C'è un tratto che accomuna,
al di là delle evidenti, enormi differenze, le povertà in
cui versano sterminate moltitudini umane - a cui il summit di Johannesburg
appena terminato ha dedicato uno sguardo fugace - e la situazione occupazionale
diffusa nelle nostre regioni Si tratta della precarietà. "Precario",
alla lettera, è colui che è costretto a "pregare", a mendicare
un aiuto, ad invocare un sostegno. E' l'essere "incurvato", di cui parla
spesso la Bibbia.
Precaria è la condizione
dei poveri, abitanti degli sterminati territori del sottosviluppo: instabile
ed aleatoria, se non insufficiente, è la loro possibilità
di accedere ai beni essenziali, quali l'acqua o il cibo, necessari per
vivere.
Precaria, nei paesi cosiddetti evoluti,
è la situazione di tanti lavoratori, cui sono venute a mancare,
nei tempi recenti, le certezze sul "dove", il "quando", o il "come" del
proprio lavoro: il posto, l'orario, e tutto ciò che concorre a costruire
e a definire la propria identità di lavoratore. Traggo queste osservazioni
dall'acuta analisi svolta da un giovane, Francesco Solinas, nel dibattito
alla "Festa dell'Unità" di Ivrea.
Fin troppo facile ricondurre entrambe
le forme di precarietà (e tutte le altre che noi conosciamo) ad
una matrice comune: quell'insieme di processi economici 'globali' che,
nel nome del neo-liberismo, consegna la soluzione di ogni problema di sussistenza
al libero scambio di mercato, nella certezza (o nella speranza) che dalla
circolazione di soldi e di beni di consumo, in quantità crescente,
vengano per tutti almeno le "briciole" per sopravvivere. Certezza (o speranza),
almeno finora, contraddetta dal divario crescente - sotto gli occhi di
tutti - fra benestanti ed impoveriti della terra, fra Nord e Sud del mondo,
ed anche dal riemergere della povertà nei paesi cosiddetti opulenti.
Che fare allora? C'è chi
invoca un insieme di regole che pongano almeno un limite alla diseguale
distribuzione dei beni, nel nome di una civiltà giuridica che antepone
diritti a libertà individuali. E, naturalmente, un'autorità
politica capace e desiderosa di farle osservare.
D'accordo, ma non basta. Ha ragione
il rappresentante vaticano a Johannesburg., mons. Renato Martino, ad invocare
una "conversione etico-ecologica". Al di là dei paroloni, è
l'appello ad un cambiamento di vita e di mentalità, nella direzione
di una vita più sobria e solidale, che assicuri ad ogni figlio di
Dio, il diritto a "vivere felice nella propria terra". Non si tratta di
una benevola concessione a dei "precari", ma di un'istanza morale. Tanto
più seria, quanto più impegnativa. Un'istanza che chiama
in causa la nostra coscienza. Ma si può parlare ancora di coscienza?
piero agrano