Secondo i capricci della primavera,
anche allora l'inizio della fienagione avveniva a ridosso della luna di
maggio oppure in quella dopo: periodo in cui il fieno era, per così
dire, in falce. L'inizio delle attività fienarole erano segnalate,
da anni ormai, sia da Paolin tre Giachë1 che dall'aspetto rigoglioso
del Prato della Pietra Storta conosciuto, ai più, come ël Prà
dla Lòsa Uèrsa. Di proprietà del dotor Caglia-disachel,
il prato - in quei favolosi anni cinquanta - era accudito, in comodato,
proprio dal segaligno Paolin tre Giachë. Quasi fosse un capobanda,
era lui a dare il là per l'inizio dei lavori anche se a dirla tutta,
e dirla sottovoce, non sarebbero mancati altri referenti. Ad ogni buon
conto, si sa, le tradizioni e le consuetudini in quelle che erano le nostre
piccole comunità rurali avevano le loro regole che, come aussesse
a tre bòt2, di rado venivano infrante. Il via ai lavori iniziava
dall’allestimento degli attrezzi: rastrelli, funi, forche, mole e qoer3,
affilatura - o martellatura - delle falci, oltre che a tutto quell'armamentario
di arnesi del tipo fàit parèj e parèj da cui
si deduce che si è perso, per quelli più umili e sprovvisti
di blasone, anche il nome. A seconda del carattere della falciatura - piena
oppure di ribatto - si sceglieva il tipo di ranza5: la Turca per
le operazioni di ribatto, l'Alpina - un palmo più lunga e due dita
più larga - per i prativi e-stesi come quello del Prà dla
Lòsa Uèrsa. Oltre alle falci fienaie si preparavano anche
le falci messorie - miolet - da utilizzare nei luoghi angusti dove anche
la Turca sarebbe stata eccessiva. Con un fascino alimentato da un'armonia
ricca di una gestualità tanto essenziale quanto misurata, l'operazione
di martellatura - iniziava di prima mattina pròpi là, an'tal
Prà dla Lòsa Uèrsa6. La metodicità del Paolin
tre Giachë nell'operazione di martellatura, vero esperto in materia,
era particolarmente rilevabile dalla cura con cui sceglieva il luogo adatto
alla bisogna, e lo sceglieva proprio in prossimità dell'accesso
dël Prà dla Lòsa. Sul punto prescelto, che era poi -
tant për nen sbaglié7 - quello degli anni precedenti,
Paolin, eccetera eccetera, posava la solita giacca blue-fabbrica sùl
pruss8, quello poco discosto dall' ingresso, sistemava un fascio d'erba
sotto il sedere, ed impiantava l’airola9 nel terreno sino a conferirle
la rigidezza necessaria per il suo successivo utilizzo. Con l'estremità
larga della falce appoggiata sul ginocchio sinistro, il lato filo rivolto
a sé e l'altra estremità, quella appuntita in appoggio sull'apposito
piano di lavoro dell'airola, Paolin tre Giachë dava inizio all'operazione
di martellatura vera e propria; questa, oltre che da un sordo mugugnare
che era quasi un grugnire, era anche accompagnata da un continuo cicoté10
che offriva, all'estroso individuo, un ulteriore caratterizzante elemento
da renderlo ancor più personaggio. Che poi il fine ultimo dell'operazione
consistesse nell'assottigliare, per tre o quattro millimetri il metallo
della falce lungo tutto il filo - dove questo viene a contatto con il fieno
da tagliare - beh, noi lo sapevamo da sempre. Oltre al Paolin tre Giachë,
maestro in quell'arte vi era anche Berto dla Rin-a11. Se il primo eccelleva
nella maggior frequenza dei toc, toc, toc, il secondo, oltre che per una
più fluida regolarità e accuratezza nell'espletarla, si segnalava
anche per l'armonia dei gesti. Nel corso dell'operazione il grado d'affilatura
raggiunta veniva, di quando in quando, verificato sottoponendo il filo
della ranza alla prova dell'unghia. Sottopostolo alla prova, quei tre o
quattro millimetri di filo indicavano, ad un tempo, due aspetti tra loro
contrapposti ma fondamentali: grado di affilatura e integrità della
lama. Era in concomitanza con l'affilatura della parte più
larga, quando ormai l'estremità più stretta appoggiava sul
ginocchio destro, che le sonorità gravi - i “tlac, tlac, tlac” -
segnalavano, con qualche anticipo, la fine dell'operazione. A secondo del
marchio di eccellenza e dello stato d'usura della stessa falce, l'operazione
ben di ra-do era completata in meno di mezzora. Se poi quell'infinita serie
di tic, tic, tic e tlac, tlac, tlac fosse spesso accompagnata dai mattinieri
chiricchichì dei galli di borgata in perenne competizione tra loro,
oppure dal petulante abbaiare del solito Zor dall'altro estremo dal Prà
dla Lòsa Uèrsa, ciò lasciava del tutto indifferente
il più volte citato Paolin eccetera, eccetera. Finita l'operazione
di affilatura la falce era montata sul falker 12 e orientata in modo tale,
che con l'impugnatura per la mano sinistra in appoggio sul ventre, la punta
della falce avrebbe dovuto descrivere, rispetto all'estremità opposta,
un cerchio virtuale di circa quattro dita inferiore; insomma, complicanze:
ma fioj, gnente paura! 13 Con gli ampi prati del suo podere,
solo Gilindo dle vigne14 poteva impiegare - per le operazioni ine-renti
alla falciatura - quelle meraviglie di macchine falciatrici da rimanere
a bocca aperta. Trainate da gioghi di mucche, rano proprio loro, le macchine,
a destare in noi ragazzi interesse e stupore. Affascinati dal caratteristico
metallico ciarlare che la lama sapeva esprimere durante la fase di falciatura,
ci avvicinavamo al marchingegno e, quasi fossimo a concerto, ascoltavamo
con orecchio attento quelle alternanze fatte di allegri crrrrrr e lenti
clack, clack, clack. Questi, nel loro susseguirsi indicavano ad un tempo,
non solo i rallentamenti, ma anche le complesse manovre a cui era sottoposta
quella meraviglia da fine del mondo. Entusiasti per quei marchingegni falcianti
seguivano, tra noi ragazzi, accesissime discussioni da piesse a bòte15
e da far impallidire persino quelle che si facevano su Toro e Juve.
Se poi le nostre spiega-zioni sul funzionamento dei marchingegni falcianti
erano lacunose e spesso, diciamolo pure, paurosamente inconcludenti, evidentemente
vi era una ragione in più per fare domande. Ma che era poi questo
giunto cardanico? Il parastrappi? Più che Paolin tre Giachë,
era il buon Bertò dla Rin-a - con la sue ben note capacità
spiegoire16 - a toglierci d'impaccio. Al delicato piacevolissimo profumo
delle rose e quello del caprifoglio, con la fienagione in atto era la borgata
stessa a odorare di bellezza e di vita. Una bellezza agreste fatta di sudori,
di fieno e di buon umore al punto, che anche al taciturno Giovanin al bechin17
ritornava il buon umore. Tra i profumi da favola eccellevano, con un loro
specifico imprint, i foraggi del Truch ëd la Cesa e alcuni del
podere ëd CaDòra: aromatizzati al timo i primi, alla menta,
i secondi. Sia per la sua lunga esperienza di bracciante su tutti i prativi
della borgata che per le sue capacità olfattive, il Nuffia, detentore
di tale nomignolo - che nel tempo aveva assunto l'onorifico titolo di Cavajer
18 - era quello che in borgata, di un carico di fieno riusciva a riconoscere
dall'impronta odorosa, addirittura la località di raccolta. Se poi
il Nuffia non impiegasse questa sua innata caratteristica nella lucrosa
ricerca dei tartufi - da nen confondie con i tupin-abò19 -
era semplicemente da ascriversi all'assenza dell'aureo tubero dalle nostre
zone. E così, per sette giorni, in borgata era un menare di falce,
di rastrello e di forca. A queste partecipavano un po' tutti i borgatari.
Se il falciare era di esclusiva prerogativa maschile - non si parlava ancora
di par condicio - le successive operazioni, quelle svolte con l'impiego
di forche, rastrelli forchin e fioré20, erano, quasi fossero cose
da nulla, in prevalenza attività femminili. Provviste di carat-teristici
copricapi di paglia o caplin-e a larga tesa, con sbracciature e scolacciature
non da confessionale, erano proprio loro, le donne, a svolgere le fasi
inerenti al processo di essiccazione e sempre - ricordo - con allegra partecipante
efficienza. Ciò che stupiva in tutto ciò, non era tanto
lo stato di essiccazione del fieno che, come primo taglio doveva risultare
né troppo secco né troppo verde, quanto lo stato di arrossamento
di quelle membra così a lungo esposte al sole; erano braccia, gambe
e colli di un bel rosso carminio quanto mai in contrasto - è il
caso di dire - con quello che sino ad allora era, per cite, tòte
e madamin21, di virgineo bianco candore. Sul tardo pomeriggio, seguiva
l'operazione d'abbicatura che poteva essere, secondo la brezza prevalente,
parziale - an'quarolé22 oppure totale an'taplé23. Con
Giove Pluvio in vacanza e con un'ottima abbicatura, l'attività fienarola
si risolveva in pochi giorni. Quella del si-stemare il fieno sui carri
era, quasi fosse una prova d'esame, un'operazione svolta con cura particolare.
Così, al giogo delle solite mucche tuttofare, rigonfi di fieno e
lisciati come figurini, i carri lasciavano i campi e pigramente si avviavano
verso casa. Il loro, era un progredire caratterizzato da un'andatura lenta
e dondolante tipica, oltre che dei filosofi, anche delle mucche sottoposte
al giogo che appunto, ruminanti e filosofanti affrontavano le ultime fatiche
della giornata. Tra gli elementi che contribuivano a determinare l'eccellenza
del raccolto vi erano, il colore, il profumo e il grado di essiccazione.
Colore oliva in contrapposizione al pajarin24; profumo caratteriz-zante
in contrapposizione all'assenza o peggio al profumo d'ammuffito; basàn,
invece di troppo secco o troppo verde. Che poi il basàn fosse valido
per il primo taglio solo së sfrisa an man25 e non troppo secco
per il secondo taglio, la ragione di ciò beh, lo sapevano solo alcuni:
io no. Era nel corso della sistemazione del fieno sulla tëppa26
in fienaia che noi ragazzi ci aggregavamo agli adulti per partecipare alle
relative operazioni. Che poi il Paolin tre Giachë, fosse uno tra i
maggiori beneficiari di quella manovalanza un po' bislacca che noi ragazzi
rappresentavamo, ciò era dovuto, forse, a quel primaverile richiamo
rappresentato dalle figlie di costui: Rosvanna e Anna. Era un richiamo
ricco di naturalezza e semplicità. Così, mentre alcuni di
noi ragazzi trasferivano il fieno dai carri alla tëppa ostentando
bicipiti e glabri torsi e finanche settecipiti (!), altri, giostrando in
tondo sulla stessa tëppa la rendevano, non solo più compatta,
ma nel processo facilitavano lo stoccaggio alle forcate successive. In
questo giostrare in tondo, a noi ragazzi spesso si univano le ragazze le
quali, attratte come noi dai profumi di timo, di menta e di caprifoglio
e fantasie, finivano poi anch'esse per arricchirsi oltre che con i sapori
della vita, anche con i profumi della poesia.
alessandro crotta
1) soprannome - Paolino delle
tre giacche; 2) darsi la sveglia alle tre; 3) cote e portacote;
4) fatto così e così (descrizione gestuale per non conoscere
- oppure dimenticato - il nome); 5) falce fienaia; 6) proprio là
nel Prato della Pietra Storta; 7) per non sbagliare; 8) sul pero;
9) battifalce (sorta di incudinetto); 10) masticare tabacco;
11) Berto marito di Rina; 12) portafalce (struttura composta di asta centrale
con due impugnature); 13) ma ragazzi, niente paura; 14) Gilindo,
quello delle vigne; 15) prendersi a botte; 16) di spiegare; 17)
becchino; 18) Cavaliere; 19) da non confonderli con i (Helianthus
Tuberosus) topinambour; 20) tridente; ampio telo quadrato (generalmente
di iuta) provvisto di legacci ; 21) ragazzine, signorine, spose;
22) modo raccogliticcio di disporre il fieno a file; 23) disporre il fieno
a mucchi; 24) (colore) paglierino; 25) solo se si sminuzza nella
mano; 26) (dicesi di) fieno accatastato in fienile.