La ricorrenza odierna ci suggerisce
di rivisitare quel 25 aprile di 58 anni fa alla luce di fatti recenti,
compresa la guerra in Iraq di questi giorni. E' giusto parlare di Iraqi
freedom , di guerra di liberazione, a proposito dei fatti recenti accaduti
in Iraq? A questo riguardo è, forse, utile sviluppare alcune considerazioni.
1. Il processo che ha portato
alla caduta del regime di Saddam e alla difficile ricostruzione di un nuovo
regime, grazie al pesante intervento militare angloamericano, può
chiamarsi guerra di liberazione solo se è riconosciuta come tale
dal popolo iracheno. Le dichiarazioni "né con Saddam, né
con Bush" tradiscono, forse, la soddisfazione per la caduta di un regime
oppressivo, ma non il riconoscimento agli anglo-americani del ruolo di
liberatori. Da dove passa la linea di confine che delimita una guerra di
liberazione, da un'aggressione-occupazione militare? Il criterio è,
ancora una volta, fornito dal Pontefice che nel messaggio di Pasqua ha
auspicato: "Con il sostegno della comunità internazionale, gli Iracheni
diventino protagonisti d'una solidale ricostruzione del loro Paese". Ogni
parola è evidentemente 'pesata': il diritto degli Iracheni di gestire
il proprio futuro politico, il ruolo delle altre nazioni... Altrimenti
non si può parlare d'altro che di aggressione, invasione, instaurazione
di un nuovo dominio e di nuovi dominatori.
2. Il traguardo auspicato
- l'instaurazione di un regime democratico in Iraq dopo la caduta della
dittatura - non può prescindere dalla valutazione della via attraverso
cui arrivarci. E qui le analogie (e le differenze) con la guerra di liberazione
in Italia saltano agli occhi. E' vero: l'antifascismo italiano non fu pacifista.
I partigiani imboccarono la via della guerra, e ricevettero dall'esercito
americano un aiuto decisivo. Il problema è interessante: come conciliare
antifascismo e pacifismo?
3. Rivisitare un fatto del
passato, collocandolo nel suo preciso contesto storico, non ci dispensa
- quando si vogliono istituire confronti e parallelismi - dal prendere
in considerazione quello che è accaduto dopo. In primo luogo, il
fatto che l'evoluzione tecnologica ha messo nelle mani di chi fa la guerra
(di ogni guerra, anche di liberazione nazionale, in vista della libertà
e della democrazia) un potenziale distruttivo infinitamente superiore rispetto
al passato. Intraprendere una guerra, valutandone gli aspetti etici
ed umani, non può mai esimere dal domandarsi: ne vale la pena? Non
vi sono, davvero, altre vie non violente di opposizione e di insurrezione
popolare nei confronti di regimi iniqui? Fin dai tempi di san Tommaso,
nel lontano Medio Evo, ci si poneva la domanda sulla liceità del
ricorso alla violenza per abbattere un tiranno. Ma altra cosa era un 'insurrezione
con archi e frecce, altra cosa una guerra combattuta con tanks e
bombe cosiddette intelligenti.
Il 25 aprile resta una pagina di
grande storia, da preservare da ogni stravolgimento revisionista: ma non
si può fare della guerra partigiana e dell'antifascismo un
feticcio intoccabile, e un modello di scelte obbligate per il futuro...
piero agrano