (altre religioni
in arrivo...), ma dall’ “interno”, cioè dall’incapacità “ad
interpretare il messaggio religioso (cui si riconosce ancora un grande
valore, sull’onda del magistero di Papa Wojtila) sulla lunghezza d’onda
della sensibilità contemporanea”.
Si assiste, in pari tempo, ad una
“tendenza a ridurre il proprio campo d’azione”. A che cosa? Soprattutto
“all’impegno a ricostruire il tessuto sociale che fungeva, un tempo, da
supporto alla proposta cristiana”. I preti sono generalmente convinti,
soggiunge Garelli, che l’età della cristianità di massa è
finita, ma, di fatto, “operano come se il cattolicesimo fosse ancora maggioranza,
«religione di popolo» e non di élite”.
Ed ancora, la missione sacerdotale
è vissuta dentro ad un cattolicesimo con forte timbro parrocchiale.
Data per superata da alcuni, qualche decennio fa, ora “la parrocchia si
riprende la sua rivincita”, come “luogo per eccellenza dell’attività
religiosa di base”. Per i preti, essa è ben più di luogo
di lavoro, “è la «casa», luogo determinante per la propria
identità”.
Il forte consenso accordato alla
parrocchia non significa, però, “santificazione”, approvazione incondizionata
dell’esistente. Non mancano critiche al rischio della burocratizzazione,
a danno della possibilità di costruirla e di sperimentarla come
“luogo reale di vita cristiana”. Né mancano rilievi critici alle
domande che la gente rivolge alla parrocchia: domande di socializzazione,
o sull’accoglienza parziale che essa riserva alle sue proposte. Si chiedono
alcuni sacramenti e non altri!
Il rapporto con il territorio -
punto di forza dell’istituzione parrocchiale - non manca di sollevare problemi:
da una lettura del territorio fatta accentuando a dismisura il “baricentro
parrocchiale” (i preti tendono a leggere i bisogni del territorio attraverso
le “lenti” della parrocchia), alla tendenza, conseguente, ad orientare
e a formare laici più per bisogni “interni” (catechesi, volontariato...),
che in vista dell’assunzione di responsabilità in ruoli sociali
e professionali. Con il rischio di una Chiesa “che si riduce sempre di
più nello spazio protettivo del suo ovile”.
Idea di prete, visione di
Chiesa
Non c’è dubbio, osserva don
Duilio Albarello (Studio teologico di Fossano), che esiste una stretta
correlazione fra l’idea del prete e la visione che ci si è fatti
della comunità cristiana (ideale e reale). Se s’immagina il prete
come “l’uomo della solidarietà”, ci si attende, intorno a lui, una
comunità come “agenzia etica”, impegnata soprattutto nel sociale.
Se il prete è visto soprattutto come “l’uomo del rito e del sacro”,
la comunità corrispondente è quella che svolge un compito
di “intermediazione religiosa”, secondo i bisogni del momento (religiosità
confinata in alcuni momenti di “passaggio”). Se è visto (e ci si
attende che sia) “l’uomo delle relazioni”, si sarà portati a pensare
o a sognare una comunità come “oasi, nido protettivo”, in cui confortarsi
e ricaricarsi...
Rispetto a queste verità
“parziali”, l’identità della comunità cristiana (e del prete)
va ancorata, secondo Albarello, al dato fondante del Nuovo Testamento e
della sua ri-lettura nel Concilio Vaticano II. Per la quale, la Chiesa
è la “convocazione di coloro che guardano a Gesù con fede”.
Non vi si appartiene per qualche circostanza occasionale, ma perché
si è incontrato Gesù Cristo e si è disposti a testimoniarlo.
La missione stessa della Chiesa non è finalizzata, in primo luogo,
ad “aggregare a se stessa, ma a far incontrare con Gesù Cristo”.
E’ al servizio di un mistero più grande.
Richiamata la finalità fondamentale,
occorre calibrare correttamente due obiettivi: la formazione dei credenti
a diventare “testimoni dell’evangelo”, e protagonisti attivi nella Chiesa,
e, nel contempo, l’impegno a garantire un’ “ospitalità religiosa”
a chi non si sente radunato per svolgere un ruolo da protagonista, ma,
non per questo, deve sentirsi trattato come “lontano” o “parassita”. Due
detti evangelici possono essere citati quali icone dei due orientamenti:
“Vieni e seguimi” (la fede testimoniale), “Va’, la tua fede ti ha salvato”
(la fede salvifica).
Questo schema (che non va interpretato
in modo rigido) dice, insomma, le differenti modalità di partecipazione
alla chiesa, a cui l’attività pastorale quotidiana deve essere attenta.
Una pastorale che, di fronte all’individualizzazione oggi diffusa dei sentimenti
e delle scelte (l’ideale d’uomo spesso proposto è quello del single),
osa la personalizzazione della fede (senza scadere nell’individualismo);
un’attività pastorale che, di fronte al rischio del pragmatismo
(“l’importante è fare qualcosa!”), sa proporre istanze critiche
e di discernimento, dotandosi di strumenti culturali adeguati; una missione
ecclesiale che sa scommettere sul laicato, non solo come “massa di supplenza”,
o “protesi”, quando i preti non ce la fanno più, ma in vista di
una gamma di “ministeri laicali, su mandato ecclesiale”, dentro ad una
“pastorale d’insieme”.
Una visione del genere di una comunità
più articolata può offrire qualche correttivo alle tendenze
in atto che vedono, ad es., il prete impegnato in più parrocchie
in un ministero spesso itinerante, come un “nomade del culto”. O quelle
che tendono a configurare il prete come colui “che si limita a formare
i quadri”, o fa “l’impiegato ecclesiastico”.
Ancora una volta il modello di prete
- che si desidera o si teme - non si può separare da quello della
comunità che egli è chiamato a servire e a costruire.
d.p.a.