9. I temi della Cesira.
Nella primavera del '52 era ancora fresco il ricordo del Polesine. La grande alluvione era cominciata mercoledì 14 novembre 1951, con la rottura dell'argine maestro di Occhiobello. Nelle nostre colonie marine erano arrivati i profughi. Era stato un susseguirsi di Giornali Radio dolorosi. La "Catena della Fraternità" aveva portato in casa, dai microfoni della Rai, il dramma di terre che parevano lontane. La trasmissione raccoglieva fondi, in collegamento con tutte le altre emittenti europee.
Una delle voci più popolari della radio era quella di Sergio Zavoli, che proveniva da Rimini. Poi c'erano Silvio Gigli, Corrado Mantoni e Mario Ferretti, cronista principe delle corse ciclistiche come il Giro o il Tour. Al passaggio delle tappe del Giro, la gente scendeva nelle strade, per una festa popolare fatta di emozioni semplici e di felicità spicciola. I corridori erano preceduti dalla carovana pubblicitaria che accontentava la folla con il lancio di una lametta o di un berrettino di carta. Poi transitava il direttore di gara Vincenzo Torriani, un amico di Rimini, che nella nostra città ha portato tante volte i "suoi" corridori, e subito dopo il gruppo che in un attimo chiudeva l'esibizione spettacolare, lasciandoci nell'atroce amarezza di non aver identificato neppure la maglia rosa. Ma la gente era felice lo stesso. I corridori li aveva "visti" passare. Perlomeno, aveva visto transitare il Giro.
Nel negozio di Delucca & Vincenzi, all'angolo fra il corso d'Augusto e piazza Cavour, apparivano in vetrina i primi televisori, per ricevere le trasmissioni sperimentali (quelle regolari sono del '54). Le cronache dal Giro erano trasmesse soltanto alla radio. Davanti alla bottega di Athos Bianchini, costruttore e riparatore di apparecchi riceventi, nel palazzo Garattoni, un altoparlante radunava ogni pomeriggio una piccola folla di tifosi delle due ruote, che immaginavano salite, discese, volate e bagarre attraverso le parole di Ferretti.
Altri spettacoli erano meno lieti. Il carro funebre che stazionava difronte alla chiesa, dichiarava lo stato sociale del defunto. C'erano "accompagni" di prima, seconda o terza classe, come i viaggi in treno. I più benestanti offrivano un supplemento di presunta filantropia, rivolto agli orfanelli che, accompagnati dalle suore, prestavano servizio all'inizio del corteo, nelle loro divise con una corta mantellina, come si vedono anche in certe immagini di Fellini relative però agli Anni Trenta. I maschi anche d'inverno portavano calzoni corti su minuscole gambe arrossate dal freddo. Per primi uscivano dalla chiesa dopo la funzione, e poi dovevano stazionare immobili, ci fosse il sole o la neve, fino a che si completava il rito del saluto dei parenti, recitando preghiere a suffragio dell'anima del defunto. Che la pietà con cui le orazioni venivano pronunciate, fosse o no pari alla spontaneità, nessuno può sapere: ma è facile immaginare quanti amari segni abbia lasciato in quei bambini l'esibizione, oltre tutto frequente, in scenari di dolore che rubavano loro ogni ipotesi di sorriso, instillandogli invece gocce di tristezza supplementare al loro già amaro destino di creature senza un padre o una madre.
Altri poveri passavano per il Borgo San Giovanni, salendo dall'arco d'Augusto alla Caserma Giulio Cesare lungo la via Flaminia, nel pomeriggio, all'ora della distribuzione del rancio. Portavano in mano una gavetta militare ed indossavano abiti la cui abbondanza, rispetto al corpo che ricoprivano, denunciava la provenienza in gesti caritatevoli di soccorso. Era una fila lunga soprattutto d'inverno, costituita in prevalenza da persone anziane che s'affidavano alla pietà dello Stato che non aveva altri modi per intervenire. I Comuni, per l'assistenza sanitaria ai "bisognosi", rilasciavano un documento su cui, a scanso di equivoci, si leggeva: "Tessera di povertà". Un Commissario prefettizio di Rimini, in quegli anni, rifiuterà la domanda per una dentiera, allegando un consiglio: "Se non può mangiare, inzuppi del pane nell'acqua".
All'arco d'Augusto transitava il "trenino della ghiaia", la ferrovia per Novafeltria. L'ampio piazzale Giulio Cesare, deserto e polveroso, ospitava giostre, autoscontri ed altri baracconi per la felicità infantile. D'estate in un baracchino vicino all'edicola, nel lato verso mare, si vendevano granite macinate a mano, e tinte di rosso o di verde. Ogni giorno dovevo attraversare il piazzale per andare alla nuova scuola, "le Tonini", dove la nostra quinta era stata trasferita ed affidata ad un altro maestro anziano, Edmondo Monti. Era una classe impegnativa, con due esami, quello finale di Licenza elementare e quello di Ammissione alle Medie, per il quale ci si doveva preparare privatamente (andai dal maestro Antonio Voria, che abitava vicino a casa), e presentare davanti ad una Commissione di professori, in via Cairoli.
Il maestro Monti chiudeva ogni giorno di scuola con la lettura dei "Promessi Sposi": alcuni brani li imparammo a memoria, assieme a tante poesie. Ricordo ancora "Il Cinque Maggio". Per farci migliorare nel profitto, il maestro ci strapazzava con burberi richiami, e ricorreva all'aiuto della moglie che insegnava in un'aula accanto. Era lei che ci spediva, ad esempio di virtù letteraria e di capacità di studio, la più intelligente e graziosa delle sue alunne, la Cesira dalle lunghe trecce, la quale ci leggeva una interminabile tiritera letteraria che rischiava di renderci antipatico non solo il soggetto in sé, ma il simbolo della "categoria" femminile alla quale apparteneva, senza che noi sapessimo il perché della differenza rispetto alla nostra.
La prima lezione di educazione sessuale la ricevetti da un'incolpevole e matura signorina, tra l'altro dotata sotto l'aspetto estetico, se non sicuramente brutta come la gozzaniana signorina Felicita, con negozio in corso d'Augusto davanti al Liceo classico. Bisognoso di una spina per un impianto di illuminazione al presepe, alla richiesta fui da lei interpellato con un fare frettoloso che sottolineava il suo difetto nel pronunciare le esse: "Maschio o femmina?". Colto in fallo, e non sapendo che rispondere, me la cavai con diplomatica furbizia: "Tutt'e due". Ero impreparato sull'argomento: nessun elettricista fino ad allora mi aveva posto siffatti problemi. "Così va spesso il mondo voglio dire, così andava" negli Anni Cinquanta.
Sommario
1. Camicia nera della ricreazione
2. «Obbedite al Capoclasse!»
3. Ci curavano alla Molière
4. I piombi di Viserba
5. L'aquilone del nonno
6. A Montefiore Conca
7. Dettato all'americana
8. Alla «dottrina»
10. Post-scriptum
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