Per quella notte, una volta intervenuti con degli incantesimi in grado di contrastare l'avanzare della nera marcescenza che avevano notato sul terreno, decisero quindi di accamparsi nei pressi del tempietto ormai distrutto.
Avrebbero dovuto attendere istruzioni da parte dell'abate di Saint Mere Abelle.
Montarono quindi la guardia ed esplorarono la zona circostante servendosi della pietra dell'anima, l'ematite, tramite la quale era possibile divenire puro spirito e muoversi senza sottostare ai vincoli della materia.
Ma, per la seconda volta, la ricerca non aveva dato esito alcuno, nonostante fosse stata esaminata una zona ben più ampia rispetto al precedente tentativo.
Il monaco a capo della spedizione servendosi della propria ematite, si occupò di riferire ogni cosa all'abate Guren stabilendo una sorta di comunicazione a distanza.
La situazione appariva complicata: il demone era nuovamente libero e, soprattutto, non era solo essendo i sigilli stati sciolti dall'esterno.
Inoltre, poteva essere ovunque giacché non vi erano tracce della sua presenza nelle immediate vicinanze e non sapevano con esattezza quanti giorni di vantaggio avesse rispetto ai loro spostamenti.
Il padre abate rimase turbato dalle notizie riferitegli e per un poco rimase in silenzio a soppesare la situazione.
Non voleva far correre ai propri confratelli dei rischi inutili, ma tuttavia la ricerca del demone doveva essere portata avanti.
Ordinò quindi di cercare di rintracciare il demone, senza tentare di attaccarlo.
Al contempo avrebbero dovuto indagare e capire chi o cosa potesse essere l'entità che l'aveva prima liberato e poi assoggettato al suo volere.
In ogni caso non era richiesto loro di combattere contro il nemico: uno scontro individuale era semplicemente improponibile e dei monaci morti, di certo, non sarebbero serviti a molto.
Se proprio fossero stati costretti a combattere, se impossibilitati a fuggire, avrebbero dovuto ricorrere alla Comunione dello Spirito.
Si trattava di una tecnica magica di altissimo livello tramandata da tempi immemori, dai tempi antichissimi in cui gli scontri con le creature demoniache e le armate infernali del demone dactyl erano assai frequenti. L'unica speranza di vittoria per gli umani, essendo improponibile uno scontro individuale contro simili mostri, era rappresentata dal potenziamento e dall'unione delle anime. Utilizzando le pietre magiche, forti dell'addestramento ricevuto all'abbazia, i monaci avrebbero potuto fondere il loro spirito e dare vita ad un'entità di magia e luce in grado di competere contro la creatura infernale che stavano cercando.
L'indomani, promise loro il padre abate, sarebbero partiti dall'abbazia, altri venti monaci.
Si sarebbero affiancati a loro per la caccia al demone.
La notte trascorse tranquilla.
Ognuno dei monaci si preparò spiritualmente al compito che l'attendeva.
Erano tutti abili combattenti ed esperti nell'uso della magia.
Profondi conoscitori dei demoni e delle creature magiche, perfettamente addestrati in anni di severo allenamento tra le imponenti mura di Saint Mere Abelle.
Al mattino si diressero verso il villaggio di Melorak, intenzionati a ricercare tracce del demone mescolandosi tra gli abitanti del paese in qualità di semplici monaci venuti dal sud per evangelizzare e recare aiuto tra la remote regioni montane dell'Alpinador.
Servendosi nuovamente dell'ematite, la pietra dell'anima, decisero di esplorare il villaggio alla ricerca della Bestia.
Del demone nessuna traccia ma ciò che videro durante la loro esplorazione li lasciò alquanto turbati.
Tuttavia spiegava tragicamente il desolante silenzio e l'assenza di persone per le vie del paese.
Decisero allora di entrare nel villaggio dividendosi in tre gruppi: avrebbero prestato soccorso a eventuali feriti e sarebbero rimasti in costante contatto telepatico tramite l'ematite, questo per un eventuale avvistamento della belva e per poter ricorrere alla Comunione dello Spirito.
Al contempo avrebbero tenuto gli occhi bene aperti nel tentativo di scorgere indizi e tracce utili alla loro ricerca.
Entrarono così nel villaggio di Melorak.
Lui, non visto, schermato alla sonda magica dei monaci grazie al potere che possedeva, li stava osservando.
Un malvagio sorriso gli cresceva sul volto deforme mentre già pregustava la possibilità di vendicarsi di quegli odiosi monaci che, qualche tempo prima, l'avevano imprigionato all'interno del limbo dimensionale.
All'interno delle case e degli edifici comuni del villaggio, tutto ciò che i monaci trovarono furono cadaveri orribilmente mutilati, corpi straziati e dilaniati e sangue.
Sembrava che la belva si fosse divertita e avesse giocato con le proprie vittime prima di annientarle in un sadico gioco di terrore e morte.
Nemmeno le case erano state risparmiate: devastazioni e bruciature di un fuoco che non era terreno erano ovunque.
Un particolare che apparve rilevante agli occhi dei monaci fu il fatto che non vi erano cadaveri sulle strade. I corpi dei paesani erano, seppur a pezzi, mutilati e devastati, tutti all'interno delle modeste abitazioni o degli edifici comuni.
Al massimo qualche traccia di sangue sulle vie e i sentieri che univano tra loro le costruzioni rivelava quale disastrosa carneficina era stata perpetrata in quello sperduto paesino di montagna.
Perlustrando il villaggio, nessuno degli abitanti venne trovato vivo: i corpi erano ormai rigidi e la morte sembrava essere calata su tutti loro già da qualche giorno ormai.
Sembrava che nessuno fosse riuscito a fuggire, quindi.
O forse nessuno aveva tentato di fuggire, atterriti e terrorizzati dalla furia inumana della belva.
Impossibile.
Ad una simile devastazione si accompagnano urla strazianti ed un primordiale terrore.
Inevitabile la fuga o la lotta.
Allora perché i corpi dei paesani giacevano all'interno degli edifici e non sparpagliati qua e là?
Per quale oscuro motivo il demone avrebbe dovuto risultare così ordinato nel compiere una simile carneficina? Perché lasciare le strade sgombere da cadaveri?
I monaci non trovarono risposta a questo dilemma.
Forse tutto era stato pensato per un qualche macabro incantesimo o per qualche rituale di magia nera.
Forse la spiegazione era da ricercarsi nei piani del misterioso alleato del demone, colui o coloro addirittura che l'avevano liberato.
Nel primo pomeriggio si ritrovarono di fronte alla chiesa situata nel centro del villaggio: al suo interno un lago di sangue e ovunque l'odore del male.
Nessuno dei paesani che in esso aveva cercato rifugio era stato risparmiato.
E ancora della belva non vi erano tracce né emanazioni magiche.
Sembrava che non fosse presente.
Forse se n'era già andata da tempo dal villaggio di Melorak.
Si sbagliavano.
La creatura infernale comparve all'improvviso.
Si materializzò in mezzo a loro, come se per tutto il tempo fosse stata una silente compagna dei monaci venuti dal sud.
Era una creatura alta circa tre metri, la pelle ricoperta di squame, simile a quella di un drago ma dal colore nero leggermente sfumato verso il dorato sulla schiena e sulle braccia.
La testa orribile, ornata di corna lunghe e appuntite presentava una bocca enorme e occhi rossi, infuocati e malvagi.
Aveva muscoli d'acciaio, possenti ed infaticabili. Aculei spuntavano dalle spalle e ricoprivano le lunghe braccia mentre la coda ondeggiava nell'aria.
Nello stesso istante in cui fece la sua comparsa due monaci caddero a terra.
Morti.
Uno era stato decapitato e l'altro trapassato da parte a parte da un pugno particolarmente devastante e poderoso.
Rapido come era apparso, il demone aveva colpito.
Rimase in silenzio, compiacendosi della propria abilità, assaporando la morte e la vendetta che aveva appena cominciato a dispensare a quei patetici omuncoli che decenni prima avevano osato imprigionarlo.
Nel frattempo i monaci si schieravano per difendersi e attaccarlo.
Uno di essi tuttavia, sconsideratamente, utilizzando il potere della pietra denominata “zampa di tigre”, uno dei monaci si scagliò contro il mostro con le braccia ormai mutate in pericolose zampe feline, pronto a ferire e a lacerare.
Ma il mostro, così com'era giunto, misteriosamente scomparve.
I monaci si guardarono attorno cercando ci capire da dove provenisse ma di lui rimase solo l'agghiacciante risata che si diffondeva nell'aria.
Non ebbero il tempo sufficiente per organizzare una difesa, o per ricorrere alla Comunione dello Spirito.
Quando il demone riapparve, la sorte di un altro di loro era ormai segnata: sollevando l'uomo sopra la testa, lacerandone le carni, lo spezzò in due metà che caddero pesantemente al suolo in un lago di sangue e urla e dolore.
All'unisono tre monaci ricorsero al potere della grafite per riversare delle scariche di energia azzurra contro il mostro ancora ricoperto di sangue umano.
La belva sembrò accusare il colpo, indietreggiando di qualche passo sotto la crescente pressione dell'incantesimo. Poi, ruggendo, puntò le zampe a terra e scatenò il proprio potere contro quei miseri mortali: una feroce fiammata lì incenerì sul posto, una devastante dimostrazione di forza magica.
I restanti tre monaci fuggirono, in preda ad un panico primigenio e primitivo: totalmente sopraffatti dalla forza del demone compresero che non vi era speranza alcuna.
Ridendo eccitata, la bestia si mise al loro inseguimento.
Il primo dei monaci in fuga venne raggiunto dopo pochi metri: i suoi confratelli non si fermarono né ebbero il tempo di intervenire in alcun modo per aiutarlo.
Le sue urla riecheggiarono per pochi interminabili secondi, testimonianza sonora dell'immensa sofferenza patita mentre veniva ridotto a brandelli, dilaniato dai possenti artigli della creatura infernale.
Di nuovo la belva ripartì all'inseguimento delle sue prede disperate.
Uno di quegli stupidi mortali aveva perso i sandali e si dirigeva ormai verso la foresta, mentre l'altro si era rifugiato tra le abitazioni del villaggio.
Fermandosi, ergendosi in tutta la sua altezza, si mise a fiutare l'aria.
Il giovane monaco si era rintanato nell'oscurità di una delle case, cercando rifugio tra i cadaveri orribilmente mutilati dei paesani. Restava in silenzio, immobile, quasi senza respirare.
Aveva paura e temeva di morire, tragicamente consapevole del destino a cui poteva andare incontro non riusciva a togliersi dalla mente le grida di dolore e l'atrocità di cui i suoi confratelli erano stati vittima.
A cosa erano valsi tutti quegli anni di addestramento nell'abbazia?
Come poteva essere contrastato un simile abominio?
Come potevano degli uomini come lui anche solo pensare di opporsi ad una simile furia?
Il terrore si era ormai impadronito del monaco al punto di ottenebrargli la mente impedendogli di rammentare gli insegnamenti che le antiche scritture e anche il santo padre Alexander riportavano in merito alla bestia e a come contrastarla.
E di conseguenza, come per i suoi fratelli morti prima di lui, anche la sua sorte venne segnata.
D'un tratto percepì chiaramente la silenziosa presenza della morte su di lui.
Attingendo al proprio potere magico la belva decise di distruggere l'anima di quel monaco attaccandone direttamente lo spirito.
Inutile il tentativo di resistere.
Il suo spirito venne dapprima estratto dal corpo e poi distrutto dall'oscurità, divorato dalla nera forza del demone.
Poi nuovamente all'inseguimento, a caccia di quell'ultimo stolto umano che aveva scelto la foresta come luogo in cui andare a morire.
Il giovane monaco correva a perdifiato.
Correva scalzo oramai: i sandali li aveva perduti nell'impeto di quella sua corsa disperata.
Negli occhi l'orribile spettacolo della disumana potenza della belva.
Le lacrime ed il terrore primordiale, l'orrore e la paura della morte.
Non vi era scampo.
Non vi era scampo!
Non vi era scampo!!!
Il respiro affannoso e interrotto: pensava soltanto a fuggire, a scappare da quell'incubo, ad allontanarsi dal villaggio e dal demone.
Dietro di lui la bestia lo stava già seguendo, un animale immondo e terribile, infaticabile e tremendo lanciato sulle sue tracce.
Senza riflettere, senza nemmeno accorgersene, il monaco si diresse verso la piccola chiesa che si ergeva nel cuore della foresta: un antico luogo sacro, fondato dai primi confratelli che con grande sforzo avevano portato la fede in quelle remote regioni dell'Alpinador.
Il giovane entrò nella chiesetta, incurante del fatto che al suo interno sarebbe stato in trappola.
Un luogo austero e semplice, umile, spoglio senza nulla di quelle superflue decorazioni che potevano vantare le chiese e le cattedrali situate nelle grandi città più a sud.
In ginocchio, davanti all'altare su cui brillavano alcuni lumini, iniziò a pregare, tremando e balbettando.
Iniziò a pregare, sentendo un'opprimente consapevolezza crescergli dentro.
Per cosa erano stati addestrati?
A cosa era servita la sua conoscenza della magia e delle arti marziali?
Come poteva essere vinta una simile creatura infernale?
Perché un tale abominio camminava e viveva nel mondo libero di operare il male e ogni sorta di atrocità?
Quale Dio poteva permettere tutto ciò?
In preda al terrore il monaco pregava e ancora prega per la propria salvezza.
Leonardo Colombi