Nel profondo nord dei boschi pontesi
c’è un ponte ferito a morte, ormai fragile come un castello di carte
che un soffio di vento appena più forte potrebbe far cadere da un
momento all’altro, ponendo così termine ad una lunga agonia iniziata
con l’abbandono da parte dell’uomo di un intero vallone della montagna.
Quel ponte di legno ormai fradicio,
sghembo e pericolante, consentiva di attraversare il Rio Bigio, che nasce
sulle alte pendici della Quinzeina, poco prima della sua confluenza nel
torrente Soana, e collegava il resto del mondo con un grappolo di case
chiamate Parì. Una piccola borgata, quest’ultima, aggrappata con
i suoi artigli di pietra sulle ripide pendici della bassa valle del Rio
Bigio: da tempo abbandonata, le sue abitazioni sono ormai in gran parte
in completo sfacelo, mangiate dai rovi che, dopo aver invaso senza incontrare
resistenza i pochi campi e prati che gli antichi abitatori di questo villaggio
avevano sottratto al bosco, hanno avvolto in un’inestricabile ragnatela
spinosa le stesse case.
Oggi, in questa antica borgata pontese,
posta a quota 680 metri e già citata in documenti storici risalenti
all’anno 1760, dell’uomo sono rimaste solo deboli tracce che la natura
sta sgretolando e ricoprendo d’oblio. La stessa mulattiera, che dal ponte
sul rio risaliva fino alla borgata, dopo pochi metri scompare tra rovi,
arbusti e recenti smottamenti del terreno, e per avvicinarsi alle case
del villaggio abbandonato è rimasto solo un incerto sentiero che
risale ripidissimo l’erta boscosa. E poi c’è - anche se, viste le
più che precarie condizioni del medesimo, sarebbe più corretto
dire “c’era” -, quel ponte arditamente gettato a valicare le limpide acque
del Rio Bigio, collegando la borgata Parì a quella di Raie ed al
paese di Pont Canavese. Ma ormai da tempo, per raggiungere il lato del
vallone dove giace quel che resta di Parì, i pochi viandanti sui
sentieri del passato si trovano costretti a dover “guadare” in qualche
modo il torrente, cosa non sempre agevole o possibile quando le piogge
prolungate o il disgelo primaverile fanno sensibilmente salire il livello
delle acque.
E così la borgata Parì,
già distante anni-luce dalla civiltà iper-tecnologica del
nuovo millennio, è diventata, in questo caso non solo metaforicamente,
ancora più lontana e fuori dal tempo, sospesa immobile nel suo passato
di mondo rurale alpino che ha ormai concluso il suo ciclo vitale. E proprio
quel ponte sul Rio Bigio, che oggi giace pericolosamente inclinato e senza
più mancorrenti nella forra boscosa, era forse l’ultimo legame tangibile
tra quel passato, vissuto tra le case oggi fatiscenti delle borgate alpine
abbandonate, e l’attuale “villaggio globale” consumistico che, grazie anche
alla potenza dei mass-media, sta omologando sotto le sue insegne futilmente
edonistiche l’intero pianeta, distruggendo culture diverse, lingue e tradizioni
millenarie. Quel ponte, sconosciuto o dimenticato negli angoli bui della
memoria, si trasforma e trasfigura dunque quasi in un simbolo del legame
con il passato culturale, sociale ed economico della nostra terra che si
sta definitivamente spezzando, in un’allegoria della lenta agonia della
civiltà alpina che scivola verso il suo ineluttabile destino. Prima
o poi, nel profondo nord muschioso e selvaggio dei boschi pontesi, in quel
vallone così vicino nello spazio ma diventato lontanissimo nel tempo,
un vecchio ponte di legno terminerà la sua esistenza nell’abbraccio
freddo e imperturbabile delle acque di un ruscello, con un tonfo sordo
che sarà presto assorbito ed annullato dall’intrico verde degli
alberi. E sarà l’epilogo di una storia antica, che l’uomo aveva
scritto anche in quest’angolo appartato e poco conosciuto della montagna
canavesana.
marino pasqualone