il Rimino

il Rimino - Riministoria

Antonio Montanari
Anni Cinquanta
I giorni della ricostruzione visti da un bambino, 1948-1953
Ed. Guaraldi 1994

8. Alla "dottrina"

La cronaca della quarta elementare, nell'anno scolastico 1951-52 e con lo stesso insegnante del precedente, si riassume in un evento che ebbe il suo scenario fuori della vecchia aula di via XX Settembre, e sconfinò nel territorio limitrofo della chiesa parrocchiale di San Giovanni Battista e addirittura in Duomo: la Prima Comunione e la Cresima.

Nel recuperare brandelli di quell'evento, tra la memoria personale e la pagina scritta si frappone una specie di filtro che frena la penna. Su di esso si depositano silenziosamente i sentimenti individuali. È l'accumulo dei ricordi che nulla contano se non dicono qualcosa che superi il senso dell'esperienza personale. Ci misuravamo allora per la prima volta con l'Eterno. Il sentimento era semplice. Lì stava la nostra gioia. Il mondo era lontano, con il suo groviglio di problemi.

Scuotere quel filtro, per decifrare i fatti e gli ambienti del tempo, vuol dire scagliare sulla carta frammenti d'immagini che dovrebbero ricomporsi in un puzzle, dove lentamente far riaffiorare suoni e colori di allora. Chissà perché, viene difficile rintracciare le parole che sembrano oggetti nascosti, e pieni di screpolature e di sovrapposizioni lasciate dal fluire del tempo, e che si scoprono una volta recuperati. È forse l'effetto del ripescare, nei fanciulli che fummo, quello che allora pensavamo di essere.

La festa era intesa in molti sensi, non solo in quello religioso. Per i bambini, non usavano allora vestiti da cerimonia con calzoni lunghi. Ad alcune bambine, invece, le madri affidavano abiti lussuosi come da sposa. C'era quasi una contraddizione in quello che accadeva: lo sfarzo, numericamente, mortificava più persone di quante potessero trarne motivo di orgoglio. Le famiglie erano numerose, non tutte "potevano permettersi" di scialare. C'erano fanciulli che avevano visto adattarsi l'abito usato da un loro fratello, dodici mesi prima. In quella cerimonia si proiettava anche un'Italia che voleva riassestarsi, che alla domenica imponeva il vestito buono per la messa o la passeggiata pomeridiana. Che ricercava modeste consolazioni in alcune cose considerate allora straordinarie, mentre oggi appaiono indispensabili o normali.

Erano gli anni della guerra fredda. La sera si ascoltava la radio. Era fresco il ricordo del Polesine. Nelle nostre colonie marine, erano arrivati i profughi. La grande alluvione era cominciata mercoledì 14 novembre 1951, con la rottura dell'argine maestro di Occhiobello. Era stato un susseguirsi di Giornali Radio dolorosi. La "Catena della Fraternità" aveva portato in casa, dai microfoni della Rai, il dramma di terre che parevano lontane. La trasmissione raccoglieva fondi, in collegamento con tutte le altre emittenti radiofoniche europee. Il cuore del Continente, che aveva nei nostri emigranti le braccia che scavavano nelle miniere o che costruivano nelle fabbriche, batteva per soccorrere nella tragedia che appariva irreparabile. La sigla della trasmissione era tolta dall'intermezzo della "Cavalleria rusticana" di Mascagni. Una delle voci più popolari della radio era quella di Sergio Zavoli, che proveniva da Rimini. Poi c'erano Silvio Gigli, Corrado (Mantoni), e Mario Ferretti, cronista principe delle corse ciclistiche come il Giro o il Tour. Al passaggio delle tappe del Giro, la gente scendeva nelle strade, per una festa popolare fatta di emozioni semplici e di felicità spicciola. I corridori erano preceduti dalla carovana pubblicitaria che accontentava la folla con il lancio di una lametta o di un berrettino di carta. Poi transitava Torriani, un amico di Rimini, che nella nostra città ha portato tante volte i suoi corridori, e subito dopo il gruppo che in un attimo chiudeva l'esibizione sportiva, lasciandoci nell'atroce amarezza di non aver identificato neppure la maglia rosa. Ma la gente era felice lo stesso. I corridori li aveva "visti" passare. Almeno, aveva visto transitare il Giro.

Nel negozio di Delucca & Vincenzi, all'angolo fra il corso d'Augusto e piazza Cavour, apparivano i primi televisori, per ricevere le trasmissioni sperimentali (quelle regolari sono del '54). Le case venivano rivoluzionate dai fornelli a gas. Per cuocere il mangiare, non era più necessario usare la carbonella. Nell'inverno, la vecchia cucina economica assolveva ad una doppia funzione, gastronomica e calorifica. Per riscaldare la casa, c'erano le stufe Becchi di terra rossa.

Gli inventari casalinghi avevano parecchie caselle vuote, si sentiva dire: "Questo l'ho perso con la guerra", erano elenchi interminabili. Si era ricominciato da capo. Pezzo dopo pezzo, risparmio su risparmio. E chi aveva i servizi dei bicchieri, dei piatti, con annessi e connessi per il ricevimento in occasione della Prima Comunione? Si prendeva tutto in affitto.

Per completare il cerimoniale del cosiddetto rinfresco, e nel contempo, operare nei limiti imposti dalle ristrettezze economiche, le madri preparavano in casa i liquori. C'erano i famosi Estratti Bertolini che ingannavo anche palati che vantavano gusti da intenditori. Mai beffa fu più innocente, e mai venne svelata alle vittime che rimasero felicemente sempre ignare.

"Sarà il giorno più bello della vostra vita", ci avevano suggerito tutti. Dalle lezioni di Religione in classe, tenuteci da un paziente don Italo Urbinati allora giovanissimo cappellano, in quell'anno scolastico si saltò alla "dottrina" pomeridiana, dove una signora dotata di altrettanta forza di sopportazione, il suo cognome era Stamura, teneva a bada nella sagrestia un plotone di innocenti ribelli che doveva essere addomesticato attraverso l'apprendimento mnemonico delle risposte riportate nel vecchio Catechismo, quello di papa Pio Decimo.

Ogni tanto, un'ispezione del parroco don Peppino Molari, gettava tutti noi nel panico. Ed allora la sagrestia precipitava in un silenzio insolito. Sul dovuto rispetto, prevaleva il timore per chi sa quale tremendo provvedimento, anticipato dal solo nome del sacerdote, pronunciato come minaccioso redde rationem per nostre eventuali inadempienze nella preparazione o per l'indisciplina che serpeggiava tra le banche. Don Paoletti, vecchio e serafico, per ore chiuso in un'umida celletta che fungeva da confessionale, ascoltava e benediva le prime confessioni.

Alla vigilia della cerimonia don Peppino fece le prove generali all'altar maggiore. In fila, quel sabato mattina avevamo forse tanti pensieri nella testa. Il sacerdote era sull'ultimo gradino, noi dovevamo salire in fila. Scendendo, guardavamo la chiesa in tutta la sua vastità. La mattina dopo, tra le luci, i profumi d'incenso, l'aria riscaldata dalla "folla dei fedeli" lungo la navata, la scena aveva il rigore e l'ansia nervosa dei momenti cruciali: "Attenzione, non dovete sbagliare", ci avevano detto. Non era rispetto dovuto alle cose umane (al quale eravamo un po' tutti abituati), ma verso il Sacro, a cui ci avvicinavamo per la prima volta. "Dovete aprire i vostri cuori al Signore". E qualcuno aveva tirato un profondo respiro per far posto ai nuovi pensieri.

Guanti bianchi reggevano il libretto delle preghiere altrettanto candido, con l'immagine di Gesù che raccoglie benedicente i pargoli. Noi ripetevamo quella scena. Timorosi e raccolti, le mani giunte sul petto, salimmo per ricevere da don Peppino l'Ostia consacrata.

La Comunione e la Cresima, in quel maggio '52, venivano celebrate in maniera diversa dagli anni precedenti, quando il sabato pomeriggio il vescovo si recava in parrocchia per cresimare "a porte chiuse". Noi invece andammo in Duomo, il pomeriggio della stessa domenica. Mons. Luigi Santa ci dette il famoso "schiaffo", facendoci quel segno della Croce sulla fronte che, per impaurirci, avevano detto essere la battuta di un chiodo.

La festa collettiva, il rito pagano del rinfresco, convocava amici e parenti attorno alla tavola imbandita di cioccolata. L'aveva preparato fin dal mattino la zia Bibina, zia di mia madre, in un pentolone che appariva enorme. Lì dentro, doveva travasarsi il segreto di una mescolatura, paziente e saggia, da cui far scaturire la bevanda, densa ma non raggrumata, dolce ma capace di far gustare l'amaro intrinseco in tutta la preziosità della sostanza. Fumante di continuo, nonostante il passare del tempo, quella cioccolata andava a solleticare i palati di quanti, girandoti attorno, facevano rimbombare la piccola stanza di continue ed irrefrenabili parole. Soltanto nei pochi minuti in cui le tazze venivano accostate alle labbra, ti era dato di apprezzare il valore impareggiabile del silenzio.

Sommario

1. Camicia nera della ricreazione
2. «Obbedite al Capoclasse!»
3. Ci curavano alla Molière
4. I piombi di Viserba
5. L'aquilone del nonno
6. A Montefiore Conca
7. Dettato all'americana
9. I temi della Cesira
10. Post-scriptum


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