IVREA - Ci può essere un libro
interessante come un saggio e divertente come un romanzo? Raro, ma possibile.
Ad ogni buon conto, tale mi è parso l’ultimo libro di Giovanni de
Witt, “Due anni con il guerriero giaguaro”, di recente pubblicazione a
cura dell’Archivio storico Olivetti, in queste settimane nelle librerie.
Per cominciare a cogliere lo spirito del lavoro, suggerirei di partire
dal titolo, quel “guerriero giaguaro”, che ben semplifica il versante narrativo
del volume.
Qual’è il senso di questa
espressione nell’immaginario messicano? Lo spunto viene fornito all’Autore
da un particolare del murale di Diego Rivera nella città di Cuernavaga,
relativo ad una sorta di celebrazione delle origini del nuovo Messico a
far tempo dalla conquista spagnola. Esso rappresenta uno dei travestimenti
con i quali i guerrieri atzechi cercavano di opporsi agli invasori, quasi
per mutuare dalle antiche divinità una forza soprannaturale tale
da incutere paura nei nemici. Svanito l’aspetto bellicoso, pare all’Autore
di cogliervi un aspetto perenne dell’anima messicana che sotto una scorza
di apparente violenza mantiene un’indole “pacifica ed accogliente”, e,
si potrebbe aggiungere a lettura conclusa del libro, assai accomodante
rispetto alle molteplici esigenze di un fenomeno abbastanza nuovo per l’ambiente
quale quello di gestione di una attività industriale.
Tale infatti era l’incarico che
negli anni dall’83 all’85 Ivrea aveva affidato all’autore della testimonianza,
curare cioé il decollo di un comprensorio industriale costituito
da ben 4 unità produttive con circa 1300 dipendenti per la fabbricazione
di macchine per scrivere portatili meccaniche ed elettroniche.
Nasce, a mio parere, da questo contrasto
uno degli aspetti più interessanti del libro laddove, attraverso
la rievocazione di numerosi episodi, talvolta persino divertenti, emerge
chiaramente come tra le ragioni della trazione e quelle della modernità,
così come tra aspettative nazionali ed esigenze economico-produttive,
senza dimenticare il problema delle relazioni all’interno e all’esterno
della fabbrica, la sintesi sia stata sempre provvisoria e soggetta a numerose
variabili.
Se poi si pone al centro di questo
implicito conflitto una realtà produttiva come in genere erano quelle
della Olivetti, caratterizzate da alti standard qualitativi e tecnologici,
si può comprendere come il compito affidato ai responsabili fosse
arduo e denso di incognite.
Conciliare infatti le esigenze di
un gruppo internazionale, quel’era al tempo quello Olivetti, con i suoi
piani calati dall’alto, le sue liturgie centralizzate, i suoi target economici
e finanziari, con le costrizioni di una realtà affatto difforme
non poteva che mettere a dura prova le capacità di mediazione e
di convincimento su entrambi i versanti. Di questo intenso lavorio il libro
è denso di episodi che mettono in bella evidenza la inesauribile
capacità latina di sbrogliare le matasse più intricate, non
cedendo in questa lodevole attitudine la fantasia italica all’astuzia messicana.
Naturalmente, e l’autore fa bene
a sottolinearlo, non si tratta solo di questo: il lavoro nell’industria
è anche formazione, innovazione organizzativa e tecnologica, disciplina,
reddito, con indubbi effetti moltiplicativi sul sistema, soprattutto in
ambienti in via di sviluppo. Un’azione meritoria quest’ultima per chi,
magari senza rendersene conto, l’ha promossa. Ha perfettamente ragione
De Witt ad affermare che troppo poco si è indagato sulle attività
produttive estere del gruppo Olivetti che nel corso degli anni diede vita
ad iniziative di tutto rispetto e di grande respiro. In tal senso questo
libro ha, fra l’altro, l’indubbio merito di aprire una via che sarà
di sicuro percorsa da altri. Ma c’è ancora una considerazione che
forse merita di essere fatta. Nessun dubbio che all’estero ci si andava
solo con lo scopo di trarre vantaggio da opportunità economiche.
Ma al contempo era anche un modo per uscire da un inevitabile centralismo
italico (quando non eporediese), venendo a contatto con altre culture,
assimilando altre esperienze, allargando i propri orizzonti e, in tal modo,
acquisendo una visione (per usare un'espressione oggi in voga) globale
dei problemi.
In questo senso il lavoro di De
Witt è veramente esemplare, dandoci della sue esperienza messicana
una narrazione così fresca, gentile e profonda da richiamarci ad
una verità fondamentale, e cioé che prima delle strutture
o delle sovrastrutture, in qualunque modo esse si presentino, esiste l’uomo
nella sua inesauribile varietà.
paolo carra