il Rimino

il Rimino - Riministoria

Antonio Montanari
Anni Cinquanta
I giorni della ricostruzione visti da un bambino, 1948-1953
Ed. Guaraldi 1994

4. I piombi di Viserba

La stessa ferrea disciplina che accompagnava il decorso delle malattie, doveva guidare anche la convalescenza, secondo un rigido repertorio di precauzioni. Ciò favoriva un ritardato rientro a scuola, grazie allo scrupolo sanitario di chi doveva certificare l'avvenuta guarigione dai morbi infantili, onde evitare la diffusione del contagio. Ma se è vero che era meglio adempiere l'obbligo naturale di quelle patologie, tale diffusione non avrebbe dovuto esser favorita, onde sbrigare tutto nel minor tempo possibile? Stranezze di pensieri della vecchiaia che proietto, con l'illusione della memoria, nella mente del fanciullo di allora, che chissà cosa meditava. Forse nulla, arrendendosi all'inevitabilità dei fatti che accadono.

Resta viva nel ricordo, l'immagine di un paio di calzoni. Dopo un terno secco, fatto di morbillo, orecchioni e "tosse cattiva", essi mi vennero presentati come premio per la riacquistata salute. Mi si disse che erano di stoffa pregiata, la vigogna, una rarità in quel 1948, un inverno uguale agli altri, ma con in più la minaccia che "vontasse" l'Ausa, come diceva la gente. Oggi di questo ex fiume, ridottosi a puro scampolo di nomenclatura urbana, restano vaghe e pacifiche tracce. Il suo corso verso il mare è stato nascosto. Nessuno ne sa nulla. Ma in quei giorni del Dopoguerra, le sue piene invernali facevano paura a chi, come noi, abitava a poche centinaia di metri dal suo letto, vicino alla fornace Fabbri, dove oggi è tutto case e parchi.

In quell'inverno, dunque, i miei calzoni nuovi dovevano significare un'occasione di profonda felicità. Così me li presentarono, come amorevole conforto dopo tanti giorni trascorsi a letto, e come nobile testimonianza dell'affetto famigliare.

Purtroppo lasciai delusi tutti, quando indossai quei calzoncini lunghi, come al solito tagliati "alla zuava" da una sarta che abitava proprio vicino al fiume. (A noi non erano permessi quelli interi ad imitazione degli adulti, come usa oggi, così come alle donne erano proibiti fin dai tempi del fascismo i calzoni da uomo, tutt'al più esse potevano aggirare l'ostacolo con apposite gonne dette a pantalone. Mistificazione palese e sommersa soddisfazione si avviluppavano attorno al pilastro dell'ipocrisia sociale).

Non sopportavo quella stoffa che mi veniva declamata come pregiata, e che invece mi appariva parente prossima della carta vetrata. Si sa che le opinioni infantili non godevano, un tempo, delle approvazioni da parte del mondo adulto. Il dottor Spock non aveva ancora pubblicato i suoi libri. E così, non fui creduto: si scambiò per un capriccio bambinesco il mio parere, solidificatosi poi in un reciso rifiuto di quei pantaloni. E dai calzoni, qualche anno dopo, venne ricavata a malincuore una sciarpa per mio padre. Lui non la indossò mai: "raspava troppo", diceva. Avevo avuto ragione, finalmente. Ma quale delusione avevano provato allora i miei che avevano speso tanto per quei calzoni. La vigogna ai loro occhi era parsa, senza dubbio, come un segno della sopraggiunta libertà, della fine dei sacrifici della guerra. Di sacrifici, ce ne sarebbero stati altri nel nostro futuro, ma in tempo di pace era tutt'altra faccenda. Non sapevo nulla di queste cose, né dell'autarchia che, ai tempi delle "inique sanzioni", aveva propagandato la lana del coniglio come "la vera lana dell'italiano", con uno slogan poco guerriero, sùbito ritirato dalla circolazione. L'ignoranza della storia, a sei anni, giustificò la mia ingratitudine verso quel paio di calzoni che potrei pomposamente chiamare "della ricostruzione". Resta comunque il fatto che nelle mie cellule cerebrali, i calzoni di vigogna del '48 si sono fusi con il ricordo delle tre malattie infantili che avevo sopportato.

Nel comportamento degli adulti, davanti a questi eventi sanitarî, confluivano salde cognizioni igieniche e consuetudini che risalivano alle precedenti generazioni. In queste consuetudini, poi, si potevano rintracciare i segni di modelli più o meno inconsci di comportamento collettivo, secondo cui la malattia non era soltanto un fatto biologico legato alla vita dell'uomo, ma aveva in sé anche un qualcosa di diverso, una specie di aspetto magico, al quale si ricorreva in particolari situazioni, soprattutto per propiziare la guarigione.

Faccio un esempio, legato ad un'esperienza vissuta da protagonista. Usava in Romagna in quegli anni, "curare" i vermi infantili con l'impiombatura. Il mio fatto personale accadde nel 1946, a Viserba, ultimo dei nostri sfollamenti e prima del rientro a Rimini, avvenuto l'anno successivo. Avevo 4 anni. La signora Tranquilla (che ai miei occhi apparve, e resterà, personaggio che nel comportamento tradiva clamorosamente il nome che portava), era una negoziante di bellissimi giocattoli, che s'adoprava anche nel fare iniezioni a domicilio e a curare in maniera non ortodossa certe situazioni come appunto quella dei vermi, che è statisticamente molto frequente nei fanciulli.

Il metodo usato dalla signora Tranquilla consisteva nel porre sopra il capo del disgraziato un catino di acqua fresca, in cui versare del piombo fuso. La scienza ci spiega che il piombo (come ben sanno i cacciatori), a contatto con l'acqua, si rapprende e forma dei pallini più o meno regolari, detti "cagarelli" nel linguaggio popolare. Si attribuiva, invece, a quegli oggetti una specie di consolidamento trasmigratorio dei vermi, secondo una teoria che rassomiglia vagamente alla metempsicosi platonica: i vermi, secondo questa teoria, uscivano dal corpo in cui si trovavano insediati, e si raggrumavano in un'altra materia, restando per sempre estinti.

Non so per quale interna agitazione od altra causa, la signora Tranquilla sbagliò mira nel momento cruciale del "getto del piombo" fuso nel catino, per cui ne cadde una sbavatura sulla mia innocente gambetta sinistra che poi venne fasciata vistosamente, a testimonianza che, come già aveva sperimentato Galileo, l'ignoranza scientifica provoca sempre le sue vittime.

La natura ci fa nascere con un distacco dalle cose del mondo, che vien poi a mancare con la crescita. Grazie a questa qualità innata, credo di aver potuto superare lo choc provocato da quell'operazione di magia. Grazie al cielo, nessuno poi ritentò la pratica purificatoria. Ciò, d'altro canto, non mi spinge a ritenere che essa fosse veramente riuscita nell'intento. Con sano realismo, forse, ci si arrese ai vermi più che all'evidenza, magari ricorrendo ad altri riti sterminatorî, con spicchi d'aglio ritenuti utili allo scopo, nella medicina popolare, fin dalla notte dei tempi.

Si fa presto a sorridere di queste cose, relegandole con antica semplicità nel campo della pura superstizione. Probabilmente, esse sono invece risposte elementari a quell'eterno bisogno dell'uomo di avere certezze e strumenti con cui credere di poter rimediare all'irrimediabile. Se Severino Boezio scrisse il suo "De consolatione philosophiæ", la cultura comune (usando il termine in senso sociologico), ha abbozzato da sempre una specie di "De consolatione magiæ", scritta od orale che sia, non importa granché.

Uno specialista di queste cose, Umberto Foschi (nella prefazione a "Medicina popolare romagnola" di Vittorio Tonelli, 1981), ha limitato sbrigativamente il problema ad una sola categorie di persone: "I contadini romagnoli non avevano certo molta fiducia nell'arte medica e nei medici, come del resto non apprezzavano tutto ciò che non capivano".

La mia famiglia non aveva origini contadine; almeno nelle due ultime generazioni, era di stampo medio-borghese, cittadino. La guerra ci aveva lasciato in brache di tela, senza una lira ed una cosa, ma con il cane vivo come tutti noi. Quindi, l'impiombatura operata dalla signora Tranquilla non può giustificarsi con la sola origine sociale di chi fa ricorso a certi rituali. Il problema è un altro, e oggi gli studiosi lo sottolineano con chiarezza. Certe domande, contadini o impiegati, se le pongono tutti, sia in dialetto che in lingua nazionale. Il dottissimo Leopardi quando interroga la luna per conoscere i misteri dell'universo e della vita, si maschera da "semplice pastore".

La distinzione per categorie sociali, esisteva allora per altri motivi, al di là di quello sanitario, ed in tutti i settori. La gente faceva la scampagnata in bicicletta, le auto erano poche: si ammiravano i campi al tramonto, li si definiva belli, ma si capiva poco la fatica del lavoro agricolo, anche se i nostri libri delle elementari erano pieni di retorico elogio di chi coltivava quel grano che poi finiva sulle nostre mense. Ma l'opinione comune faceva del contadino un moderno primitivo che non capiva il mondo, ed era capace soltanto di vivere secondo modelli tutti propri.

Quella frase di Toschi deriva da questa concezione del contadino, e spiega male il problema che oggi viene affrontato da un'angolazione scientifica. (Si veda, come dicono gli esperti, il volume di Eraldo Baldini "Riti del nascere", Longo editore 1991, su "gravidanza parto e battesimo nella cultura popolare romagnola": leggende, superstizioni e miti vi sono interpretati secondo le moderne teorie etnologiche che cercano di cogliere il simbolismo dei gesti compiuti).

La nostra era una famiglia religiosa, quindi nessuno in casa attribuiva a quel rito dell'impiombatura un significato magico nel senso pagano del termine. Ciò vuol dire che anche in una famiglia non contadina e religiosa, l'inspiegabile poteva essere una categoria intellettuale da non accantonare, e a cui far ricorso, per collocarvi come antidoto ciò che non si sapeva come funzionasse?

Forse, il verme non era visto soltanto come un fastidioso animaletto parassita dell'intestino, ma quale segno misterioso di una indecifrabile realtà che opera diabolicamente nell'uomo. Ed il piombo fuso era interpretato come il chiodo-schiaccia-chiodo, la fiamma contro il fuoco infernale rappresentato simbolicamente dal verme.

Certo, la signora Tranquilla ignorava che, in tempi di Controriforma, era finito sul rogo chi aveva creduto l'uomo nato dalla terra come il verme nasce dal formaggio. Ma sia lei, esecutrice del misfatto, sia i mandanti dell'impiombatura, erano tutti in buona coscienza di compiere un atto lecito, con una sua misteriosa o misterica validità scientifica. D'altro canto, mia madre racconta di se stessa ragazzina che aveva regolarizzato la propria crescita, salendo a piedi da Morciano a Montefiore Conca, alla capanna di un vecchio stregone che l'aveva segnata con una triplice Croce sulla fronte.

Per mia condanna, una cartolaia di Viserba doveva sbagliare la mira. Ma di quell'esperienza, rammento chissà perché non il dolore provocatomi dall'ustione, ma soltanto il profumo del negozio della signora Tranquilla, con i giocattoli e le prime figurine mai viste. Ecco, lampante, ciò che dicesi l'incoscienza infantile.

Sommario

1. Camicia nera della ricreazione
2. «Obbedite al Capoclasse!»
3. Ci curavano alla Molière
5. L'aquilone del nonno
6. A Montefiore Conca
7. Dettato all'americana
8. Alla «dottrina»
9. I temi della Cesira
10. Post-scriptum


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