Viaggio nella storia del paesaggio agrario del Tarantino |
La caccia:
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Scena di caccia al cinghiale, tratta da un mosaico pavimentale proveniente da una villa urbana tarantina, di epoca tardoantica. |
anzi, specie in ambiti rurali, ha garantito un utile complemento alimentare
che andava ad aggiungersi a quanto fornito dai campi coltivati.
Nel corso del
Medioevo si delineò una duplice tipologia di caccia:
quella di stampo signorile, dedicata ad animali di grossa
taglia, come cervi e
cinghiali, ed una, molto più diffusa, rivolta ad animali di piccole
dimensioni;
a questa si dedicavano, con una miriade di attrezzi più o meno idonei, la popolazione
comune, e può essere considerata come una delle tante attività di sussiego (rientrante
nella cosiddetta economia della selva) praticate nei boschi.
Col progredire dell’accentramento del potere regio e con la diffusione del diritto forestale l’attività
venatoria subì notevoli limitazioni, fino a divenire una regalia,
cioè prerogativa regia, offerta per lo più in favore degli enti religiosi beneficiati.
Con Federico II, grande appassionato dell’attività venatoria, la
possibilità di cacciare liberamente subì ulteriori limitazioni, fino ad essere
del tutto vietata in particolari boschi regi indicati come defense et loca
sollatiorum, in pratica sinonimi di riserva signorile di caccia.
La
previsione di spazi destinati ai sollatia regi rientrava a pieno
titolo nella istituzione forestale.
Analogo fu l'atteggiamento dei primi regnanti angioini, ma la successiva affermazione del
potere baronale e la progressiva privatizzazione delle terre
pubbliche trasformarono l'esercizio della caccia in
privilegio distintivo, in possesso dei
pochi potenti.
Il bosco di Caggioni (Pulsano, a sinistra) e quello di Masseria del Marchese (Manduria, a destra), furono gli ultimi santuari della caccia signorile nel Tarantino, finchè furono abbattuti, all'inizio del '900. |
Il disdegnoso distacco frapposto fra la nobiltà
storica ed il mondo borghese prese anche le vesti della conservazione, quasi
nostalgica, degli ultimi brandelli di bosco, posseduti perlopiù da
feudatari.
Nel corso dell'Età Moderna erano celebri le battute di caccia organizzate dal
marchese di Oria nei boschi lungo il fiume Borraco e nel
litorale massafrese e
dal principe di Leporano nel Caggione di Pulsano, alle quali erano
invitati i notabili della città.
Fu proprio grazie a queste occasioni di mondanità che queste ristrette aree boschive poterono
prolungare la propria esistenza,
giungendo sino all'alba del '900.
Oltre che tratto distintivo la caccia continuava a ricoprire, in taluni
contesti, un valore economico. Tale era il caso della cacci ai tordi,
attività che, all'interno della Foresta della
Mensa Arcivescovile di Taranto, veniva annualmente concessa in fitto.
Casino di caccia (a sinistra) e particolare di un portale di accesso alla Caccia Riservata di Accetta, uno dei più monumentali esempi di architettura rurale. |
Riferimenti bibliografici:
P. Galloni: L’ambiguità sociale della caccia nel Medioevo, in Quaderni medievali, XXVII (1989), pp. 14-37
C. D. Poso: Il Salento normanno, Galatina, 1988, p. 182.
A. Lupis: Per una storia della caccia aragonese, in Quaderni medievali, XI (1981), pp. 86-102;
Montanari 1985: Gli animali e l’alimentazione umana, in Settimane di Studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, XXXI: L’uomo di fronte al mondo animale nell’Alto Medio Evo, Spoleto, 1985, pp. 619-663.
C.A. Willemsen: La caccia, in Terra e uomini nel Mezzogiorno normanno-svevo, Atti delle settime giornate normanno-sveve, Bari, 1987, pp. 262-269.
H. Zug Tucci: La caccia, da bene comune a privilegio, in Storia d’Italia, Annali 6: Economia naturale, economia monetaria, Torino, 1983, pp. 399-445.
16 gennaio 2002 17:37