“Chi dimentica la storia è condannato a riviverla!”, ha scritto il poeta Satyana ai cancelli di Auschwitz. Anche la memoria della Shoah rischia di disperdersi nel vento, e non solo perché sono trascorsi alcuni decenni. Il 27 gennaio 1945 furono abbattuti i cancelli del lager più noto, quello di Auschwitz. Per quel giorno il Parlamento italiano ha istituito con un’apposita legge (la n. 211 del 20.07.2000, per l’esattezza) il “giorno della memoria”. Ma perché fare memoria dell’Olocausto e delle vittime del nazismo?
Il valore
della memoria
Non c’è dubbio che i protagonisti
conservarono indelebile la memoria di quanto avevano vissuto, sperimentato,
patito.
“Mai dimenticherò quella
notte - scrive Elie Wiesel in “La notte” - la prima notte del campo, che
ha fatto della mia vita una lunga notte, e per sette volte sprangata. Mai
dimenticherò quel fumo. Mai dimenticherò i piccoli volti
dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto
un cielo muto. Mai dimenticherò quelle fiamme che consumarono per
sempre la mia Fede. Mai dimenticherò quel silenzio notturno che
mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere. Mai dimenticherò
quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni,
che presero il volto del deserto. Mai dimenticherò tutto questo,
anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai”.
“Mai dimenticherò”, diventa,
per Wiesel, un ritornello martellante. Ma per chi non ha vissuto quelle
cose? Per noi? Come condividere quella memoria?
La memoria è una preziosa
eredità di Israele, per tutti. “Per il mondo ebraico - afferma Paolo
De Benedetti, che ne è un profondo conoscitore - la memoria è
come la famiglia. E’ il mio essere. E’ il mio collegamento con la storia,
con gli altri, con Dio. Senza la memoria io non sono. Ed è sempre
una memoria raccontata” (L’intervista a P. De Benedetti è pubblicata
su “Evangelizzare”, gennaio 2003).
La memoria
comandamento
La memoria non consente solo di rivivere delle emozioni. Va iscritta in un orizzonte etico. Infatti, è la condizione che ci è data per mantenere la fedeltà ad un impegno, per onorare una parola che abbiamo dato a Dio stesso. La “rivelazione” divina - osserva Abraham Heschel in “Dio alla ricerca dell’uomo” - è legata ad eventi ormai lontani, circoscritti nel tempo e nello spazio. “Se la rivelazione dura un istante, l’accettazione continua”, aggiunge lo scrittore giudeo-americano. Il ricordo di quanto Dio ha fatto configura, allora, un impegno: di accettare quell’inizio, farlo proprio, rendendolo attuale. Ecco perché la memoria diventa comandamento: “Ricordatevi per sempre del suo patto” (1 Cron 16,5). Sarà allora un caso che, nel nostro tempo, la scomparsa della memoria, in una civiltà centrata sul presente, vada di pari passo con l’attenuarsi di certi impegni di ordine morale? Ha senso ancora mantenere degli impegni, per tutta la vita?
La memoria
della Shoah
Custodire la memoria della Shoah?
Anche questo è un impegno etico. E’ la memoria di un’umanità
violentata, di cui s’era programmata la cancellazione. Gli Ebrei erano
destinati ad essere spogliati, seviziati, uccisi, destinati ai lager e
ai forni crematori, per il semplice fatto di essere nati tali, senza alcun’altra
colpa. Qui la memoria serve a mantenere viva una protesta, contro quanto
di disumano permane nel mondo, e a stimolarci ad una necessaria vigilanza.
Altre mattanze sono state consumate, nel silenzio, dopo Auschwitz, in altre
regioni del mondo (dalla Siberia, all’America Latina, alla Cambogia...).
Vi sono diversi modi - è
ovvio - di custodire una memoria. Un revanscismo rancoroso e vendicativo,
che non chiude mai con il passato, non è l’unico esito possibile.
Custodire la memoria serve ad apprenderne la lezione. Giova ricordarlo
in questi giorni, in cui si celebra ad Ivrea il gemellaggio con il centro
palestinese di Beit-Ommar, e la questione ebraico-palestinese è
più attuale e più drammaticamente intricata che mai.
Il giorno della liberazione dal
lager, racconta ancora Elie Wiesel, “il nostro primo gesto di uomini liberi
fu di gettarci sulle vettovaglie. Non pensavamo che a questo: né
alla vendetta, né ai parenti... Ed anche quando non avemmo più
fame, non ci fu nessuno che pensò alla vendetta. Il giorno dopo,
qualche giovanotto corse a Weimar a raccogliere patate e vestiti, e qualche
ragazza, ma di vendetta nessuna traccia”. Che sia un suggerimento valido
anche per il dopo?
d.p.a.