MAGNANO - “Dico a tutti: c’è
ancora tempo per negoziare, c’è ancora spazio per la pace; non è
mai troppo tardi per comprendersi e per continuare a trattare”. Citando
queste parole, dette dal Papa all’Angelus, fr. Enzo Bianchi ha introdotto
la meditazione che ha concluso la giornata di preghiera e di riflessione
sulla pace, svoltasi nel monastero di Bose la scorsa domenica. Una meditazione
che ha commentato l’asserto biblico, recentemente citato dal Card. Martini:
“Opus justitiae, pax” (Is. 32,17). La pace è frutto di giustizia.
Non c’è pace se regna l’ingiustizia,
il sopruso, l’oppressione. La radice dell’ingiustizia, ha proseguito il
priore di Bose, “sta in un fuorviante rapporto con gli uomini che rivela
una contraddizione più profonda, nei rapporti con Dio”. Ecco perché
nella Bibbia Geremia accusa Jioiaqim, che “non pratica la giustizia” di
“non conoscenza di Dio” (Ger. 22,15).
Il dono divino della pace, lo shalom,
la vita piena e buona, richiede, come condizione, che “i credenti predispongano
ogni cosa, perché sia segnata dalla giustizia”.
La giustizia umana deve riferirsi
a quella divina, come al suo modello originario. E, per Dio, la giustizia
è fedeltà all’alleanza. Per contro, le ingiustizie commesse
dagli uomini suscitano un movimento di partecipazione, di com-passione
di Dio con le vittime dell’ingiustizia. Come diceva un grande interprete
del pensiero ebraico, Heschel, “per Dio sono delle sventure”. La bibbia
segnala altresì il rischio di presentare un’immagine contraffatta
della pace: l’ingiustizia ammantata di opulenza (Ger. 6,14; 8,11; Ez. 13,11).
La congiunzione fra pace e giustizia,
nella rivelazione divina, non va dimenticata né attenuata. Eppure
sarebbe errato invocare o pretendere che questo nesso sia affermato da
Dio, con forza, qui ed ora. Dio non interviene nella storia presente per
castigare. Il giudizio è posto alla fine. “Qui sulla terra, aggiunge
Enzo Bianchi, raccogliamo semplicemente il frutto del nostro operare”.
Resta, in ogni caso, l’esigenza
che la giustizia violata sia ristabilita, a cominciare dalla difesa da
assicurare alle vittime. Come, però, ristabilire la giustizia violata?
“Non è ammissibile - prosegue
il priore di Bose - voler ristabilire la giustizia con atti di rappresaglia
che assomigliano piuttosto alla vendetta. Rispondere al terrorismo con
la guerra è andare ben al di là dei diritti alla legittima
difesa!”.
Certo, dire semplicemente “no alla
guerra!” non basta. Occorre ricercare vie praticabili di compromesso, senza
alcun “fondamentalismo pacifista”.
C’è un ulteriore passo da
fare, ispirato al messaggio per la pace, inviato dal Papa lo scorso anno.
Se la nostra giustizia deve prendere la forma di quella di Dio, essa non
può prescindere dal perdono. “Non si può pensare sempre alla
giustizia in termini di antitesi al perdono”, come se fossero due realtà
inconciliabili. E questo è un elemento di novità nello stesso
magistero pontificio: il riferimento al perdono completa il rapporto pace-giustizia.
“La pace è, dunque, frutto di una giustizia che contenga il perdono”.
In questa “scoperta” papale - il Pontefice stesso l’attribuisce ad un confronto
personale con la Parola divina - “è il vangelo stesso della pace
che esige che il principio del perdono sia immanente, stia dentro a quello
della giustizia”.
Di norma, si ha del perdono una
visione circoscritta alle relazioni interpersonali, o interpretata come
prassi personale per chi cerca la santità. Il Papa chiede che diventi
“etica e cultura, cosicché si profili una politica del perdono espressa
in adeguati istituti giuridici”. Si comprende ora, alla radice, il senso
di tanti appelli del Papa, dall’anno giubilare fino a circostanze più
recenti. Richieste che concernono una “traduzione del perdono in termini
politici”, e non solo individuali. A questo si aggiunge la richiesta di
un’ “autorità mondiale”, sovranazionale che sappia proporre e garantire
vie di pacificazione.
Ora, invece, in presenza di un’unica
superpotenza, “la tentazione totalitaria è più ricorrente”.
Ancora il Papa richiama i credenti ad essere “sentinelle della pace”. E’
un contributo prezioso che i credenti possono recare alla compagnia degli
uomini, “in un momento di tenebra, quale l’attuale, in cui si preparano
per tutti anni difficili”. E’ facile prevedere, come conseguenza di questa
guerra, il risorgere in un “antioccidentalismo” che assumerà i tratti
di un “anticristianesimo”. Non si può eludere la domanda su come
si troveranno i tanti mussulmani che sono fra di noi, ed anche le minoranze
cristiane presenti nei territori a larga maggioranza mussulmana.
Di qui la preghiera per la pace.
Se da un lato misura la nostra debolezza, dall’altro una chiamata alla
preghiera per tutti i credenti può essere un segno di un certo rilievo.
Almeno per far vedere con forza che in questa guerra il cristianesimo non
c’entra. E che parlare di “crociata contro il male” è proprio fuori
luogo.
d.p.a.