Sappiamo tutti che le domande più intelligenti intorno a un fenomeno non
vengono dagli esperti, perché per loro il fenomeno è solo un' occasione
per esporre la loro competenza. Le domande più intelligenti vengono da
quelli che non se ne intendono, perché la loro incompetenza colloca il
fenomeno in scenari che gli esperti neppure sospettano. In questo modo,
invece di assopire le coscienze in un sistema ben assestato di risposte,
i non esperti le problematizzano con una serie di domande che tengono
desta la coscienza. Perché nessuna risposta riesce ad essere sufficientemente esaustiva.
E' il caso dell' ultimo libro, davvero stimolante, di Alessandro Baricco, Next, piccolo libro sulla
globalizzazione e sul mondo che verrà. (Feltrinelli, pagg. 90, euro 6).
Alessandro Baricco non è un esperto di globalizzazione e quindi può
porre tutte quelle domande, ivi compresa quella che si chiede se la
globalizzazione esiste per davvero, che nessun esperto di globalizzazione si porrebbe mai. Questo metodo di indagine, tipico dei
non esperti, è il classico metodo adottato dai filosofi che, a differenza dei sapienti (gli esperti), non hanno una competenza sulla
cosa, e, proprio a partire dalla loro incompetenza, pongono domande.
Domande non ingenue, che vogliono mettere alla prova la competenza dei
competenti, per vedere se regge, se sta in piedi, o se è solo un modo
per assopire le coscienze in un presunto sapere. Come tutti più o meno
sanno, questo metodo è stato inaugurato da Socrate che non perdeva
occasione per ribadire la sua «dotta ignoranza», a partire dalla quale
nessuno poteva sottrarsi alle sue interrogazioni, che mettevano in
questione il presunto sapere degli esperti: «Come fanno i vasai - scrive
Platone - che con la nocca delle dita percuotono i vasi per saggiare il
materiale di cui sono fatti». Alla fine del dialogo, di tutti i dialoghi
platonici, in cui Socrate fa il suo mestiere di incompetente, si scopre
che Socrate ha sempre ragione. La sua però non è una ragione dogmatica o
di principio, è la ragione che risulta dal crollo dei presunti saperi.
Qualcosa che assomiglia a quella che di solito viene chiamata «ragione
critica», il cui compito è di evitare che il responso degli esperti
divenga persuasione definitiva per coscienze beate che, rinunciando al
rischio dell' interrogazione, confondono la sincerità dell' adesione con
la profondità del sonno.
Come Socrate, Alessandro Baricco si chiede: che
cos' è la globalizzazione? E' una realtà o è semplicemente ciò di cui
tutti ci siamo persuasi? E' una realtà, dicono i più. Ti siedi al
computer e puoi comprare tutto quello che vuoi on line; sempre al computer puoi acquistare in Borsa tutte le azioni del mondo. Giri il
mondo e puoi bere ovunque la Coca Cola, comprare un paio di Nike o
fumare Marlboro; l' ultimo film di Spielberg lo puoi vedere in gran
parte del mondo, così come puoi constatare che tutti tirano a
canestro come Michael Jordan. Persino i monaci tibetani navigano in rete. Quindi
la globalizzazione esiste. Poi vai a controllare e scopri: che la gente
che compra on line è lo 0,0008 per cento, che per quanto tu possa
comprare in Borsa, quando il gioco si fa duro i francesi non riescono a
comprare la Montedison e De Benedetti la SGB (che equivale a mezzo
Belgio), mentre la Pirelli non riesce a comprare la Continental. Vai in
giro per il mondo e scopri che contro le 380 bottigliette di Coca Cola
che un americano beve in un anno, un russo ne beve 26 e un indiano 4;
che in tutto il mondo si vede il film di Spielberg e nessun americano
vede un film rumeno, indiano, cinese, africano e forse neppure europeo
(e qui comincia a venirti il sospetto che la globalizzazione sia la
nuova versione del colonialismo).
Se infine ti capita di visitare un monastero tibetano scopri sì che hanno regalato un computer a ogni
monaco, ma i monaci non lo usano. E allora? Allora, nonostante questi
dati, dobbiamo dire che la globalizzazione esiste, perché nell' unico
consumatore che fa i suoi acquisti on line vediamo il nostro futuro,
mentre negli altri 99 tra cui anche noi che andiamo al supermercato, non
vediamo niente. E questo ci dice che il futuro è per tutti più reale del
presente, e che il possibile crea una realtà che rende obsoleto l'
esistente. Quindi la globalizzazione esiste perché è il nostro futuro.
C' è, anche se non c' è. Risolta la prima questione dove la ragione si
distribuisce equamente tra chi afferma e chi nega, Baricco, come Socrate, passa alla seconda. Qual è il propellente della
globalizzazione, cioè del nostro futuro? E la risposta è inequivoca: l'eterno motore che da sempre decide il comportamento degli uomini, ossia
il denaro, che cerca un campo di gioco più vasto, perché altrimenti più
di tanto non può moltiplicarsi e muore d' asfissia.
Dunque la globalizzazione, il nostro futuro, non è altro che la ripresa su vasta
scala del nostro passato, con questa sola differenza: che una volta per
impossessarsi delle risorse altrui si faceva la guerra, oggi invece lo
stesso scopo lo si raggiunge con la pace perché, per funzionare, la
globalizzazione ha bisogno di stabilità e pace. E allora che ci fanno i
no global? I no global sono quelli che, forse non a torto, interpretano
la globalizzazione come il trionfo dell' impero americano, nonché la
macchina con cui questo impero affama il resto del mondo, dando un
dollaro al giorno a chi, nei paesi più disperati, confeziona Nike che in
Occidente si vendono a 75 dollari il paio. E pensano di risolvere il
problema dello sfruttamento dei diseredati del mondo distruggendo vetrine e bruciando McDonald' s là dove si riuniscono i signori del G8?
La loro azione è davvero efficace? Incide sulla realtà che vogliono
cambiare? Anche qui sì e no. Come sì e no era la risposta alla domanda
che chiedeva: esiste o no la globalizzazione? La globalizzazione, lo
abbiamo visto, non esiste come presente ma come futuro, non come realtà
ma come possibilità, che può diventar reale a condizione che tutti
credano che esista. Per raggiungere questo scopo, che è poi quello di
dare l' impressione che esiste quello che non esiste, arte a cui è
particolarmente votato il nostro presidente del Consiglio, gli otto capi
dei paesi più importanti del mondo, che potrebbero tranquillamente
riunirsi in videoconferenza, o segretamente intorno al tavolo del consiglio di amministrazione di qualsiasi azienda, si mettono in
vetrina, costringendo un' intera città a militarizzarsi.
Perché lo fanno? Hanno da decidere qualcosa che in altri modi non si potrebbe
decidere? No. Sono lì a farsi vedere, sono lì a fare i testimonial, sono
lo spot della globalizzazione, per testimoniare che vanno d' accordo,
che non si faranno mai la guerra, e che quindi il pianeta può essere
considerato come un unico paese. Sono lì perché così il piccolo
industriale veneto, che ha avviato i suoi primi timidi commerci con la
Romania, si convince che non deve aver paura a costruire fabbriche a
basso costo di manodopera laggiù, che le multinazionali possono andare
tranquille se decidono di investire i loro soldi e attrarre in ogni
parte del mondo milioni di consumatori.
E i no global, perché sfilano a Genova e non in Indonesia davanti a una fabbrica di scarpe Nike dove si
sfruttano i ragazzini a un dollaro al giorno? Perché se le globalizzazione è il futuro e non il presente, se è il possibile che si
vuol far diventare reale, devono boicottare la campagna pubblicitaria,
devono interrompere lo spot, dove ciò che si vende è l' idea (condivisa
da Bush, Blair, Aznar, Berlusconi e gli altri del G8) secondo la quale
tutto il mondo starà meglio se si concederà al denaro di circolare in
libertà senza asfissiarlo con troppe regole. Un' idea questa che è
comune a tutti coloro che il denaro ce l' hanno e perciò sono disposti
ad abitare un mondo che può essere più ricco solo se è più competitivo,
più selettivo, più duro, dove non si fatica a scoprire che la legge che
regolerà il futuro è, con un po' di lifting, l' antica legge del più
forte, ma questa volta su scala mondiale, dove i vincitori vincono e gli
sconfitti perdono.
Il lifting è necessario affinché suoni «progressista»
la pubblicità della globalizzazione che predica la liberalizzazione di
tutto e di tutti, quando in sostanza non è che la restaurazione di un
mondo come quello che, in Occidente, il secolo appena trascorso ha
cercato di far fuori. Non è forse vero che le fabbriche del terzo e del
quarto mondo espongono un orrore non dissimile da quello descritto da
Zola in Germinal a proposito dei minatori che vivevano da
noi centotrent' anni fa? E che fanno le sinistre europee, si schierano anch'
esse a fianco della globalizzazione, senza riflettere sui risvolti
crudeli che avrà per i deboli della terra? Hanno allora ragione i no
global? Baricco, come Socrate, dice in parte sì in parte no. Sì, per
quanto sopra si è detto. No, perché, come per la rivoluzione industriale, distruggere le macchine non porta lontano.
Il problema, dice Baricco, è piuttosto immaginare un nuovo e civile mondo del lavoro
e cercare di realizzarlo. Come? Se la globalizzazione non è una realtà
ma un' immaginazione più forte della realtà, se i no global non risolvono gli effetti reali della globalizzazione, ma colpiscono la sua
immaginazione che è il motore propulsivo della sua realizzazione, allora
bisogna lavorare di immaginazione e fare un sogno più grande perché,
scrive Baricco: «La globalizzazione, così come ce la stanno vendendo,
non è un sogno sbagliato: è un sogno piccolo. Arrestato. Bloccato. È un
sogno in grigio, perché viene direttamente dall' immaginario di manager
e banchieri. In un certo senso si tratterebbe di iniziare a sognare quel
sogno al posto loro: e realizzarlo. È una questione di fantasia, di
tenacia e di rabbia. È forse il compito che ci spetta».
Con questa sua risposta seducente e seduttiva, Baricco questa volta abbandona Socrate e
lo lascia solo a chiedersi: che cosa c' è di più forte del denaro e
della tecnica per poter contrastare la potenza del denaro e della tecnica? Il sogno, la fantasia, la tenacia, la rabbia? Ma ci crediamo
davvero che questi moti dell' animo possano contrastare la potenza del
denaro e della tecnica? Se Socrate vivesse direbbe: un tempo sì, ma oggi
no. Perché un tempo il conflitto era tra due volontà: la volontà del
signore e la volontà del servo che, confliggendo, potevano decidere le
sorti della lotta a favore dell' uno o a favore dell' altro. Così è
stato nell' Ottocento e nel primo Novecento.
Oggi sia la volontà del signore sia la volontà del servo sono entrambe sottoposte a quell' unica
«non-volontà» che è l' automatismo dello sviluppo tecnico e della
circolazione del denaro, che non hanno altro scopo se non il proprio
autopotenziamento, in vista di nessun senso e nessuna finalità. Dello
sviluppo della tecnica e della circolazione del denaro abbiamo tutti
bisogno, ma sono le finalità che sono del tutto sparite, e questo non
perché l' umanità s' è distratta, ma perché oggi nessun fine può
essere realizzato se non dispone di tecnica e di denaro. A questo punto tecnica
e denaro non sono più, come la gente pensa, «mezzi» in vista di quei
«fini» che sono la produzione dei beni e la soddisfazione dei bisogni,
ma sono essi stessi il primo «fine», per accaparrarsi il quale, si vedrà
se produrre beni e in che misura, e se soddisfare bisogni e in che
misura. Il «mezzo» (tecnica e denaro) è diventato «fine», e quelli che
un tempo erano i fini (l' uomo, per esempio, i suoi bisogni, i suoi
desideri, le sue aspirazioni) sono diventati semplici mezzi per potenziare la tecnica e produrre denaro. Questo significa essere entrati
nell' età della tecnica. E ragionare con categorie da età pre-tecnologica come la «fantasia», la «tenacia», la «rabbia»,
significa fare appunto un «sogno», da cui occorre svegliarsi al più
presto, non perché da svegli si trova subito il rimedio, ma perché è
molto improbabile che lo si trovi se si interpreta il mondo che si abita
con categorie che, con quel mondo, non hanno più niente da spartire.
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L'articolo
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