Alia nel cuore


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Rita Vicari

Letture

… A proposito della nobiltà siciliana del 1600



Lalia compare come feudo per la prima volta in un documento del 1296.
Questo paese fu per molto tempo un feudo sotto la giurisdizione di marchesi e baroni che per matrimoni, discendenze o acquisizione ne hanno avuto regolare investitura.
Alia nasce come paese intorno al XVII secolo, grazie alla licentia polulandi ottenuta da Francesca Cifuentes nel 1623.
Donna Cifuentes era moglie di Pietro Celestri, marchese di Santa Croce, ed entrambi appartenevano alla nobiltà siciliana e palermitana di quel tempo.
Le nuove ricerche storiografiche sulla Sicilia del XVI e XVII sec. hanno messo in evidenza lo sviluppo e l’articolazione delle città isolane, spezzando l’immagine secondo la quale nel Mezzogiorno la realtà urbana era concepita come fenomeno marginale, immersa in un contesto rurale dominato dalla feudalità, in contrapposizione al Nord caratterizzato da un forte sviluppo delle città e dai patriziati municipali.
Nell’ambito siciliano le città erano caratterizzate da una forte componente demaniale non solo demografico, territoriale ed economico, ma anche politico.
Per rappresentare le particolarità dell’élite cittadina palermitana, di cui facevano parte i fondatori di Alia, si deve innanzi tutto tracciare il ruolo della nobiltà nel contesto siciliano: Palermo era la sede dei principali tribunali e del governo viceregio, era la più rilevante sede finanziaria dell’isola riguardo il commercio cerealicolo e per questo aspirava alla ratifica della posizione di capitale del Regno di Sicilia.
Ben presto le file della nobiltà urbana furono arricchite da coloro che ambivano ad un’ascesa sociale con l’acquisizione di un titolo, Palermo insomma offriva opportunità di promozione per coloro che disponevano di mezzi finanziari e adeguate intrecci di relazioni.
Sino al XVI secolo la nobiltà cittadina era formata dalla nobiltà feudale e gli stessi titolari del feudo si erano trasformati in proprietari terrieri seguendo la tendenza generale che protendeva verso una feudalità riconvertita in aristocrazia.
La possibilità della nobiltà antica per chiudere il gruppo all’ascesa di elementi esterni era data dalle strategie di matrimonio: così si mirava a convogliare un numero rilevante di possedimenti popolati sotto un gruppo ristretto di famiglie feudali. Non dimentichiamo che questi possedimenti garantivano ai baroni l’ingresso e il voto al parlamento.
Nonostante questa tendenza a restringere il cerchio delle famiglie feudatarie, accadeva che per matrimonio con un’ereditiera, o con l’acquisto di un feudo grazie alla disponibilità economica, si affermavano famiglie di feudalità minore.
Purtroppo nei secoli XVI e XVII nell’isola la nobiltà si acquistò con troppo facilità: la pressione verso i vertici della scala sociale trovò apertura positiva grazie alle difficoltà finanziarie di Filippo III, il quale fece largo uso di conferimento, per non dire vendita, di titoli nobiliari.
A ciò possiamo aggiungere l’ondata di licentie populandi di cui si servirono coloro i quali avendo le possibilità economiche si impegnarono alla fondazione di un paese, al fine di rafforzare la propria posizione sociale e politica.
I nuovi arrivati al potere cercavano innanzi tutto di integrarsi con l’antica nobiltà, attraverso un processo di mimetizzazione la cui prova definitiva era data dal modo di vivere: possedere elementi come carrozze, gioielli, quadri, tutto quanto insomma servisse a dimostrare di far parte di un nobile casato.
Ci si nobilitava per armi, per lettere o per ricchezza, se si trattava rispettivamente di un cavaliere, di un dottore o di un ricco quando per mezzo del suo denaro acquista dignità o agisce da nobile.
Ma affinché l’intera famiglia si potesse nobilitare era necessario che trascorresse un certo lasso di tempo, previsto in cento anni (quattro generazioni), durante il quale i membri della famiglia sarebbero rimasti lontani dal vile esercizio, trattandosi da nobile con cavalli, servitori ed altri esercizi da nobile. Il computo delle generazioni non avrebbe tenuto conto di chi per primo avesse ottenuto il titolo, ma dal suo immediato successore.
Le famiglie patrizie palermitane si suddividevano in cavalieri ( semplici cittadini privati) baroni feudatari e titolati ( conti, marchesi, duchi e principi).
Erano nobiles cavalieri, baroni e titolati, costoro a loro volta si trovavano a ricoprire cariche cittadine importanti, eletti quindi all’ordine pretorio, capitaneo e/o senatorio, anche se si deve sottolineare che l’elemento decisivo per le nomine al senato era costituito dal favore vicereale.
Il Senato era la massima istituzione politica municipale, a capo del Senato vi era un pretore, che con i sei senatori ( o giurati) presiedeva la corte pretoriana, accoglieva l’arrivo di ogni nuovo vicerè con un particolare cerimoniale, e proprio nelle sue mani il vicerè giurava il rispetto dei privilegi e delle consuetudini municipali.
Pretore fu Pietro Celestri, e questa era la massima carica cittadina a cui ambivano i nobiles palermitani.
I requisiti per essere eletto pretore erano il raggiungimento di una certa età, che era indice di maturità ed esperienza, e il possesso della cittadinanza palermitana, oltre che essere nobiles.
Solo il legitimu et ordinarium Chitadinu oriundu oppure colui che aveva sposato una palermitana o avesse vissuto in città per almeno cinque anni consecutivi avrebbe ottenuto la cittadinanza piena.
Attraverso la ricostruzione delle alleanze matrimoniali si rivela come la pretura sia stata sostanzialmente affidata per un intero decennio ad un numero ristretto di titolati i cui feudi principali (Giuliana, Montemaggiore e Marineo) erano posti nelle zone di principale produzione cerealicola che riforniva il mercato palermitano.
Alcune famiglie di baroni di feudi non abitati e di titolati provenivano dalle attività commerciali e bancarie e dalla burocrazia e avevano ottenuto un titolo in tempi brevi.
Il patriziato palermitano era quindi propenso ad accogliere con una certa rapidità fra le file senatoriali i personaggi più intraprendenti e facoltosi, anche se da poco insediatisi in città, e anche se ancora non erano passate le quattro generazioni per essere veri nobiles.
V.Di Giovanni nel suo “Palermo restaurato” tra costoro annovera la famiglia di Pietro Celestre, marchese di Santa Croce, eletto pretore della città nel 1611/12, quando ancora non era trascorso il tempo necessario per essergli riconosciuto legittimo il titolo di marchese.
Pietro Celestri, apparteneva ad una antica famiglia di origine francese, era figlio di Lucrezia Migliaccio dei baroni di Montemaggiore che era andata in sposa a Giambattista Celestri Chirco (reggente siciliano a Madrid nel Supremo Consiglio d’Italia, e in precedenza Protonotaro del regno e presidente del Real Patrimonio) primo marchese di Santa Croce ( oggi Santa Croce Camerina).
Pietro Celestri divenne barone del feudo di Lalia, grazie al matrimonio con Francesca Cifuentes Imbarbara e Crispo, ed ecco che ancora una volta è attraverso l’unione matrimoniale che si ottiene un privilegio.
Gli Imbarbara erano una famiglia molto influente in tutta la Sicilia, essi grazie ad una serie di matrimoni combinati e di discendenze ebbero sotto la loro amministrazione il feudo di Lalia per parecchi anni.
Il primo Crispo ad ottenere l’investitura del feudo di Lalia fu Rainaldo,un nobile oriundo da Pisa, il quale nel 1366 lo acquistava con atto notarile e i cui possedimenti andavano dalla terra al mare, dalle terre di Lalia sino alla tonnara e al Castello di San Nicolò.
Intorno al 1414 grazie ad Enrico Crispo, capitano di giustizia a Trapani, il feudo ebbe una importante ripresa economica,che durò sino al 1514, quando un suo discendente, Federico Crispo, per problemi economici, dovette venderlo a Vincenzo Imbarbara.
Federico però si riservò il diritto, per se stesso e per i suoi eredi, di poterlo riscattare in qualsiasi momento con la stessa somma.
Anche questa volta è un matrimonio a salvare la situazione:Vincenzo Imbarbara sposa Eleonora Crispo, sorella di Federico, per cui il feudo rimane comunque ai suoi eredi.
L’erede Pietro morì senza figli, per cui la proprietà passò al fratello Filippo Crispo, barone di Prizzi, marito della sorella Fiordiligi Imbarbara Crispo, la quale riscattò il feudo tramite il diritto che Federico Crispo, suo padre, aveva riservato agli eredi.
Presto donna Melchiorra, sua nipote e figlia della sorella Polissena Imbarbara Crispo, rivendicò il diritto del feudo.
Melchiorra, che a sua volte era moglie di Luca Cifuenetes de Heredia, alla morte dello zio Pietro fece valere la sua posizione di discendente diretta per appropriarsi del feudo di Lalia.
Luca Cifuentes aveva un ruolo di prestigio nella città di Palermo, era a capo di diverse cariche di importanza rilevante, il matrimonio accrebbe sia politicamente che economicamente la famiglia Imbarbara e di ciò sicuramente il feudo di Lalia ne potè trarre vantaggio.
Infine fu grazie a Francesca Cifuentes, sua figlia e moglie di Pietro Celestri, sopra citato, che il feudo ottenne licentia populandi trasformandosi in borgo e poi in quello che oggi è Alia.


Fonti:
Storia di Alia” di E. Guccione
La nobiltà senatoria a Palermo tra cinquecento e seicento” di G. Macrì


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