MAGNANO - Sulle pendici della Serra,
che da Magnano degradano verso Zimone, a pochi chilometri dalla linea di
displuvio che separa il Biellese dal Canavese, si trova una località
il cui nome ha, da alcuni decenni, varcato i confini locali. Si tratta
di Bose, e della Comunità monastica ecumenica che vi si trova, a
pochi passi dall’abitato di Magnano e della chiesa di San Secondo, esemplare
splendido ed integro di una tradizione architettonica - il romanico piemontese
- che ha lasciato notevoli testimonianze, al di qua e al di là della
Serra.
Le origini della comunità
di Bose ci riportano inevitabilmente al singolare itinerario spirituale
del suo fondatore, fr. Enzo Bianchi. Oltre che leader della comunità
che ora conta una settantina di componenti (e ha dato origine a comunità
“figlie” a Gerusalemme e a Ostuni nelle Puglie), Enzo Bianchi, nato a Castel
Boglione, nel Monferrato, 59 anni fa, è conosciuto come biblista
e teologo, predicatore e maestro di vita spirituale, scrittore e opinionista,
anche su testate laiche, quali La Stampa. A Ivrea lo ricordiamo fin dai
corsi biblici tenuti nella parrocchia di San Lorenzo, ai tempi del rettorato
di don Bernardetto, e, soprattutto, per la preziosa opera di “animazione”
biblica, svolta nel corso del Sinodo diocesano sulla Parola di Dio.
Un riconoscimento prestigioso gli
è venuto, recentemente, dalla laurea honoris causa conferitagli
dall’università di Torino, visto che la prima laurea, quella per
cui si era iscritto negli anni ‘60 alla Facoltà di Economia, non
l’ha mai raggiunta. L’ispirazione dello Spirito l’avrebbe condotto altrove
da Torino, dove, in un alloggio di via Piave, Enzo si ritrovava con alcuni
giovani cattolici, valdesi e battisti, per la lettura della Bibbia e la
preghiera delle “ore”.
L’8 dicembre 1965, in coincidenza
con il termine del Concilio Vaticano II, Enzo si trasferisce a Bose, una
manciata di casupole, alcune fatiscenti. In quella zona del Piemonte l’emigrazione
si è fatta sentire più che altrove, lasciando casolari disseminati
qua e là nella campagna, disabitati.
E’ il tempo del silenzio, della
solitudine, della ricerca personale. Quasi tre anni dopo, decide di unirsi
ad Enzo un primo gruppo, formato da cattolici (Domenico e Marité),
ma anche da un pastore riformato svizzero, Daniel Attinger. Daniel ora
fa parte della comunità di Gerusalemme e là condivide con
alcuni fratelli le sofferenze ed il dramma israelo-palestinese (un dramma,
mi confidava qualche giorno fa, caratterizzato da un odio crescente fra
le parti, da una tragica assenza di prospettive di pace).
Con il costituirsi del primo nucleo
comunitario, una nuova fase si apriva: la ricerca di una via monastica
che conciliasse il legame con la tradizione, soprattutto orientale (riscoperta
in occidente) con le nuove istanze della modernità. Al di là
delle tradizioni umane, l’ancoraggio più solido per una comunità
così inedita (ecumenica, fatta di uomini e di donne!) da suscitare
originariamente perplessità ed opposizione da parte della gerarchia
ecclesiastica locale, consisteva nella radicalità dell’attuazione
del vangelo, che apre alla koinonia, a quella comunione nella quale ognuno,
sull’esempio di Gesù, “lava i piedi” al fratello, e ne diventa servo.
“Fratello, sorella, uno solo dev’essere
il fine per cui scegli di vivere in questa comunità: vivere radicalmente
l’Evangelo. L’Evangelo sarà la regola, assoluta e suprema. Tu sei
entrato in comunità per seguire Gesù” (Regola di Bose, 3).
“Siamo dei semplici cristiani, non
migliori degli altri”, ripete instancabilmente Enzo Bianchi. Questa “laicità”
del monaco, da riscoprire rispetto al ministero ordinato e ad ogni gerarchia
ecclesiastica, permette di apprezzare il suo itinerario di sequela Christi
comune a tutti i cristiani (“tu devi essere quel che sono i tuoi fratelli
cristiani, ma in un altro modo”, recita ancora la regola di Bose, 6).
Dunque l’originalità
di una radicalità evangelica, cioè di un impegno a vivere
il messaggio cristiano fino alle sue radici e alle sue implicazioni più
esigenti: che “addossa” il monaco al deserto, dove Dio è cercato
al di sopra di tutto, nel silenzio, e la sua parola è ascoltata
e condivisa con assiduità.
Ma “davanti” a sé il monaco
ha sempre la “città, la comunità umana”, da cui non si stacca
per un presunto senso di perfezione raggiunta. La compagnia degli uomini
e delle donne è comunque mantenuta e testimoniata nell’accoglienza
agli ospiti. Per questo Bose, i suoi monaci e le sue monache, sono un punto
di riferimento per molti (credenti e non) alla ricerca di una “Verità”
non da conquistare, ma da ascoltare e da scoprire in umiltà.
C’è poi un altro aspetto
in cui Bose si è ritagliato un preciso spazio ecclesiale. E’ il
dialogo ecumenico fra Oriente (ortodosso) e Occidente (cattolico e protestante).
Un crocevia importante, e non solo nelle settimane di studio e di incontri
che da anni organizza. Il piccolo foglio notizie della comunità,
edito nella forma di una “lettera agli amici” e chiamato Qiqajon, il vocabolo
ebraico che indica l’alberello che Dio fece crescere sulla testa del profeta
Giona e poi scomparve rapidamente - indicazione della provvisorietà
di ogni strumento umano - riferisce puntualmente di incontri e di legami,
ormai consolidati da anni, con comunità ed esponenti delle tradizioni
cristiane di Oriente e di Occi-dente. Il piccolo seme, gettato anni fa
nel terreno di Bose da Enzo e da alcuni fratelli e sorelle, ha ormai prodotto
una pianta piuttosto grande.
Da qualche tempo Bose ha voce ad
una istanza culturale: l’esprimere la gioia della festa nella bellezza
dell’espressione musicale. Si tratta dei concerti vesperali, offerti ad
amici ed ospiti della comunità al calar della sera di alcune feste
significative. L’attenzione alla dimensione estetica è poi presente
nelle nuove architetture di cui la comunità si è dotata,
a cominciare dalla sua chiesa, imponente, ispirata all’antico romanico.
“La bellezza - ricordano i monaci, citando Dionigi l’Areopagita - crea
ogni comunione”. E le dà un volto improntato allo splendore della
“Gloria” divina.
d. piero agrano