il Rimino

il Rimino - Riministoria

Antonio Montanari
Anni Cinquanta
I giorni della ricostruzione visti da un bambino, 1948-1953
Ed. Guaraldi 1994

1. Camicia nera della ricreazione



Primo giorno di scuola della prima elementare. Primo ottobre 1948. Al primo piano di un vecchio edificio del Borgo San Giovanni, la via XX Settembre. Scala senza ringhiera. Bui i locali. Si sente nei corridoi la puzza dei gabinetti. Dentro le aule trionfa l'odore dell'inchiostro, contenuto in grossi calamai di vetro infilati nei vecchi banchi di legno. La maestra Erminia Ghelfi ved. Pattuelli ha l'aspetto solenne di un'insegnante ottocentesca. È al suo ultimo anno di servizio.

La guerra è finita da quattro anni, almeno per noi riminesi. In giro c'è tanta miseria. La vedi disegnata sui volti della gente, nei panni che indossa. Le differenze sociali le noti già dal vestito. Quasi tutti i bambini portano pantaloni corti anche d'inverno, e zoccoli ai piedi, ricoperti sul davanti da una mascherina di cuoio, per attenuare il freddo. Le calze sono di lana grossa, fatte in casa, a cento colori con gugliate purchessia. I bambini poveri li distingui anche perché non hanno mai il fazzoletto. Tirano sù con il naso, ed il naso manda giù candele che procurano rimbrotti e soccorsi ufficiali della maestra nella pulizia del viso. Per loro c'è la refezione: al termine delle lezioni restano in aula, dove viene servita una minestra con una piccola pietanza. A loro le maestre regalano quaderni e matite.

I muri della scuola sono di un colore neutro, freddi e severi. La disciplina che ci viene imposta, non scherza. Per tanti di noi, nati durante la guerra, non significava nulla la parola asilo. L'entrata in un'aula scolastica era il passo inesperto e traumatico che ci separava dalla famiglia. Non eravamo preparati al "primo giorno". C'erano soltanto le amicizie che si facevano a casa, dove si formavano le bande. Se si voleva acquistare un ruolo, si imparava a menarsi o a distruggere le cose, tirare ad esempio fiondate ai nidi delle rondini. Non ho mai posseduto una fionda. Quell'oggetto andava confezionato a regola d'arte, con lunga pazienza. Alla ricerca del ramo biforcuto, seguiva la preparazione dell'elastico, ricavato da qualche camera d'aria di biciclette, e poi c'era il montaggio finale con ampi giri di corda per fissare le estremità dell'elastico. Ho provato ammirazione per l'abilità tecnica di chi la costruiva. Ma l'uso a cui la fionda era destinata, mi ha sempre suscitato un inconsapevole rifiuto. Stavo dalla parte delle rondini. Una volta piansi per loro, quando vidi che il nido sotto il tetto di casa, era stato sbriciolato con un colpo magistrale dal mio coetaneo del pianterreno.

S'andava a scuola malvolentieri. Le quattro ore di lezione erano come un carcere obbligatorio. Non eravamo considerati bambini che dovessero vivere la loro infanzia. Esistevano soltanto regole da rispettare. Abbiamo cominciato con le aste. Pagine e pagine di quaderni per apprendere come si maneggiava la penna, la quale era composta da una cannuccia di legno e da un pennino metallico, che doveva essere bagnato nell'inchiostro. Il calamaio era una zona franca della fantasia infantile. Carte, mosche, ragni e gessetti contribuivano ad intorbidire quel liquido nerastro che le bidelle vi versavano da grosse bottiglie, asciugando le gocce dai bordi con stracci neri che rivelavano la loro origine di rifiuti domestici.

Il pennino intinto nell'inchiostro faticava a procedere sui fogli dei quaderni. Avevamo imperizia nel maneggiare la cannetta, ma c'era pure l'ostacolo rappresentato dalla porosità della carta. Il pennino spesso s'impennava sui fogli, e s'imbizzarriva come un cavallo, non volendo più procedere. La spinta che lo scolaro dava alla penna, provocava uno scatto improvviso ed imprevisto del pennino che lanciava la sua macchia d'inchiostro nel raggio di qualche decina di centimetri.

Poteva esser colpita soltanto la pagina del quaderno. Allora, un veloce intervento con la cartasciuga neutralizzava parte del colore dell'inchiostro, non troppo resistente. Seguiva poi il rapido sgretolamento dell'impronta, con quelle gomme ruvide che dovevano essere maneggiate con estrema attenzione. Il più delle volte, l'imperizia spingeva la mano a sfregare la carta, sino ad annullare un pezzo del foglio. E così si apriva un occhio curioso sulla pagina successiva, facendo agitare la maestra che diceva: "Non si fa così".

Le cose andavano peggio se la macchia finiva a depositarsi sul nostro collettino bianco. Nel qual caso i conti erano da farsi a casa, con problemi di smacchiatura per far scomparire un'ombra indegna sull'immacolato lindore dell'indumento, o per meglio dire dell'appendice necessitata dell'indumento.

La nostra divisa scolastica era infatti composta di tre parti. Un grembiule nero, un colletto bianco ed un fiocco azzurro. Il colletto era concepito come indipendente dal grembiule. Il grembiule aveva una sua antica caratteristica oggi per fortuna scomparsa: doveva inevitabilmente chiudersi sul retro. Chi avrà mai inventato questa straordinaria divisa, priva di ogni praticità? L'apertura posteriore del grembiule ai maschi poneva un problema funzionale, perché in taluni frangenti non coincideva con quella dei calzoni.

Il colletto girava perennemente su se stesso, per cui il fiocco cedeva a posizioni oblique volando da ogni parte, tranne che in quella giusta. Sul petto dalla parte sinistra, infine, la decorazione della riga doveva indicare la classe che si frequentava. Qualcuno si fregiava della decorazione sul braccio come i militari. E tali forse erano i padri dei figli che così venivano esibiti.

Il mio grembiule, con quale stoffa fosse stato confezionato, me lo spiegò mia madre pochi anni fa. Era la camicia nera di mio padre. La fortuna volle che io fossi stato soltanto "figlio della Lupa". Mi avevano dichiarato tale alla nascita, nel 1942. La guerra, con le sue tragiche pagine, mi evitò di salire ai gradi superiori del cursus fascista. Così, non sono mai stato "balilla". Tuttavia, ho portato in me il segno del passato regìme con il candore dell'innocenza, pari a quello con cui mio padre aveva indossato la camicia nera, obbligatoria per mangiare, quando la tessera del fascio veniva chiamata la "tessera del pane". Candore che capisco soltanto ora, ripensando che mio padre non ricordava mai "lui", cioè il duce, e che non ha poi avuto nostalgie politiche. Aveva capìto durante la guerra (penso io), quanto fossero state scioccamente illusorie le sfilate, le parole d'ordine, che nessuno tranne pochi, sul finire di quegli anni Quaranta, voleva rammentare o riproporre a noi giovani, a conflitto mondiale concluso.

C'era stato dopo la guerra, nella gente, come un blocco psicologico, un trauma. Gli scampati contavano le macerie, quelle dei loro cuori e delle loro giovinezze, e non ci dicevano nulla. A scuola, che cos'era la Storia? La lupa scendeva dal piedistallo che l'aveva elevata a simbolo di una vicenda grandiosa. I fatti erano successioni di immagini, Orazi e Curiazi, Muzio Scevola, Giulio Cesare, Augusto, Tiberio, Carlo Magno. Così come la cultura era successione di dati. Tre per tre, otto per sette (e sette per otto: cioè, il massimo dell'ambiguità matematica), venti diviso quattro, ed ancora sette per otto. E poi le massime, tipo "L'ozio è il padre dei vizi" che diventava "Lo zio èŠ", dove un'improbabile parentela veniva con incoscienza rivelata a quella pubblica moralità che esigeva regole ben precise, almeno nelle apparenze. Regole severe come quelle che applicavano a noi poveri allievi all'inizio delle elementari. Attenti, riposo, mani "in prima" (appoggiate sul banco), mani "in seconda" (dietro la schiena), che erano il viatico a punizioni severe, lunghi silenzi che dovevano essere sopportati stoicamente, perché così voleva la Scuola.

Cadente di fuori, questa Scuola aveva dentro di sé una forza inimmaginabile, il vigore dell'imposizione. In questo modo, siamo cresciuti uomini d'ordine, o ci hanno predisposto alla ribellione? È difficile rispondere, come è arduo capire quei tempi, che segnavano il passaggio da un mondo all'altro. I nostri vecchi maestri, che cosa volete che si chiedessero. Pedagogicamente, si erano formati nell'Italietta giolittiana. Poi avevano visto trionfare il fascismo, e chissà quante baggianate avranno dovuto dire o sentire, sempre in nome della "tessera del pane". Finita la guerra, democrazia che parola era? Anche le parole hanno un sapore. Che non per tutti è uguale.

I nostri primi giorni di scuola, sembravano da reggimento deamicisiano. Leggere, scrivere e far di conto: questa la meta prima (e forse ultima) che la classe insegnante si poneva nella sua attività didattica. Stanchi della Storia, invecchiati per l'età, i nostri maestri ci coccolavano con un sorriso e ci torturavano con la regola, l'imposizione, il dover fare i compiti, gli esercizi, i disegni così come volevano loro, anzi come volevano i princìpi della Scuola di quei giorni. Forse guardavano a noi bambini invidiandoci il futuro che ci stava davanti. Ripensavano ai loro sogni. Si erano realizzati? Rivedevano le loro speranze. Dov'erano finite? Ma il patto segreto della convenzione sociale, faceva sì che nessuno dicesse nulla. Che sapore poteva avere per loro la parola democrazia? Il passato dov'era finito? Quel passato, lo avevamo indosso, ognuno di noi, non soltanto io, con la camicia nera di mio padre.

Sommario

2. «Obbedite al Capoclasse!»
3. Ci curavano alla Molière
4. I piombi di Viserba
5. L'aquilone del nonno
6. A Montefiore Conca
7. Dettato all'americana
8. Alla «dottrina»
9. I temi della Cesira
10. Post-scriptum


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