Barnum, Baricco e quel bar in cima al nome
Baricco è come uno stilista di fama internazionale e i suoi titoli sono
altrettante griffes che guardano al mercato globale. Così dopo Barnum uno e
due, dopo Seta & the City, è arrivato Next, che del brand ha tutte le
caratteristiche, compreso il potere evocativo per cui “il mondo che verrà” è
richiamato attraverso una serie di associazioni d’idee.
Due, tra tutte, di polarità opposta: Six memos for the next millenium (titolo originale delle
Lezioni americane di Calvino) e The next thing® (il copyright di Telecom
Italia, che suggella uno spot in cui la globalizzazione è presentata come la
cosa più bella del mondo). Baricco è ormai un marconimo, e come tale può
associarsi, in giochi allitteranti e paronomastici, ad altri cognomi e nomi
di marca (basti pensare a uno spot ancor più recente, realizzato dal nostro
insieme a Wim Wenders).
Come lo stile di ogni stilista, anche quello di Baricco è inconfondibile e quindi plagiabile: “Tu sei lì il fine settimana al polo Sud e all’
improvviso ti chiedi: merda, al polo Sud che giorno è? E non sai da dove ti
viene quella domanda lì. Non sai che cos’è quella roba lì.
Merda, ma cosa ci fanno tutte quelle mosche lì al polo Sud?”. Sembra Baricco e invece è un
falso firmato due anni fa da Tiziano Scarpa (Cos’è questo fracasso,
Einaudi, 2000); ma il vero inizio del libro è poi tanto diverso? “Questo libro è nato
qualche mese fa. C’era il G8 a Genova. E successe quello che successe. Io
ero da tutta un’altra parte, e come tanti stavo davanti al televisore a
cercare di capire. Tra le tante domande che mi passavano per la testa c’era
anche: perché non sono lì?”.
Elementare, Watson!
L’autore si è posto una domanda (“Cosa diavolo è la
globalizzazione?”), e si è messo sulle tracce della verità: “Non è il libro di un esperto. È un libro
che, nel modo più semplice, cerca di capire cos’è la
globalizzazione, usando i contributi degli esperti e una buona dose di ingenuità”. Lui sa di non
sapere (“Non sto cercando di dimostrare che la globalizzazione non esiste:
non lo so, io, se esiste”); io lettore ne so meno di lui: possiamo partire.
Comincia la nostra inchiesta fatta di “metto da parte l’indizio, e vado
avanti”, che ha l’ambizione d’invertire la tendenza odierna per cui “secondo
una logica che deve suonare paradossale, non sapere chi è l’assassino ci
spaventa poco: l’importante è sapere tutto del morto”.
Ma se lui è Sherlock Holmes, noi siamo Watson; e infatti “è il tipo di libro che si potrebbe intitolare: La globalizzazione spiegata a mio figlio”.
Già, perché nel momento in cui l’autore le pone a noi, tutte quelle “domande
a cui non sapeva rispondere” sono diventate domande retoriche; sono
interrogativi che chiedono una semplice conferma: Vero?, No?, Possibile
che…? Possibile.
Totem e Golem
Baricco finge false aporie per rimuovere maieuticamente (vedi la Bonus track
su Platone) alcune “icone totemiche”; veste i panni del Candide (anche su di
lui c’è una Bonus track), ponendo ai luoghi comuni “una domanda
apparentemente ingenua: sono veri?”. Per far questo, si spende in prima
persona, cerca di fare come Pasolini: “tornare alle radici del reale,
ripartire a pensare dall’inizio. E volare alti. Chi ne è capace, e ne ha il
coraggio” (Barnum, Feltrinelli, 1995; cfr. “L’Indice”, 1995, n. 8). Un
coraggio rivendicato fin dall’inizio del libro (“Quello che avevo il
coraggio di dire”): scrivendo sempre io penso e mi sembra, Baricco spiega le
cose guardando dritto in macchina e così ci fissa dritto dentro agli occhi,
ci dà del voi (cioè del tu a tutti); inscena il suo ragionamento live,
usando un tono affabile. Sembra una chiacchierata, ma in realtà non c’è
dialogo: è una comunicazione circolare. D’altronde, “l’onestà intellettuale è un ossimoro” (City,
Rizzoli, 1999), e a dimostrarlo basterebbe il valore ambiguo che l’autore attribuisce
a semplice e famiglia. Da una parte, “una cosa che può essere utile è
pensare semplice”, anche “a costo di semplificare”; dall’altra, bisogna
stare in guardia da “uno sguardo così semplificatore da vedere un puro e
semplice duello là dove, com’è evidente, accade un incrocio assai più
complesso e difficile da comprendere” (non si deve fare del global un “gran
Golem”, come gli Sati Uniti hanno fatto del terrorismo).
Il campo da gioco e i treni per il West
In Next tutto diventa più semplice grazie a un gioco di specchi che sfrutta
proprio quella “propensione alla proiezione fantastica” rilevata con
fastidio nei media. Si parte da un’analogia, si scavalca nell’ambito
figurale trascinandosi dietro il lettore e lo si tiene di là, dove entrambi
(scrittore e lettore) si sentono più a proprio agio. Baricco cercava “il
paesaggio appropriato” per le sue spiegazioni e, visto che “la
globalizzazione è un paesaggio ipotetico”, lo ha trovato in quello virtuale
della letteratura. Come dimostra un piccolo collage di citazioni in sequenza
(si veda il box a fianco), Next non è un libro sulla
globalizzazione, ma un libro che parla di treni, di viaggi, del West e di un gioco che fa pensare
al calcio (tutti argomenti molto cari all’immaginario di Baricco). Nel
binario parallelo aperto per spiegare qualche concetto un po’ complicato,
tutto torna perfettamente, ma – appunto – si fanno i conti senza l’oste,
perché qui l’economia non c’entra, se non di striscio.
Castelli senza rabbia
Baricco è bravo: buca la pagina, dissemina i suoi messaggi neanche troppo
subliminali e orchestrando con sapienza Leitmotive e variazioni sul tema
riesce a inchiodarci in testa quella definizione, quell’aggettivo, quel
nome. Solo che alla fine non si capisce bene di che cosa ci voglia
convincere. Mentre Pasolini “scriveva articoli che nel giornalismo di oggi
gli avrebbero tirato dietro (…) senza preoccuparsi di scrivere bene” (perché
“non voleva sedurre: doveva enunciare la rabbia di qualche sua verità”),
Baricco pennella e rifinisce come un numero 10 (perché oggi a uno scrittore
che lavora per un quotidiano “tocca fare prodezze in un fazzoletto di campo”; Barnum 2,
Feltrinelli, 1998). Il risultato, però, è che il suo instant book assomiglia un po’ agli hamburger serviti nei fast food americani, in
cui “la polpetta, la carne, è un puro pretesto, un supporto mentale, è come
la linea melodica in Rossini: quel che conta non sta lì, ma nell’accessorio,
nell’abbellimento, nella fiorettatura” (ancora Barnum 2). Quando ripone il suo piccolo libro sulla
globalizzazione, il lettore non ne sa molto più di prima, perché per molti aspetti si tratta di “un
dibattito da economisti, per cui è difficile orientarsi. Posso giusto
registrare quella che sembra l’opinione più equilibrata”. La conclusione,
dunque, è l’epochè un po’ pilatesca del bipartisan: da una parte i no global
“sono la nostra assicurazione contro tutti i fascismi”, dall’altra “ciò che
i no global tendono a distruggere sono spesso gli stessi materiali che ciservirebbero per costruire una globalizzazione
‘pulita’”. I brand non vanno demonizzati, perché anche “Beethoven è un brand. Lo sono gli impressionisti
francesi. Lo è Kafka”, e l’omologazione culturale su base americana non è
altro che l’aggiornamento di qualcosa già successo alle radici della cultura
occidentale: “Rassegnatevi: Omero era gli Americani!” (Baricco sa “che tutto
ciò è piuttosto fastidioso”, tuttavia “non è bello ma è utile. È un modo
laico di vedere le cose. Aiuta”).
No logo? Yes, logos
In Next non si trovano vere spiegazioni, ma riflessioni, ragionamenti,
speculazioni: opinioni. “Posso dire di non aver mai scritto una sola riga da
opinionista – io che opinionista non sono”, scriveva Baricco in Barnum. Next
rappresenta dunque la perdita di una verginità, e d’accordo che oggi l’illibatezza non è più un valore (tantomeno quella intellettuale), ma – viene
da chiedersi – valeva la pena perderla per così poco? Le opinioni di Baricco
rispecchiano un atteggiamento da mediatore, lo consacrano maître à penser di
un pensiero tanto debole da lasciarci impantanati nella grigia no man’s land
del giusto mezzo.
Ora, è vero che l’atteggiamento apocalittico può essere “falsamente intelligente (…) Logico, ma cretino”, però sempre meglio logotomizzati che
“solo blandamente lobotomizzati”. E poi nell’era di Internet gli scritti
corsari dovrebbero essere incursioni da hacker, perché l’empirismo critico
può (deve) essere eretico, ma non agnostico. Altrimenti meglio affidarsi a
uno come Jovanotti, che “dice la sua su molte cose, parlando o cantando (…)
Dice la sua e non sono idiozie: un po’ tutto allineato a un galateo
filosofico da progressista disciplinato, ma con una sincerità dentro e uno
stupore, e un candore come se le avesse scoperte in quell’istante, quelle
cose” (Barnum).
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L'articolo
di commento a Next pubblicato su Le Monde
L'articolo
di commento a Next pubblicato su Libération
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