Convegno “Ragazzi, tra violenza e vuoto
educativo”, atto secondo. E’ il momento di rintracciare nella stessa cultura
attuale le radici, la genesi della violenza. Ad aiutarci in questa ricerca
è stato invitato Padre Michael Paul Gallagher, gesuita irlandese,
umanista e teologo, docente all’Università Gregoriana, a Roma.
Alla cultura si dedica,
oggi, un’attenzione maggiore che in passato, anche da parte dei leader
dell’economia, o dei manager delle grandi aziende.
La cultura non identificata,
evidentemente, con la erudizione accademica. La cultura, come “collante”
invisibile della società, e come espressione dei valori che sorreggono
la vita di una persona.
Da qualche tempo si è
attenti a rileggere le stesse origini della cultura in termini di aggressività
e di violenza. E’ quello che ha fatto, in particolare, l’antropologo e
filosofo francese Girard. Si pensi a quanto accade a due bambini davanti
a dei giocattoli. Qualcuno allunga subito la mano per appropriarsene, e
se arrivano i genitori a sedare la lite che ne è nata, si punta
il dito sull’altro, per accusarlo di quanto è accaduto.
Così accade anche
fra gli adulti. La cultura va riletta come “campo di battaglia”, con l’imitazione
e la reduplicazione della violenza, e con la tendenza a cercare un capro
espiatorio.
Se si vuole ricercare le
cause, ci si imbatte in primo luogo in quella potenzialità tragica,
che è insita nella condizione umana. Si vive di rivalità
e si sperimenta un potenziale di violenza che è dentro ciascuno
di noi.
Ma non basta. C’è
una radice culturale. Le radici della violenza vanno cercate anche dentro
all’attuale panorama culturale, ad una cultura spesso qualificata del post
moderno. Il “post” sta ad indicare un passaggio segnato dalla crisi della
modernità, la crisi di fiducia nella ragione come fonte infallibile
di progresso e di verità.
A partire da quella crisi,
con il decadere di ampi progetti sociali, si è approdati ad una
sorta di desolazione culturale. Condannato alla perdita del senso di appartenenza,
il soggetto post moderno avverte forte il senso di “spaesamento”, e offre
spesso l’immagine della noia.
In tale contesto la televisione
assurge talvolta a simbolo epocale (con Internet e le nuove tecnologie
informatiche). Non si tratta di demonizzare alcunché, ma di valutarne
gli effetti probabili, ingigantiti quando i soggetti molto piccoli non
hanno chiara la distinzione fra immagine e realtà, e la debolezza
culturale della famiglia (che dovrebbe fare da filtro) scade nella latitanza,
e il televisore diventa baby sitter.
Nell’analisi degli effetti
probabili prodotti dall’esposizione al medium televisivo, si ci imbatte
in due fenomeni all’apparenza contraddittori: da un lato la crescente insensibilità
al dolore degli altri, per effetto dell’assuefazione, e, dall’altro, per
dirla con una formula spesso usata negli Usa, “la sindrome di un mondo
spietato”, di cui si enfatizza l’aspetto negativo e minaccioso.
Il risultato è il
sentirsi bloccati su di un’immagine di sé troppo angusta, stretta,
di fronte al futuro, con un crescente narcisismo ma anche la desolante
sensazione di “non essere chiamati a nulla”, di non essere coinvolti in
nulla di valido per gli altri.
Una tale lettura è
sicuramente troppo pessimistica. Può incoraggiare un giudizio negativo
senza appello e la tentazione della fuga. Al credente occorre, invece,
un discernimento, una individuazione, per dirla con il Concilio Vaticano
II, dei “segni dei tempi”. P. Gallagher sviluppa una griglia di domande,
su quattro parole che iniziano con la “d”.
Si tratta in primo luogo
di riflettere sulla “disposizione”, sull’atteggiamento di fondo con cui
ci si accosta a questi fenomeni. Esso deve consistere nel far emergere
nei bisogni i desideri più autentici, nel distinguere fra le risposte
(spesso discutibili) e le domande (importanti) a cui esse sono correlate.
Questo sforzo di discernimento
punta allora al “dove”, al verso dove ci si muove, alla considerazione
degli effetti a lungo termine e non solo di quelli immediati.
Occorre poi considerare
le “dimensioni di umanità” che vi sono in gioco: quali sono stimolate
e quali soppresse o inibite da questa cultura diffusa e dominante?
Ed, alla fine, non si può
evitare di domandarsi quali “decisioni” si rendano necessarie per incarnare
la fede in questa cultura, la cui crescita e diffusione non può
funzionare, di per sé, come antidoto alla violenza, essendone essa
stessa intrisa.
Il problema fondamentale
riguarda allora la scelta di una cultura umanizzante. Il campo privilegiato,
ricordava il Card. Martini, è l’educazione alla libertà.
Il prossimo appuntamento,
previsto per sabato 4 novembre, servirà, con il contributo del Prof.
Don Riccardo Tonelli, salesiano, a mettere a tema un progetto educativo
che sia aderente ai problemi e alle istanze che sono state fin qui evidenziate.