TORINO - Anche per le Chiese del Piemonte è giunto il momento
di “fare il punto” sul cammino ecumenico che si è svolto da queste
parti, sui traguardi raggiunti, sulle difficoltà e gli ostacoli
ancora da superare. Ad introdurre questa riflessione portandovi “un’iniezione
di incoraggiamento e di conforto” - così si è espresso nella
introduzione ai lavori mons. Piergiorgio Debernardi - è stato l’intervento
autorevole del card. Walter Kasper, attualmente presidente della Pontificia
Commissione per le relazioni fra le Chiese, figura di spicco anche nel
mondo della cultura teologica tedesca.
Il card. Kasper ha parlato lo scorso martedì ad un’assemblea
di circa trecento preti, diocesani e religiosi, provenienti dalle varie
diocesi del Piemonte, presso il teatro “Valdocco” di Torino. La sua è
stata una vera e propria relazione “magisteriale” sullo stato attuale dell’ecumenismo,
così come è colto da un osservatorio così importante.
L’attenzione era rivolta, in particolare, alla formazione specifica dei
preti, dal momento che “questo genere di equipaggiamento - come ha rilevato
ancora Mons. Debernardi - buona parte dei preti se lo sono procurato cammin
facendo”, non appartenendo al bagaglio originario della formazione seminaristica.
La situazione in cui si trova l’ecumenismo ai giorni nostri è
- a giudizio del relatore - una situazione in rapido cambiamento. Nonostante
alcuni momenti significativi e promettenti (dalla dichiarazione congiunta
di Ausburg fra cattolici e luterani, sulla giustificazione, ai tanti gesti
dell’anno giubilare), non è improprio definirla una situazione di
crisi, laddove crisi non significa collasso, ma situazione in bilico, aperta
a differenti possibili evoluzioni, momento importante sotto il profilo
decisionale.
Tre elementi sembrano caratterizzare questa situazione. Innanzi tutto,
il tempo intercorso dall’evento conciliare - in virtù del quale
la Chiesa cattolica fece il suo ingresso nel movimento ecumenico - ha visto
comparire sulla scena nuovi soggetti - preti e laici - non sempre in grado
di capire e di apprezzare quell’avvio. Paradossalmente sono stati proprio
i “successi” a generare la crisi, facendo avvertire la distanza che ancora
ci separa dall’obiettivo della piena comunione fra le Chiese. Di qui l’urgenza
di un impegno formativo ad una sensibilità ecumenica e alla recezione
più consapevole dei risultati già raggiunti.
C’è poi una nuova domanda di identità, che proviene dalla
cultura del “post-moderno” e a cui attingono a piene mani i vari fondamentalismi
di turno. Per un’istanza del genere l’ecumenismo può costituire,
agli occhi di alcuni, un pericolo ed una minaccia. L’ecumenismo, infatti,
cancellerebbe le differenze e, per ciò stesso, le identità.
Che cosa rispondere? Che l’identità è sempre relazionale:
si afferma e si sviluppa in un tessuto di relazioni. E che un serio ecumenismo
è tutt’altra cosa che un’indifferenza confessionale.
Un’ulteriore motivo di difficoltà deriva dalla direzione seguita
finora dall’iniziativa ecumenica cattolica. Che si è rivolta, inizialmente,
alle “famiglie confessionali” considerandole come realtà omogenee.
In realtà, non esiste una Chiesa protestante e nemmeno una Chiesa
ortodossa, con cui dialogare, ma una pluralità di Chiese. Di qui
la necessità di approntare cammini diversi, con velocità
differenti.
La conseguenza di tutto ciò è che il cammino ecumenico
ha fatto registrare un innegabile rallentamento. La speranza di una piena
comunione, a breve termine, almeno con le Chiese ortodosse (il Papa l’aveva
espressa nel “Tertio millennio adveniente”) è andata rapidamente
delusa. Oggi si è giunti ad una fase nuova, in cui si può
parlare di un ecumenismo più maturo e realistico.
Determinante, nel dialogo teologico fra le diverse Chiese cristiane,
è stato il concetto di comunione. Quale genere di comunione ci si
può attendere? Per quale comunione si lavora? Anche qui i modi di
concepire la comunione, e le aspettative che vi sono sottese, sono notevolmente
diversi. C’è chi aderisce ad una concezione solo antropologica,
secondo la quale si tratta di una “associazione fra partners eguali” che
parte dal basso. C’è chi predilige una visione “romantica”, che
vede nella comunione l’accostarsi di persone sotto il segno di una fraternità
ad elevato tasso affettivo. E chi la identifica con la sottomissione ad
un autorità gerarchica...
Per Kasper la comunione gerarchica è da intendersi soprattutto
in senso etimologico: è comunione che deriva dall’origine (“arché”)
santa, cioé dalla condivisione delle “cose sante”. Una comunione
modellata su quella trinitaria, e basata sull’esperienza sacramentale.
Ogni Chiesa ha, poi, finito con il concepire la comunione accentuando
un aspetto su altri, favorendo lo sviluppo ora di un’ecclesiologia “eucaristica”
(soprattutto nella tradizione ortodossa), ora di un’ecclesiologia “congregazionalista”,
basata sulla predicazione della Parola divina (soprattutto protestante).
In ogni caso, il movimento ecumenico resta un pellegrinaggio alla volta
del traguardo della piena comunione. Quali passi deve, allora, intraprendere
una Chiesa che si scopre sempre di nuovo inter tempora, in una situazione
intermedia, di transizione, alle prese con un ecumenismo che non può
essere solo dell’amore ma anche della verità, ed ancor più
un ecumenismo della vita?
Occorre, per prima cosa, uno statuto etico, che bandisca il proselitismo
e ricerchi una più estesa recezione e condivisione dei risultati
raggiunti, ed occasioni più frequenti di azione comune.
Un ecumenismo che si avvalga di strumenti adeguati (consigli, commissioni,
che non pretendono di costituire delle “super chiese”), ma ancor più
si proponga “all’interno” di ogni chiesa, come disponibilità alla
riforma e al rinnovamento, come attitudine ad imparare e a ricevere.
Un ecumenismo che, al di là dall’agitarsi umano, si avverta
come dono dello Spirito, da assecondare con entusiasmo ma anche con una
buona dose di pazienza.
don piero agrano