Com’era verde, un tempo, la Soana:
questo è il primo pensiero che mi viene in mente guardando dal “punt
dla fëiterìa” il torrente oggi blindato tra alti argini pietroso-cementizi.
Eppure son passati nemmeno quindici
anni da quando, affacciandosi dal parapetto del ponte e guardando verso
monte, si apriva agli occhi del passante (e del turista) lo scenario di
un torrente allora ancora in gran parte “naturale”, con un’esuberante vegetazione
fluviale che ne dipingeva di verde le rive e sembrava quasi invitarti,
nelle afose giornate estive, a scendere per un po’ di refrigerio sulle
sue ombrose sponde.
Ma adesso, francamente, la Soana
(e in parte anche l’Orco) qui a Pont sembra essere diventata all’incirca
un “canale”, una specie di autostrada per l’acqua impetuosa che precipita
dalla valle sovrastante e che, in caso di “bûra” (piena del fiume),
arriva giù velocissima tra i suoi bei (si fa per dire...) argini
in pietra, senza però più potersi espandere e calmare da
nessuna parte. Le mie, ovviamente, sono solamente le semplici considerazioni
di un pontese che oggi guarda il “suo” torrente e stenta a riconoscerlo:
però adesso la Soana, chiusa tra le sue alte sponde, sembra essere
diventata più distante, quasi fosse un elemento estraneo nel corpo
vivo del paese, e camminare nel suo letto sassoso produce quasi un effetto
claustrofobico.
E, guardandola dal “punt dla fëiterìa”,
mi sorprendo a chiedermi che ne direbbe di tutto questo Carlo “‘l pëscadur”,
uno dei mitici personaggi di una vecchia Pont che non esiste più,
virtuoso dell’amo e della lenza, che nel lungo abbraccio liquido tra l’Orco
e la Soana ha trascorso, forse le ore più belle ed intense della
sua vita, tra salici e trote guizzanti, in quegli stessi luoghi che ora
sono stati praticamente “murati vivi”. Sembra solo ieri quando noi ragazzi
lo vedevamo tornare dal fiume con la sua andatura spedita ma altalenante
nei lunghi stivali da pescatore, ed immancabilmente la nostra domanda era:
“Carlo, tiè piàa quei trûta?”, e lui, con un accenno
di sorriso nascosto dai baffi, ci mostrava con orgoglio le sue prede ancora
profumate di fiume, di pietre muschiose e acque fredde e limpide dei ghiacciai
del Gran Paradiso.
Già allora, ovviamente, la
“bûra” dell’Orco e della Soana faceva paura, ma forse era accettata
con una dose maggiore di fatalismo, come qualcosa di ineluttabile che ogni
tanto Madre Natura ci mandava per provare la saldezza dei nostri polsi
e, magari, anche dei nostri ponti!
Ma dove un tempo c’erano i prati
e le rive boscose, periodicamente invasi dalle acque in piena, oggi ci
sono piazze, e noi ci troviamo qui a Pont a guardare il torrente Soana
dalla sommità di argini giganteschi, tanto che quasi ovunque non
è più possibile scendere sulle sue rive.
E adesso, quasi per una sorta di
“pentimento”, si parla di realizzare un “attracco per le canoe” proprio
nella zona della “fëiterìa”, che colleghi il nuovo piazzale
al torrente: ma, con tutto il rispetto per tale lodevole iniziativa, mi
sembra una ben misera contropartita per quella Soana verdeggiante che ci
è stata sottratta per sempre, per far posto a una piazza che ospiterà,
pare, la sosta dei camper e tavoli da picnic.
La verità è che, in
questo giro di boa del nuovo millennio, abbiamo definitivamente reciso
il cordone ombelicale che ci legava ai nostri fiumi con un complicato rapporto
di amore e odio, trasformandoli in sterili canali da osservare distrattamente
dall’alto, quasi contenti di averli (definitivamente?) domati e messi in
gabbia come belve feroci.
Ma, da inguaribile nostalgico, passando
sul “punt dla fëiterìa” e vedendo quel triste deserto
di pietre verticali ed orizzontali, non potrò impedire alla mia
mente di pensare a com’era verde, un tempo, la Soana.
marino pasqualone