IVREA - Non sanno disegnare altro
che carri armati e missili, i ragazzi palestinesi cresciuti in questi anni,
fra bombe, intifada e rappresaglie. Niente sole con i raggi dorati, e aquiloni
svolazzanti. Lo sapevamo già, e tuttavia lo risentiamo con emozione
da padre Sciauki (o qualcosa del genere, non possiamo garantire riguardo
la corretta traslitterazione dall'arabo, di questo nome che significa "mio
desiderio"), il giovane sacerdote palestinese che ha accompagnato Mons.
Michel Sabbah, Patriarca latino di Gerusalemme e presidente di Pax Christi,
nella sua visita ad Ivrea.
"In pulchritudine pacis", recita
il motto episcopale di Mons. Sabbah. Una "bellezza” contemplata solo da
lontano, assaporata troppo poco, e tuttavia invocata e attesa con speranza.
E di pace Sabbah è venuto a parlare a Ivrea, nel contesto della
drammatica crisi mediorientale, israelo-palestinese ed irachena, nello
stesso tempo.
Al migliaio di giovani studenti,
affluiti nella mattinata di mercoledì all'Officina H, il Patriarca
ha ricordato che la pace "è nelle mani vostre e dei vostri governi";
che vi è una responsabilità che travalica i due contendenti
e si riflette sulla comunità internazionale. Nonostante tutte le
delusioni "la pace è ancora possibile, ‘deve’ essere possibile":
con forza il Patriarca ha evidenziato come la soluzione ai conflitti si
avrà solo in sede internazionale, poiché "ogni conflitto
ha una dimensione ormai mondiale".
Mons. Sabbah ripercorre le tappe
fondamentali della crisi: dalla proclamazione dello stato ebraico in Palestina
(1948), che ha portato all'annessione di molte città e villaggi
palestinesi (78% dell'intero territorio), alle guerre successive con particolare
attenzione a quella del 1967, allorchè si è determinata l'occupazione
militare senza annessione formale del restante 22% del territorio. Il dramma
palestinese viene, allora, a porsi proprio in questa richiesta mai soddisfatta
di poter riavere e abitare la propria terra, di poter vivere in libertà
e autodeterminazione nel proprio stato. Nei territori occupati i palestinesi
non godono di alcun diritto, racconta il Patriarca, vivono come prigionieri
nelle proprie città e villaggi, sottoposti a rappresaglie, coprifuoco
e limitazioni continue. Inevitabile, in questo contesto, che le popolazioni
subiscano una crisi economica avanzante, con la drastica diminuzione delle
possibilità di lavoro: solo il 30% dei palestinesi gode di un reddito
regolare. Gli altri sono costretti a un'economia di sopravvivenza e a confidare
negli aiuti umanitari.
In questo stato d'occupazione militare
e oppressiva, il terrorismo rappresenta la forma deprecabile di una resistenza
violenta e disperata. Ma, osserva Mons. Sabbah, non si può confondere
la causa con l'effetto. Né enfatizzare la questione - peraltro comune
- della sicurezza, ponendola, come avviene da parte dell'amministrazione
israeliana, come questione assolutamente prioritaria (secondo il famoso
assunto "prima garantiamo la sicurezza, poi si parlerà di pace"),
al punto da ignorarne le implicazioni per una pace nella giustizia. "Israele
ha vinto tutte le guerre - osserva Sabbah - ma non ha vinto la pace". Non
l'ha conseguita come bene duraturo, anzi ha visto crescere intorno a sé
i nemici, e dentro di sé la paura e l'insicurezza. L'ostilità
diffusa nel mondo arabo costituisce davvero una minaccia permanente per
Israele e provoca la sensazione rassegnata "che si è condannati
a vivere in guerra; perché la sicurezza si ottiene solo dalla vittoria
in guerra". La questione essenziale è, dunque, quella di una giustizia
violata, di una domanda di libertà e di autodeterminazione, dentro
i confini del proprio stato, ancora inevasa. Gli effetti della seconda
intifada e della repressione israeliana sono evidenti anche sotto il profilo
delle condizioni economico-sociali: allo stato di precarietà in
cui vive la maggioranza dei palestinesi si aggiunge, di recente, il diffondersi
di sacche di povertà più estese e frequenti nella stessa
società ebraica.
Alla crisi israelo-palestinese non
è estranea quella irachena: "L'Iraq poteva costituire l'unica minaccia
per Israele nel Medio Oriente". Le due crisi sono intrecciate, e le ripercussioni
dell'una sull'altra (e delle soluzioni che saranno raggiunte a fine conflitto)
inevitabili.
Da questo punto di vista, la stessa
figura di Arafat non può essere sopravvalutata, dal momento che
il potere decisionale di fare la pace è posto, in larga parte, nelle
mani della leadership israeliana. Di questa Sabbah auspica un ricambio
profondo, sì che possano emergere uomini di pace, capaci di dar
voce e di sostenere le istanze pacifiste presenti nella società
israeliana e le rivendicazioni di entrambi i popoli.
Interessante è stato anche
il passaggio riguardante il cammino di democratizzazione della società
araba. Sollecitato in merito da uno studente, il Patriarca ha fatto notare
che l'occidente deve comprendere come il cammino delle democrazie arabe
ha alle spalle non più di 80 anni, così che la sedimentazione
dei valori non è ancora avvenuta, ma risulta in progresso.
Nell'incontro serale, anche questo
tenutosi in un'Officina H gremita, è stato chiesto a Mons. Sabbah
quale sia la missione della Chiesa palestinese (non esiste infatti una
Chiesa israeliana, almeno a livello visibile). Innanzitutto di fedeltà,
è stata la risposta; fedeltà nella propria appartenenza al
popolo palestinese, ai suoi drammi e alle sue lotte ("Non esiste Chiesa
senza radicamento in un popolo!"), e anche di testimonianza resa
a Gesù nella sua terra. C'è una missione caratteristica per
la piccola (numericamente) comunità cristiano-palestinese. Missione
di testimonianza disarmata e minoritaria, in un difficile compito di mediazione
e riconciliazione fra due popoli. Monito a ogni tentativo di fare di quel
conflitto una guerra di religione, e pretendere per le proprie iniziative
belliche il marchio di Dio.
"Dio benedica l'America",
è l'invocazione di Bush citata provocatoriamente da uno studente
nel vivace dibattito. "Ma Dio non benedice la guerra dell'America", ha
replicato lesto il Patriarca.
"La pace nella giustizia non la
si vede ora, umanamente - ha concluso Mons. Sabbah -, se ne ha paura. Ma
non si può smettere di sperare. Perché è l'unica possibilità
di sopravvivenza". Per i palestinesi e gli ebrei. Per tutti.
d.p.a.-d.s.f.