La sera di quello stesso giorno,
il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si
trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò
in mezzo a loro e disse: Pace a voi... Come il Padre ha mandato me anch’io
mando voi... Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno
rimessi e a chi non li rimetterete resteranno non rimessi. (Gv. 20,19-23).
Questo racconto del quarto vangelo
colpisce e stupisce, perché riporta il primo incontro del Risorto
con il gruppo superstite dei discepoli e perché lega la loro missione
a quella di Gesù stesso e la finalizza alla remissione dei peccati.
Si tratta qui di tutta la missione della Chiesa, non solo del sacramento
della penitenza, ma certo è difficile non vedervi uno dei fondamenti
più solidi di tale sacramento. E anche la tradizione della confessione
pasquale trova qui una sua radice ben solida. Si noti l’aggettivo “pasquale”:
sembra questo il tempo più idoneo per vivere l’esperienza del perdono,
che è opera dello Spirito Santo, donato da Cristo in croce (“chinato
il capo donò lo Spirito” - Gv. 19,30), portato nel Cenacolo ai discepoli,
effuso solennemente nel giorno di Pentecoste su tutta la prima comunità
ecclesiale.
Fino a qualche decennio fa il tempo
per “fare Pasqua” era proprio il tempo pasquale, ampliato poi per motivi
pastorali alla Quaresima e al primo periodo dopo la Pentecoste. I motivi
pastorali accennati permettono di venire incontro alle persone ed alle
loro esigenze ma rischiano di farci perdere la caratteristica più
profonda del tempo pasquale. Ben venga la flessibilità delle regole
e dei precetti, ma cerchiamo di non livellare i diversi tempi dell’anno
liturgico con il rischio di perdere la grazia loro propria.
Tempo di Pasqua, tempo di perdono.
E’ una parola dolce il perdono, eppure sembra così difficile non
solo donarlo ma anche riceverlo. Lasciarsi perdonare, dal Signore anzitutto,
significa in primo luogo riconoscere il proprio sbaglio: qui appare tutta
la grandezza di Pietro, che piange al canto del gallo. Significa inoltre
accettare di riprendere la strada nella direzione giusta, cambiare, cosa
per lo più scomoda. Il perdono sì, è dolce, il cambiare
vita un po’ meno. Eppure quando Gesù assolve dice sempre: va in
pace e non peccare più. Perdono significa ancora riprendere i contatti,
riallacciare relazioni, approfondire la comunione, in primo luogo con il
Signore ma sempre anche con i fratelli (non invece: “lo perdono, ma che
non lo incontri mai più”).
Il perdono pasquale è un’esperienza
d’incontro personale con il Risorto. “Pietro mi ami tu più di costoro?...
e Pietro si rattristò che per la terza volta Gesù gli rivolgesse
la domanda: mi ami tu?” (Gv. 21, 15-18). Un incontro personale che segna
l’inizio di una vita nuova. Così fu per il paralitico, per la donna
adultera, per Zaccheo. Uno per uno davanti a Lui, non davanti ad una sua
immagine più o meno simbolica, ma quella vera: il volto del fratello,
del povero, della sua Sposa e nostra madre la Chiesa.
L’incontro personale con il Cristo
che perdona non è riducibile certo ad un momento frettoloso di fronte
ad una grata (benché, se potesse parlare, ognuna di esse avrebbe
belle pagine evangeliche da ricordare...). Il Nuovo Testamento c’invita
ad aprirci gli uni con gli altri; il cammino penitenziale poi, pur nei
cambiamenti che ha conosciuto lungo i secoli, sempre si conclude nell’incontro
personale con il pastore della comunità, quando il perdono del Padre,
già penetrato nel cuore del figlio che ha intrapreso la strada del
ritorno, si fa sacramento e certezza.
L’insistenza della Chiesa, in particolare
del papa Giovanni Paolo II, perché non si perda il momento della
confessione individuale, vuole difendere proprio la ricchezza e la profondità
del nostro incontro personale con il Risorto.
Non volevo ricordare un dovere,
con queste righe, ma fare un augurio: non è Pasqua se non Lo incontriamo,
ma non c’è incontro con Lui senza le lacrime e la gioia di Pietro.
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