7. Dettato all'americana
In terza elementare, anno scolastico 1950-51, finalmente cominciò a cambiare qualcosa. Dopo i due anziani insegnanti delle classi precedenti, arrivò un giovane maestro con il quale, pur non mutando granché il concetto generale di disciplina, che rimase quello tipico del clima storico in cui vivevamo, si introdussero delle novità molto apprezzate da noi bambini. Per esempio, l'insegnante non saliva più in cattedra, ma portava la sua sedia tra i banchi, avvicinandosi un pò alla classe. Egli, poi, aveva una faccia meno lontana nel tempo. I suoi figli erano più piccoli di noi che così abbandonavamo il ruolo dei nipoti o pronipoti: si erano accorciate le distanze generazionali.
La terza elementare era allora la classe conclusiva del cosiddetto "primo ciclo", e c'era un esame finale interno da sostenere con tutti i crismi della legalità. Occorreva, quindi, lavorare sodo. Mens sana in corpore sano, era stato sempre predicato (lo avremmo saputo da grandi), fin dai tempi antichi. Per la prima volta, incontrammo chi voleva tradurre la massima latina in concreta esperienza pedagogica. Cominciammo così a fare Educazione fisica, che avrebbe dovuto irrobustire le nostre membra, e permettere un maggior sviluppo intellettuale. Su questo secondo aspetto, sono ragionevoli forti dubbi, col senno di poi.
Gli esercizi dovevano svolgersi, per forza di cose, all'interno dell'aula scolastica, dove lo spazio era ripartito in base alla disposizione dei banchi monoblocco a due piazze, sui quali sedevamo, anzi entro i quali eravamo imprigionati. Questi banchi (anteguerra) decrescevano in altezza dal fondo verso la cattedra, per cui erano beati gli ultimi che potevano accomodarsi in spazi più ampi, mentre i primi venivano sacrificati entro una volumetria astratta, che cioè non teneva conto delle esigenze individuali.
Se in una classe tutti erano slungagnoni, i bambini delle prime file dovevano incastrare gambe e ginocchi contro l'asse portacartella che sporgeva da sotto la tavoletta su cui si scriveva. Il sedile spesso offriva un appoggio alle gambe, più che alla parte fisiologicamente deputata alla bisogna, mentre il fondoschiena si arrampicava ribelle verso il banco successivo, scombinando ogni geometrica necessità di ordine scolastico, e ribellandosi ai superiori ammonimenti a "stare composti". Con i corpi che crescevano entro grembiuli generalmente sempre più striminziti ed i banchi che non riuscivano a contenere i corpi stessi, quasi che fossero in reciproca opposizione, la disarmonia sembrava regnare nelle nostre classi di bambini esuberanti.
Per aiutarci a sgranchire le ossa, così costrette in quelle angustie spaziali, l'Educazione fisica poteva essere l'occasione più favorevole. Ovviamente, per eseguire gli esercizi, non era possibile spostare i banchi (il che avrebbe richiesto un pò di fantasia didattica, non imposta dai programmi, e avrebbe provocato del rumore o l'intervento delle anziane e bisbetiche bidelle, per un aiuto veloce). Quindi, bisognava regolarsi tra i corridoi lasciati liberi nell'aula, ove il massimo della licenza possibile ci permetteva di agire con un'attenta strategia, che doveva tener conto di un complesso di circostanze: messi sull'attenti, potevamo alzare le braccia soltanto verso l'alto od in avanti. Ogni altra mossa (laterale) era interdetta dalla mancanza di spazio: o si sbatteva nel banco o si urtava nel compagno. I banchi (miracolosamente salvati dalla distruzione generale della città, o provenienti da chissà quali altri luoghi), insomma impedivano che, in quella cosiddetta Educazione fisica, si realizzasse l'aggettivo e si verificasse il sostantivo: ci si accontentava di quello che poteva passare il convento, e nella partite a pallone sulle strade o nei prati si cercava un surrogato di soddisfazione personale.
Comunque, i momenti più esaltanti per i nostri maestri, erano quelli del "dettato", e quelli punitivi quando ci costringevano a stare "in prima" (con le mani appoggiate al banco) o "in seconda" (con le braccia dietro la schiena), per lunghi minuti che avrebbero dovuti esser votati ad una meditazione spirituale sulle nostre colpe, una specie di confiteor laico (anzi laido), in cui era però proibito battersi il petto, se non mentalmente, perché altrimenti si sarebbe violata l'imposizione a stare in posizione immobile.
Il "dettato" era invece lo scontro tra la saggezza (altrui) e l'ignoranza (nostra). Ovviamente, la prima doveva imporsi per forza di legge, mentre la consuetudine faceva trionfare la seconda. Frasi come "nell'alveare c'era la cera delle api", facevano brillare gli occhietti furbeschi dei nostri maestri, verso i quali si rivolgevano le pupille dei più bravi, in un ammiccamento d'intesa, come per dire, da parte di questi ultimi: "Io so come si scrive, e non mi freghi". Mentre gli ignari, e gli ignavi, che tra "c'era" e "cera" non facevano nessuna differenza sostanziale ed esistenziale, disperavano aguzzando lo sguardo verso qualche compagno da cui copiare, oppure sfregavano la penna sul foglio, nei ripetuti andirivieni in cui l'apostrofo viaggiava da una parola all'altra, e non sapeva mai dove prendere stabile dimora, a testimonianza che la vita è quell'"errare" che Francesco Petrarca chiamava anche "errore": ma siffatta citazione, neppure se una miracolosa folgorazione pedagogica avesse attraversato la mente dei nostri maestri, avrebbe potuto evitare poi la sentenza finale, riassunta condensata e sublimata in una sola parola: "Male".
Erano i momenti conclusivi del "dettato", in cui sembrava ripetersi la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre: "E tu scolaro asino, gronderai sudore su questo quaderno. Ricopiare trenta volte!". Repetita iuvant. Ai più asini, si aggiungeva la punizione dell'immobilità. Se non una bella bacchettata sulle dita, che andavano convertite a scrivere senza commettere errori. Qualche fanciullo, in quei frangenti, veniva portato a dubitare, come certi aristotelici del '600, sulla centralità della funzione cerebrale: ci si diceva infatti che ragionavamo con i piedi, ecco il perché di tanti sbagli. (E perché, allora, punire con il righello di legno le dita inchiostrate da una penna che spesso era pesante?).
Il sadismo pedagogico aveva però un suo effetto positivo. Ci faceva lentamente crescere gli anticorpi verso le difficoltà della vita, ci abituava a resistere. La scuola diventava una vera e propria palestra di sopravvivenza, dove non contavano tanto i risultati culturali acquisiti, ma i "calli" con cui ci si avvezzava a sopportare tutto, il che era probabilmente la miglior forma di ribellione. Certo, l'unica consentita.
Ma c'erano anche i momenti consolatori, almeno in apparenza. La Radio italiana trasmetteva tutte le mattina una rubrica "per le scuole", che noi non potevamo ascoltare perché ci mancava l'apparecchio ricevitore, né il ministero aveva i soldi per fornircelo. Allora, il maestro scatenò una gara entusiasmante: dovevamo esser noi (orgogliosamente Noi), a racimolare i soldini, dieci lire dopo dieci lire, per creare nel nostro edificio un impianto con apparecchio centrale e altoparlanti (che noi, invariabilmente chiamavamo autoparlanti), in ogni aula.
Passò l'inverno nella raccolta, a primavera arrivò finalmente l'impianto, e così potemmo ascoltare ogni mattina la nostra trasmissione, ovviamente ben rigidi con le mani sul banco, ed in perfetto silenzio. Alla voce del maestro si aggiunse così quella che proveniva dalla piccola scatola metallica attaccata dietro la cattedra. Noi, potevano parlare ancora di meno.
Altra novità, per quella terza, ed occasione per poterci fare aprire la bocca, furono le esercitazioni di Canto corale, che venivano eseguite con l'accompagnamento di una fisarmonica, manovrata da un giovane che aveva dei gravi problemi alla vista e che, una volta seduto, più che guardare sembrava annusare l'aria per capire se il maestro era pronto a guidarci nell'esecuzione e gli scolari ad emettere quelle che diremmo le note, se non corressimo il rischio di confondere le pie intenzioni con la verità delle cose. Quel fisarmonicista rassomigliava vagamente alla figura analoga che Fellini ha raccontato, sotto specie di caricatura, in certe scene di Amarcord, ma era molto meno anziano e poi stava composto, con un fare ispirato come se la musica che usciva dal suo strumento fosse veramente il parto sofferto della genialità. Noi, disgraziati ed ignoranti, non sapevamo apprezzare tutto ciò: e molti s'impegnavano a strapazzare la melodia, quasi fosse una stoffa da lacerare in tante strisce che testimoniassero non partecipazione ma accanimento.
Si eseguivano canti popolari classici, come la Montanara, quasi fossimo degli aspiranti alpini; si andava sul versante patriottico, con quei Fratelli d'Italia così marziale nella melodia e così ostico nel testo, dove si incolpava (a nostro modo di udire) l'Italia per esser stata messa incinta da Scipio, e si saliva al ricordo del passato remoto con la Leggenda del Piave di E.A. Mario, il cui testo era stampato in un depliant pubblicitario di "Bruno Marcaccini - Rimini - completo assortimento di articoli scolastici", nella prima della quattro pagine che lo componevano. Nelle altre tre, c'erano rispettivamente la tavola della moltiplicazione, quella dell'addizione e sottrazione, e quella della divisione.
La musica dal vivo ci invitava ad emulare i cori che trasmetteva la radio. Per acquistare quell'apparecchio, tra gli alunni di ogni classe, come ho detto, era stata ingaggiata (astutamente) una piccola gara a chi offriva di più. Il premio consisteva in un gioco tutto infantile, una tombola, sul cui coperchio il maestro scriveva una dedica, con la sua perfetta ed elegante grafia: "Al bravo alunno". Non si trattava, però, di una tombola qualsiasi, bensì di un veicolo di propaganda politica. Nel 1949 era nato il Patto atlantico, nel '47 il Piano Marshall. Un manifesto del '48 diceva: "Gli aiuti d'America - grano carbone viveri medicinali - ci aiutano ad aiutarci da noi". La nostra tombola-premio era in sintonia con quelle parole, s'intitolava appunto all'ERP, European Recovery Program, piano di ricostruzione europea.
Quella tombola ERP della primavera 1951, testimoniava tante cose: la pace raggiunta, dopo la terribile avventura bellica, la divisione del mondo in due blocchi (dopo Yalta, febbraio 1945), la conseguente "guerra fredda". All'interno dell'Italia, nel '48 era nato il "fronte democratico popolare" di socialisti e comunisti, dopo il loro allontanamento dal governo, avvenuto l'anno prima. L'Italia tifava De Gasperi o Togliatti (e un pò Nenni), Bartali o Coppi. Di Bartali, si diceva che nel '48, vincendo una tappa al Tour de France, aveva salvato il Paese dalla rivoluzione, quando era stato ferito Palmiro Togliatti. Dei comunisti, si ipotizzava che mangiassero bambini. L'Italia era veramente divisa in due. Come la strada dove sorgeva la nostra scuola. La Chiesa apostolica romana celebrava a San Giovanni Battista. Quella di rito moscovita, come avrebbe detto don Camillo, funzionava nel palazzo Ghetti, sotto l'ombra (anzi, la luce radiosa) di una falce e martello.
Don Lino Grossi (in "Vita da prete", ed. "Il Ponte"), ricorda quei giorni del Dopoguerra: "La parrocchia di San Salvatore non aveva poderi, il giovane parroco era povero e per questo molto rispettato. Alcuni facinorosi gridavano: "Coi padroni anche i preti vogliamo fare fuori, solo salveremo i parroci di San Salvatore e Vecciano, perché sono poveri come noi"".
Altri programmavano il futuro politico all'insegna di un motto che non ammetteva dubbi: "Con le budelle dell'ultimo prete, strozzeremo l'ultimo signore".
Sommario
1. Camicia nera della ricreazione
2. «Obbedite al Capoclasse!»
3. Ci curavano alla Molière
4. I piombi di Viserba
5. L'aquilone del nonno
6. A Montefiore Conca
8. Alla «dottrina»
9. I temi della Cesira
10. Post-scriptum
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