€ G R E P P I A I T A L I A €
LA CASTA DEI POLITICANTI ◄ (Un ceto politico sempre più lontano, autoreferenziale e intoccabile)
GLI INTRECCI POLI-BANCHE-GIORNALI ◄ (I verbali di un pericoloso mix di politica e affari)
PARLAMENTO PULITO ◄ (Forse non tutti lo sanno, ma sugli scranni siedono ben 25 pregiudicati)
IL FINANZIAMENTO AI PARTITI ◄ (Per trasparenza: le imprese che finanziano i partiti)
Introduzione – Una oligarchia di insaziabili bramini. Da Tocqueville a De Gregorio: la deriva della classe politica
La
pianeggiante Comunità montana di Palagiano è unica al mondo: non ha salite, non
ha discese e svetta a 39 (trentanove) metri sul mare. Con un cucuzzolo, ai
margini del territorio comunale, che troneggia himalaiano a quota 86. Cioè 12
metri meno del campanile di San Marco. Vi chiederete: cosa ci fa una Comunità
montana adagiata nella campagna di Taranto piatta come un biliardo?
Detta alla bocconiana, l’ente pubblico pugliese ha due mission. Una è dimostrare
che gli amministratori italiani, che già s’erano inventati in Calabria un lago
inesistente a Piano della Lacina e un’immensa tenuta di ulivi secolari nel mare
(catastale) di Gioia Tauro, possono rivaleggiare in fantasia con l’abate
Balthazard che si inventò l’«Isola dei filosofi» dove non esisteva un governo
perché i suoi abitanti non riuscivano a decidere insieme quale fosse «il sistema
meno oppressivo e più illuminato ». L’altra è distribuire un po’ di poltrone.
Obiettivo assai più concreto della salvaguardia di un borgo alpino o della
sistemazione di una mulattiera appenninica.
Certo, le Comunità montane sono solo un pezzetto della grande torta. Ma possono
aiutare forse meglio di ogni altra cosa a capire come una certa politica, o
meglio la sua caricatura obesa, ingorda e autoreferenziale, sia diventata una
Casta e abbia invaso l’intera società italiana. Ponendosi sempre meno
l’obiettivo del bene comune e della sana amministrazione per perseguire
piuttosto quello di alimentare se stessa. Obiettivo sempre più disperato e
irraggiungibile via via che la bulimia ha contagiato tutti: deputati, assessori
regionali, sindaci, consiglieri circoscrizionali, assistenti parlamentari,
portaborse e reggipanza. Fino a dilagare, nel tentativo di strappare metro per
metro nuovi spazi, nelle aziende sanitarie, nelle municipalizzate, nelle società
miste, nelle fondazioni, nei giornali, nei festival di canzonette e nei tornei
di calcio rionali... Una spirale che non solo fa torto alle migliaia di persone
perbene, a destra e a sinistra, che si dedicano alla politica in modo serio e
pulito. Ma che è suicida: più potere per fare più soldi, più soldi per prendere
più potere e ancora più potere per fare più soldi...
Sia chiaro: la montagna, che copre oltre la metà dell’Italia, è una cosa seria.
E spezza il cuore vedere gli sterpi inghiottire certe contrade costruite
dall’uomo a prezzo di sacrifici immensi, dalla piemontese Bugliaga all’abruzzese
Frattura, dalla romagnola Castiglioncello ai tanti borghi calabresi svuotati
dall’emigrazione. Come la povera Roghudi, raccontata mezzo secolo fa da Tommaso
Besozzi, dove c’erano «tanti grossi chiodi conficcati nei muri e le donne vi
assicuravano le cordicelle che avevano legato attorno alle caviglie dei bambini
più piccoli, perché non precipitassero nel burrone. Infatti, da qualunque parte
si guardino, le case appaiono costruite sopra un torrione che scende a picco, da
ogni lato».
Ma proprio perché la montagna vera ha bisogno di essere aiutata, spicca
l’indecenza della montagna finta. Artificiale. Clientelare. Costruita a tavolino
per dispensare posti di sottogoverno. Divoratrice di risorse sottratte ai paesi
che vengono sommersi davvero dalla neve o non vedono davvero il sole per mesi e
mesi come succedeva a Viganella, sopra Domodossola, prima che piazzassero uno
specchio di 40 metri quadrati che cattura i raggi e li riflette sulla piazza del
villaggio.
Basti dire che della Comunità montana Murgia Tarantina alla quale appartiene
Palagiano (che si adagia in parte a zero metri sul livello dello Jonio lì a due
passi), i comuni riconosciuti come solo «parzialmente montani» nel loro stesso
sito internet sono 4 e quelli «non montani» 5. E montani? Manco uno. Tanto che
l’altitudine media dei 9 municipi è di 213 metri. Una sessantina in meno
dell’altitudine del Montestella, la collinetta creata alla periferia di Milano
con i detriti. Ma quanto bastava a fondare una struttura con un presidente, 6
assessori, 27 consiglieri, un segretario generale... Pagati rispettivamente,
visto che tutti insieme i paesi passano i 100.000 abitanti, quanto il sindaco,
gli assessori e i consiglieri d’una città grande come Padova. Chi vuol capire
come funziona faccia un salto a Mottola, dov’è la sede, e giri una per una le
stanze vuote fino a trovare qualcuno. «Cosa fate, esattamente?» «Cosa vuole che
facciamo... Abbiamo pochissimi soldi. Non è che ci sono margini per fare tante
cose.» «Quindi?» «Qualcosa qua e là... Poca roba.» «Ma il bilancio 2006 di
quanto è stato?» «Non so... Intorno ai 400.000 euro. Togli gli stipendi, togli
le spese...» «Il presidente, per esempio, che fa?» «Gira.» «Gira?» «Gira, si dà
da fare per cercare di avere dei finanziamenti.» «E ne raccoglie?» «Mah...»
Tutto merito d’una leggina regionale pugliese del 1999. Che interpretando a modo
suo una sentenza della Corte costituzionale si era inventata la possibilità di
inserire nelle Comunità anche comuni che non erano montani ma «contermini».
Concetto che, di contermine in contermine, potrebbe dilatare una comunità
montana dall’Adamello al Polesine. E infatti consentì a quelle pugliesi di
sdoppiarsi e ampliarsi fino a diventare 6 per un totale di 63 comuni pur essendo
la loro la più piatta delle regioni italiane. Benedetta da contributi erariali
che, in rapporto agli ettari di montagna, come dimostra la tabella in Appendice,
sono quattordici volte più alti di quelli del Piemonte.
Eppure non è solo la Puglia ad aver giocato al piccolo montanaro. L’ha fatto la
Campania, che con poco più della metà degli ettari montagnosi della Lombardia ha
quasi il doppio dei dipendenti e quasi il triplo dei contributi pro capite. L’ha
fatto la Sardegna, che era arrivata ad avere 25 Comunità, alcune delle quali
bizzarre. Come quella di Arci Grighine, con paesi definiti nelle carte
«totalmente montuosi» come Santa Giusta, che, a parte un pezzo del territorio
che si innalza all’interno, è sulle rive di uno stagno nella piana di Arborea,
da 0 a 10 metri sul livello del mare. O quella di Olbia (Olbia!) che fino alla
primavera del 2007 portava un nome assolutamente strepitoso, per una «Comunità
montana»: Riviera di Gallura.
Portava. Dopo un braccio di ferro con mille interessi locali, riottosi alla
chiusura di un rubinetto da 11 milioni di euro, Renato Soru è riuscito a far
passar infatti un drastico ridimensionamento: da 25 Comunità a un massimo di 8.
Con l’invito ai comuni, semmai, a consorziarsi su alcuni interessi specifici.
Una scelta i cui effetti sul risparmio e sulle clientele saranno tutti da
vedere. Ma indispensabile. Lo stesso Enrico Borghi, presidente dell’Unione
nazionale Comuni, Comunità, Enti montani, sorride: «La definizione di “montagna
legale” che ai tempi di Fanfani voleva tutelare i paesi che magari stavano in
pianura ma erano poveri come quelli alpini o appenninici, va rivista. Ha
presente quei prelati che al venerdì, avendo solo carne, la benedivano dicendo:
“Ego te baptizo piscem”? Ecco, da noi c’è chi ha detto: “Ego te baptizo
montagnam”. Troppi abusi. Col risultato che i 2 miliardi di euro che tra una
cosa e l’altra vanno alla montagna sono dispersi spesso dove non ha senso.
Diciamolo: almeno un terzo delle Comunità andrebbe chiuso».
Viva l’onestà. Ma vale per un mucchio di altri bubboni, grandi e piccoli,
gonfiati dalla cattiva politica. Come i consigli circoscrizionali di Palermo,
dove i presidenti, contrariamente a centinaia di colleghi di tutta la Penisola
che lavorano per rimborsi modestissimi, prendono 4750 euro al mese e hanno l’autoblu.
Come certe società miste istituite anche per piazzare amici e trombati quale l’Imast,
un consorzio parapubblico fondato dalla Regione Campania, Cnr ed Enea e qualche
privato, con 25 consiglieri di amministrazione e un solo dipendente, e
successivamente fuso, allo scoppio delle polemiche, con il Campec, un altro ente
misto che di consiglieri ne aveva 11 e di dipendenti 8. Come l’Unità operativa
nucleo barberia di Palazzo Madama dove c’è un figaro (le senatrici hanno un
bonus per farsi la messa in piega da coiffeur esterni) ogni 36 senatori, il che,
dati i ritmi dei lavori parlamentari, fa pensare a sforbiciate più rare e
costose delle uova imperiali di Fabergé.
E così andrebbero chiuse almeno un po’ di megalomani «ambasciate» regionali in
America o nei Paesi più improbabili del mondo. E come minimo una parte delle 218
sedi (il quadruplo di quelle venete) della Regione Sicilia. E certe strutture
interne che potrebbero benissimo essere delegate all’esterno e sono arrivate a
includere un manipolo di tappezzieri a Montecitorio e addirittura, stando a un
rapporto di Sabino Cassese, una pattuglia di sei rammendatrici di arazzi al
Quirinale. E poi una delle due squadre che per la Camera e per il Senato
compongono ogni mattina, con rare varianti, la stessa identica rassegna stampa
per i parlamentari e dell’uno e dell’altro ramo. E insomma tutta una serie di
cose che a far la lista non si finirebbe più.
Conosciamo l’obiezione: occhio alla demagogia. Giusto. Non ha senso l’invettiva
di Giosué Carducci contro i politici: «Voi... piccoletti ladruncoli
bastardi...». Ma occhio anche a non dare per scontate e «normali» cose che nei
Paesi seri scatenerebbero l’iradiddio. Esempio: è normale che il senatore
Pierluigi Mantini mandi una lettera a tutti i suoi colleghi ricordando che «in
vista dei Campionati europei parlamentari di tennis è opportuno riprendere un
programma di incontri e di allenamenti per i quali sono disponibili i maestri
presso il Circolo Montecitorio»? Cosa c’entra con le legittime prerogative
parlamentari il maestro gratuito di volée? Ed è normale che l’indennità di
deputati e senatori non sia mai pignorabile, neppure se sono stati condannati
per un reato comune tipo l’emissione di assegni a vuoto?
Altro esempio: è normale che il ministro della Giustizia, come chiese
un’interrogazione parlamentare del diessino Francesco Carboni, possa andare in
vacanza in uno dei posti più belli del mondo, nel villaggio-vacanze nell’area
della colonia penale di Is Arenas, in Sardegna, costruito coi soldi trattenuti
sugli stipendi delle guardie carcerarie che ne fruiscono a rotazione? Roberto
Castelli, accusato di averci portato anche il parentado e gli amici, rispose
piccatissimo che il suo comportamento era stato ritenuto corretto dalla Corte
dei Conti. Vero. Ma i giudici contabili dovevano rispondere solo a una domanda:
se il guardasigilli avesse rispettato la legge pagando il dovuto. Stop. Lo
scandalo era un altro. E stava nella fattura presentata dal senatore leghista al
processo per diffamazione contro «l’Unità». Fattura pagata due settimane dopo
(dopo!) che il giornale aveva denunciato la sua villeggiatura. Tre camere
matrimoniali: 19,37 euro l’una. Ventiquattro camere singole: 11,82 euro l’una.
Meno che in una topaia sulla costa marocchina. Quello era il dovuto. Fissato per
agenti carcerari che però hanno già versato i soldi per la costruzione e
guadagnano un decimo di un senatore. Un decimo.
C’è chi dirà: non è vero. E citerà il sito di Palazzo Madama dove sta scritto
che nel 2007 l’importo mensile della indennità «è pari a 5486,58 euro (prima del
“taglio” della Finanziaria 2006 era pari a 5941,91 euro), al netto della
ritenuta fiscale (€ 3899,75), nonché delle quote contributive per l’assegno
vitalizio (€ 1006,51), per l’assegno di solidarietà (€ 784,14) e per
l’assistenza sanitaria (€ 526,66). Nel caso in cui il senatore versi anche la
quota aggiuntiva per la reversibilità dell’assegno vitalizio (2,15% pari a €
251,63), l’importo netto dell’indennità scende a 5234,95 euro». Insomma, uno
stipendio buono non eccezionale.
Non è così. L’indennità è infatti solo una parte della paga vera e propria, come
la considera qualunque cittadino. E che comprende ogni mese un sacco di altre
voci. Quali la diaria: 4003 euro, meno 258 per ogni giorno di assenza ma solo
«dalle sedute dell’Assemblea in cui si svolgono votazioni qualificate» e solo se
il senatore manca per più del 70% delle votazioni nell’arco della giornata. Più
il rimborso forfetario delle spese di viaggio: 554 euro per chi risiede a Roma,
da 1108 a 1331 per chi abita fuori a seconda se sta a meno o a più di 100
chilometri dall’aeroporto o dalla stazione più vicini. L’aereo e il treno sono
gratis.
Più 258 euro di «spese per viaggi internazionali d’aggiornamento ». Più 346 euro
per «spese telefoniche». Più un «rimborso forfetario per le spese sostenute per
retribuire i propri collaboratori e per quelle necessarie a svolgere, anche nel
collegio elettorale, il mandato»: 4678 euro, in parte (1638) dati direttamente
al senatore medesimo e in parte (3040) al suo gruppo parlamentare. Fatti i
conti, un senatore che vive a Roma e partecipa con regolarità ai lavori incassa
ogni mese 12.032 euro netti. Uno che vive a Potenza o a Sondrio, coi rimborsi
più alti, 12.809.
Sui dettagli e la differenza con la busta paga dei deputati e quella dei
parlamentari europei vi rimandiamo alle tabelle in Appendice: se n’è scritto e
discusso così tanto che non vale la pena di indugiare sul tema. I numeri dicono
tutto. Giudichi il lettore. Ricordiamo, in breve, solo quattro punti.
Il primo: tra i grandi Paesi occidentali l’Italia è quello col numero più alto
di parlamentari eletti. Senza contare i senatori a vita (come non contiamo i
Lords, la cui assemblea non ha i poteri della Camera dei Comuni ed è composta
ancora in larghissima parte da gente nominata) abbiamo un parlamentare ogni
60.371 abitanti contro ogni 66.554 in Francia, ogni 91.824 in Gran Bretagna,
ogni 112.502 in Germania, per non dire degli Stati Uniti: uno ogni 560.747.
Il secondo: lo stipendio di un deputato è cresciuto dal 1948 a oggi, in termini
reali e cioè tolta l’inflazione, di quasi sei volte: era di 1964 euro allora
(987 + 977 di diaria) ed è di 11.703 oggi. E non basta dire: «Ah! Altri tempi!».
Terzo punto: nessuno si avvicina ai 149.215 euro di stipendio base dei nostri
deputati europei. Non solo prendono oltre 44.000 euro più degli austriaci ma
incassano quasi il doppio dei tedeschi e degli inglesi, il triplo dei
portoghesi, il quadruplo degli spagnoli... E la lista, spiegano i senatori
diessini Cesare Salvi e Massimo Villone nel libro Il costo della democrazia, non
tiene conto delle integrazioni, a partire dal rimborso delle spese di viaggio
per l’europarlamentare e i suoi collaboratori, «calcolato a forfait sul
biglietto aereo più costoso, senza vincolo di documentazione ». Più «la
rilevante indennità aggiuntiva per i collaboratori, di cui non solo non occorre
documentare la retribuzione, ma neppure l’esistenza». Più «indennità e benefit
vari». Cioè: «3785 euro mensili come indennità di spese generali; 571 euro come
rimborso forfetario per le spese di viaggio ogni settimana di seduta; 3736 euro
annui per indennità di viaggio per motivi di lavoro; 268 euro giornalieri come
indennità di soggiorno; 14.865 euro mensili di indennità per gli assistenti
parlamentari». Insomma, chiudono i due autori: «Il calcolo di 30-35.000 euro al
mese a testa (tenendo conto delle variabili indicate) è quindi probabilmente
approssimato più per difetto che per eccesso».
Quarto punto: l’insofferenza di molti parlamentari verso chi calcola nel loro
stipendio anche i soldi per il collaboratore è spesso ipocrita fino
all’indecenza. Lo dimostra il sereno distacco con cui i senatori hanno accolto
ai primi di ottobre del 2006, votando svogliatamente il suo ordine del giorno
ricco di buone intenzioni ma privo di ogni efficacia, la denuncia in aula di una
matricola di Alleanza nazionale, Antonio Paravia: «Nei primi mesi di presenza a
Roma ho avuto modo di parlare con circa trenta giovani, diplomati, laureati,
alcuni anche con un doppio titolo di laurea, che hanno svolto, mi hanno detto,
alcuni per pochi anni, altri anche per un decennio e passa, la loro prestazione
professionale sia per parlamentari di Camera e Senato sia per il raggruppamento
di centrodestra e di centrosinistra. Bene, questi giovani hanno confessato
candidamente di non avere nessun anno di contribuzione previdenziale e
assicurativa perché hanno sempre percepito tra i 500 e i 1500 euro al mese, ma
senza contribuzione, cioè in nero».
Ma come, direte, fanno le prediche e poi pagano sottobanco i collaboratori per i
quali, come abbiamo visto, prendono al Senato 4678 euro e alla Camera 4190 al
mese? Esatto. Il povero Paravia era sconvolto: come è possibile far lavorare in
nero una persona che «svolge la sua attività munito di badge identificativo
rilasciato dagli uffici di questura dei due rami del Parlamento» e con quello
entra nei Palazzi della Camera e del Senato e usa «in una sorta di comodato
gratuito, uffici, arredi, strumenti, reti»?
Si era rivolto al ministero del Lavoro (del Lavoro!) ricevendo la risposta che
«c’è l’assenza di una qualificazione normativa, cioè il parlamentare che vuole
comportarsi correttamente ha difficoltà a trovare uno strumento normativo di
riferimento chiaro e preciso». L’aveva chiesto ai colleghi senatori (senatori!)
che gli facevano sorrisetti di cortese comprensione. L’aveva chiesto al
segretario generale (il segretario generale!) di Palazzo Madama, il cavaliere di
Gran Croce (lo specifica perfino nella pianta organica, oibò) Antonio Malaschini.
Il quale gli aveva precisato che «il contributo per il supporto di attività e
compiti degli onorevoli senatori connessi con lo svolgimento del mandato
parlamentare, erogato mensilmente, non ha alcun vincolo di destinazione rispetto
a eventuali prestazioni lavorative rese da terzi o a possibili configurazioni
contrattuali». Per capirci: caro senatore, ne faccia quel che le pare.
Una vergogna. Ingigantita dall’improvvisa e ipocrita «presa di coscienza»
seguita a un servizio tivù delle Iene che a metà marzo del 2007 smascherava il
giochetto dimostrando che alla Camera su 629 collaboratori ufficiali quelli
regolarmente assunti erano solo 54: tutti gli altri erano pagati in nero.
Quanto? «Il mio riccamente» rispondeva spigliata la margheritina Cinzia Dato
prima di sprofondare in un confuso balbettio alla richiesta di maggiore
precisione: «Ma... No... Chieda a lui...». «La politica ha dei grossi costi.
Quindi ognuno s’arangia» spiegava romanescamente il nazional-alleato Carlo
Ciccioli. «Quanto paga i portaborse?» «Quattro o cinquecento euro ar mese pe’ fa
’na cosa. Quattro o cinquecento pe’ fanne ’n’antra...»
E il compagno Fausto Bertinotti? «Non lo sapevo.» Ma dài! «Non lo sapevo.»
Cinque mesi dopo la segnalazione in aula del senatore Paravia, se non lo avesse
informato la tivù, sarebbe rimasto ignaro: «Di fronte alla denuncia siamo
intervenuti immediatamente ». Come? D’ora in avanti sarebbero entrati nei
palazzi solo i collaboratori a contratto. Però... «Però serve una leggina »
rispondeva Franco Marini. Quando? «Subito. Appena possibile.» Bene, bravi, bis.
Peccato che lo stesso identico problema, dopo un’altra denuncia pubblica, fosse
stato affrontato esattamente allo stesso modo dalla Camera già il 17 luglio del
2003. Quando i questori avevano intimato ai deputati: «I rapporti di
collaborazione a titolo oneroso dovranno essere attestati, al momento della
richiesta di accredito, mediante la consegna agli uffici di copia del relativo
contratto». Chiacchiere. Solo chiacchiere in attesa che si calmassero le acque.
Dei bramini, ecco cosa sono diventati i politici italiani. Partoriti non da
Brahma («Davvero grandi sono gli dei nati da Brahma» dice la genesi dell’Atharvaveda,
una delle opere sacre dell’induismo), ma da un sistema partitocratico malato di
elefantiasi. Non tutti, si capisce. Camere, Regioni, Province, Comuni ospitano
anche molte persone a posto che provano un sincero disagio per i privilegi di
cui godono. E cercano di approfittarne con sobrietà. Tutti insieme, però, sono
una casta. Che si sente al di sopra della società della quale si proclama al
servizio. Tanto che i più attenti, quelli che non vivono «solo» di politica e
magari scrivono anche romanzi o biografie sofferte di musicisti tragici, come
Walter Veltroni, non si sognano di bollare le critiche come demagogiche: «Quando
i partiti si fanno casta di professionisti, la principale campagna antipartiti
viene dai partiti stessi».
Per carità, non siamo nel regno di Tonga del re Tupou IV detto «re Ciccia»
perché arrivò a pesare 201 chili. Da noi il Parlamento e i ministri non vengono
scelti dalla corte. Ma come ricordò un giorno Eugenio Scalfari citando
l’amatissimo Alexis de Tocqueville, l’oligarchia è «un sistema dove il potere è
fortemente centralizzato e i corpi intermedi sono stati dissolti o indeboliti
nelle loro autonomie. Al vertice i poteri costituzionali, anziché distinti e
bilanciati, si sono fittamente intrecciati tra loro. Chi li gestisce fa parte
dell’oligarchia; ciascuno degli oligarchi ha una sua area esclusiva di potere,
che gli altri sono impegnati a garantirgli in perpetuo, a condizione
naturalmente di godere del diritto di reciprocità».
Questo «non significa necessariamente che il popolo non possa votare, ma che i
meccanismi elettorali sono costruiti in modo da confermare invariabilmente
l’oligarchia». Eppure, proseguiva il fondatore della «Repubblica», quando
scriveva La democrazia in America Tocqueville «non conosceva ancora i regimi di
massa, i mezzi di comunicazione di massa, i modi per manipolare il consenso di
massa». Né tantomeno, aggiungiamo noi, la legge elettorale del 2006, la
«porcata» di Roberto Calderoli che ha chiuso ogni spiraglio alle candidature non
decise dai leader. Una legge che, per dirla con Ilvo Diamanti, «ha alimentato
ulteriormente il frazionismo partigiano. Riducendo gran parte dei partiti a
oligarchie di potere».
«Io non conosco questa cosa, questa politica, che viene fatta dai cittadini e
non dalla politica» disse anni fa Massimo D’Alema sbertucciando i critici: «La
politica è un ramo specialistico delle professioni intellettuali». Una tesi che
Diamanti ha bacchettato più volte: «Fa sorridere amaro, questa rinascita della
Repubblica dei Partiti. Che non si può giustificare con la nostalgia. Della
“vecchia” Dc, del “vecchio” Pci. E degli altri: socialisti, liberali,
repubblicani. Perché i “nuovi” partiti non somigliano a quelli della Prima
Repubblica. Sia detto con assoluta convinzione, ma senza alcuna nostalgia: sono
peggio, questi partiti. Con qualche eccezione, non hanno una vita democratica.
Non promuovono la partecipazione. Sono oligarchie. Partiti personali. Senza
società e senza territorio. A loro agio nei salotti tivù. A chi vuole (ri)proporre
una democrazia proporzionale, per restituire lo scettro ai partiti, per questo
chiediamo: restituiteci, prima, i partiti».
Quelli veri, non quelli fondati dal commercialista. Sapete com’è nato il
partitino Italiani nel Mondo di proprietà di Sergio De Gregorio, che grazie alla
micidiale parità tra destra e sinistra si è ritrovato nel 2006 a essere l’ago
della bilancia che poteva salvare o affossare Prodi? C’era una volta un’impresa
in via Terracina 431, a Fuorigrotta, aperta nel giugno del 2002 da un «amico
benefattore» e dedita, diceva la ragione sociale, alla «distribuzione e
commercializzazione all’ingrosso e al dettaglio di prodotti tessili». Era
iscritta col nome Italiani nel Mondo. Un nome magico, che qualche mese dopo
l’«amico» (un certo Claudio Mele) registrò all’ufficio brevetti delle Attività
produttive dichiarando di occuparsi di «apparecchi scientifici e per la
registrazione e riproduzione del suono», «cuoio e sue imitazioni, bauli,
valigie, ombrelli, ombrelloni e bastoni da passeggio», «articoli di
abbigliamento, scarpe e cappelleria» ed «educazione, formazione, divertimenti,
attività sportive e culturali».
Parallelamente, secondo il sito internet www.Napoliontheroad.it, spunta sotto il
Vesuvio un’«associazione culturale Italiani nel Mondo» che, «ideata nel giugno
del 2001 dal giornalista Sergio De Gregorio... intende promuovere il marchio e
l’immagine del “Made in Italy” al di fuori dei confini nazionali attraverso un
proficuo interscambio commerciale, economico e culturale con l’estero» e per
questo ha aperto «cinque sedi operative localizzate a Napoli, Roma, Nizza, New
York e Zurigo, a cui presto si aggiungeranno altre strutture a Buenos Aires,
Sofia, Londra, Parigi e Berlino». Un obiettivo «consacrato» nella competizione
musicale Italiani nel Mondo Festival trasmessa da una tivù locale. E destinato a
essere sviluppato «aprendo nuove sedi in Australia (Melbourne), in Estremo
Oriente (Tokyo e Hong Kong), in Russia (Mosca) e ad Atene». Per dirla alla
napoletana: «’nu nettuorche» planetario!
E chi è questo ambizioso Sergione fondatore del network planetario? Un
giornalista di seconda fila che nel ’97 è spuntato dal nulla per «salvare», come
direttore editoriale, il defunto «Avanti!» e risulta autore di due scoop finiti
nell’archivio dell’Ansa. Un’intervista all’imputata poi assolta del celebre
omicidio di Anna Parlato Grimaldi, la cronista del «Mattino» Elena Massa (che
lei nega d’avere concesso) e un’intervista a bordo della nave Monterey al più
celebre dei pentiti mondiali, Tommaso Buscetta, che lui nega di avere concesso.
Lamentando anzi di essere stato tradito («con quelle foto hanno messo in
pericolo mia moglie e mio figlio») da chi sapeva della crociera e cioè, pare di
capire, da qualche spione infedele dei «servizi».
Ma adesso occhio alle date. Nell’ottobre del 2004 il nostro futuro senatore e
Angelo Tramontano, un deputato regionale di Forza Italia, fondano dal notaio la
«Italiani nel Mondo Radio e Tivù Srl». È il primo mattone di un piccolo impero:
«Italiani nel Mondo Channel», «Italiani nel Mondo Immobiliare», «Italiani nel
Mondo Servizi Immobiliari»... Tutte in pugno a Sergio De Gregorio e tutte
piazzate nella stessa brutta palazzina di colore incerto di Fuorigrotta, in via
Terracina 431, dove ha sede già la prima società costituita dall’«amico» Mele
per commerciare prodotti tessili, ombrelli e cuoio. Un piccolo impero di carta
in cui non manca una società per bambini: la «Italiani nel Mondo Junior», che
«ha lo scopo fondamentale di aiutare i componenti a diventare Cittadini Italiani
inseriti nel Mondo» e in cambio chiede ovviamente ai cari piccolini «il
versamento di una quota fissa decisa a livello nazionale e di una quota
aggiuntiva, decisa dal raggruppamento territoriale».
Cosa se ne fa, di tutte queste società? La risposta è nella storia di «Italiani
nel Mondo Channel», che nasce il 10 giugno del 2005 con un capitale sparagnino
di 10.000 euro ma la settimana dopo ingloba il marchio «Italiani nel Mondo»
(quello dei prodotti tessili e del cuoio) e aumenta il capitale di 2 milioni.
Miracolo! E da dove vengono tutte quelle banconote? Niente banconote: il
«capitale» è un documento. La perizia giurata firmata pochi giorni prima da un
giovane «tributarista», Andrea Vetromile, miracolosamente individuato dal nostro
futuro senatore nonostante non sia sull’elenco telefonico e malgrado figuri non
come commercialista ma come «consulente del lavoro ». Perizia secondo la quale
il prodigioso marchio «Italiani nel Mondo» (sempre quello dei prodotti tessili e
del cuoio) vale appunto quella cifra enorme. Direte: ma non apparteneva a
Claudio Mele? Boh... Certo è che il giorno dopo sboccia un documento in cui
Mele, indifferente al fatto che il suo marchio valga ora 4 miliardi di vecchie
lire, dona generosamente tutto a De Gregorio. Che a questo punto comincia a
vendere in giro quote della magica società incassando in pochi giorni 100.000
euro di qua, 29.000 di là, 250.000 di là ancora... Averne, di «amici» così...
Un giochino finanziario meraviglioso. Al punto che in autunno, cioè sei mesi
prima di candidarsi con l’implacabile moralizzatore Antonio Di Pietro, il nostro
lo rifà. Stavolta fondando con altri 10.000 euro la «Italiani nel Mondo Reti
Televisive» arricchita all’istante dal «costosissimo» marchio «Italiani nel
Mondo Channel». Stesso «tributarista» (strana figura di indipendente se
all’assemblea della società, con De Gregorio già senatore, esulterà «ponendo
l’enfasi sul risultato positivo raggiunto»), stesso tipo di perizia, stessa
dichiarazione giurata sull’immenso valore di quel marchio planetario, stesso
aumento di capitale ma stavolta ancora più grosso (3 milioni di euro!), stessa
vendita immediata di quote: 20.000 di qua, 30.000 di là... Fino alla donazione
dell’ultima fetta di torta societaria, come la prima volta, a una gentile
signorina non ancora trentenne, Maria Palma. Il consiglio di amministrazione,
dice il verbale steso dopo le Politiche, fa «i complimenti per il successo
elettorale».
Complimenti, va detto, meritatissimi. Dove lo trovate un altro che abbia chiesto
il voto ai nostri emigrati in Europa con una lista nata da una società di cuoio
e tessili? Che si sia candidato con l’«eroe» di Mani Pulite dopo aver rifatto
l’«Avanti!» (primo numero: una lettera di Craxi e Il crepuscolo di Antonio Di
Pietro) ed essere stato forzista e neodemocristiano? Che si sia fatto eleggere a
capo della Commissione Difesa senza che gli chiedessero conto di queste
società-partito che aumentano di capitale con perizie giurate di un «consulente
del lavoro»?
Che sia riuscito ad avere i salamalecchi della destra («È un uomo di grande
spessore» dice il neodemocristiano Gianfranco Rotondi) senza rossori di
imbarazzo per la catena di assegni a vuoto per centinaia di migliaia di euro
emessi negli anni, come ha scritto sul «Sole 24 Ore» Claudio Gatti, da un
mucchio di società a lui collegate, dalla «Broadcast Video Press» alla «Aria
Nagel»? Misteri.
Misteri però tutti dentro un sistema profondamente marcio. Dove il bramino sa
che, una volta varcato l’ingresso del Palazzo della Casta, è a posto. In eterno.
Perché troverà sempre qualcuno, davanti a qualsiasi grattacapo, pronto a
difenderlo in cambio di un voto. Come è successo a Pietro Fuda, che, passato
dalla destra alla sinistra per fare il senatore, firmò quel celebre emendamento
alla Finanziaria 2007 che, tagliando i tempi della prescrizione, permetteva agli
amministratori incapaci, folli o criminali di scampare al rischio di rimborsare
i soldi di scelte sventurate. Emendamento passato tra mille polemiche e subito
abolito con un decreto ad hoc.
Tutti a chiedersi: perché l’avrà fatto? In nome di chi? Con quali obiettivi? Lui
bacchettava i magistrati contabili che «dovrebbero operare in modo diverso,
guidare gli amministratori locali, non aspettarli al varco dopo che hanno
sbagliato» e chiedeva: «La Corte dei Conti, scusate, la paghiamo noi, sono
stipendiati oppure no? Devono fare un servizio utile per lo Stato ». Come lui:
una vita «al servizio». Prima come dirigente della Cassa del Mezzogiorno e della
Regione Calabria, poi come presidente della Provincia di Reggio e insieme
amministratore unico dell’aeroporto reggino, carica mantenuta (ovvio: spartisce
coi tre del collegio sindacale 162 mila euro) anche dopo l’elezione a Roma e
ottenuta col parere favorevole non solo della Regione ma anche (pensa te) della
Provincia di cui era a capo.
Bene: di quand’era l’emendamento? Dell’inizio di dicembre. E cosa era successo,
senza clamori, un paio di settimane prima? Coincidenza! La Corte dei Conti
calabrese aveva steso una relazione durissima sull’aeroporto, chiedendosi come
avesse fatto a sommare nel 2005 «perdite pari al 53,86% dell’intero patrimonio
netto, circostanza che denota una quantomeno insoddisfacente gestione della
società». Tesi che il nostro Fuda non condivideva affatto. Anzi, il buco del
2004 di 1.392.000 euro su 1.648.000 di fatturato (buco coperto dai soldi
pubblici, dei cittadini) l’aveva liquidato sbuffando: «Irrisorio». Mica erano
soldi suoi.
Intoccabile come il Gran Khan, che nel Milione di Marco Polo beve vino e latte e
altre buone bevande da coppe che «per opera degli incantatori» si sollevano e
«vanno a presentarsi» alla bocca del sovrano «senza che nessuno le tocchi», un
parlamentare italiano sembra davvero potersi permettere di tutto. Anche di
restare a Montecitorio senza essere stato eletto, come è accaduto nella
legislatura berlusconiana a Luciano Sardelli, che per un errore materiale del
presidente di un seggio brindisino che aveva subito ammesso la svista («ero
stanchissimo, stavo malissimo») si era ritrovato i voti dell’avversario, Cosimo
Faggiano, al quale venne finalmente data ragione un mese prima delle nuove
elezioni, quando ormai era troppo tardi.
Per non dire di Luigi Martini, «l’Uomo che visse tre volte ». Nella prima vita,
durante la quale conquistò anche uno scudetto, era un calciatore della Lazio.
Nella seconda un pilota dell’Alitalia. Nella terza un deputato di An. Sulla
carta, una volta eletto, doveva andare in aspettativa. Macché: la direzione
della compagnia di bandiera pensò che sarebbe stato «diseconomico ». Al suo
rientro in azienda sarebbe stato infatti necessario un lungo e costoso periodo
di riaddestramento. Meglio continuare a pagargli lo stipendio: minimo
contrattuale più un tot per ogni volo. Per 10 anni, deciso a mantenere «attivo»
il brevetto di pilota (minimo stabilito dall’Enac: 3 decolli e 3 atterraggi ogni
90 giorni), continuò quindi a volare una volta al mese: «L’onorevole pilota
Luigi Martini vi dà il benvenuto a bordo...». E l’Alitalia continuò a mandargli
a casa la busta paga. Finché non è andato in pensione: 300.000 euro di
liquidazione da sommare al vitalizio da deputato e a una mancia finale di
150.000 euro di buonuscita.
Soldi pubblici. Soldi dei cittadini. Che si chiedono come sia possibile che le
spese correnti della Camera (la tabella è in Appendice) siano passate negli
ultimi tre lustri, tolta l’inflazione, da 636 a 1004 milioni di euro. O che
Palazzo Madama nei cinque anni della legislatura berlusconiana sia costato 2202
milioni di euro, quanto i 900 chilometri del nuovo gasdotto Italia- Algeria.
Eppure, ed è questo che cercheremo di dimostrare, il cumulo dei privilegi dei
parlamentari e le divise dei commessi del Senato pagate nel 2006 ben 1815 euro a
testa e la montagna di denaro speso nei palazzi romani sono solo una parte del
costo enorme della politica. Che va dalle indennità al presidente della
Repubblica ai gettoni dei consiglieri circoscrizionali per un totale di 179.485
persone interessate. Più gli stipendi del personale delle varie amministrazioni,
dal Viminale alle Comunità montane. Più quelli degli autisti, dei portaborse,
dei collaboratori esterni. Più i quattrini dati a quasi 150.000 consulenti. Più
le prebende ai vertici delle oltre 6000 società pubbliche e parapubbliche, usate
spesso per piazzare gli amici e i trombati.
Tutti soldi che sarebbe scorretto contare come «costi della politica» se dalla
politica non fossero stati gonfiati in modo abnorme. E se le istituzioni non
fossero state piegate agli interessi di partito, di fazione, di famiglia. Da
Palazzo Chigi fino a certi paesini siciliani come la catanese Roccafiorita dove
ci sono un sindaco, un vicesindaco, 2 assessori effettivi, 2 assessori non
consiglieri, un presidente del consiglio comunale e 11 consiglieri per 254
abitanti.
Fino al capolavoro di Militello Rosmarino, un paese sui Nebrodi. Dove dal 2003 è
sindaco Concetta Maria Papa per investitura («Concettina, molla un momento la
’ncasciata che devo farti fare ’a sindaca...») del marito Vincenzo, che già fu
sindaco dopo papà Calogero e zio Vincenzo, e che del borgo è il monarca: «Voglio
bene alla gente e la gente vuol bene a me. Se uno mi domanda di trovargli un
ricovero a Milano gli devo dire di no? Se mi chiede una mano per fare assumere
il figlio gli devo dire di no? Perciò mi amano. Vi pare che con tutte le grane
giudiziarie che ho avuto avrei potuto resistere sennò?».
Laureato in medicina, primario di ginecologia, sindaco dicì per una vita salvo i
periodi in cui lasciava la carica a suo cognato Biagio, don Vincenzo è l’erede
di una dinastia rimasta sul trono di Militello quasi più dei Savoia su quello
d’Italia, fin dai tempi in cui il bisnonno entrò in consiglio comunale a metà
Ottocento. Disprezzato da mezzo paese per la distribuzione dei posti e delle
prebende, è venerato dall’altra metà per gli stessi motivi. Il meglio lo diede
come presidente dell’Usl quando, lasciata la poltrona di sindaco al fidato Sante
Russo, si guadagnò la fama d’essere una specie di Padre Pio all’incontrario.
Dove lui posava la mano, lì germogliava una sclerosi a placche, una angina
pectoris, un’insufficienza cerebrovascolare, un’osteoporosi... I nemici lo
irridevano acclamando: «Don Vince’: facci la grazia! Don Vince’: dacci una
pustola!». E via via la sua fama messianica aveva valicato i Nebrodi e le
Madonie e chiamato folle da tutte le contrade.
Finché era intervenuta la magistratura accusando lui e altri di avere
distribuito 180 assegni d’accompagnamento e 500 pensioni a monchi, tisici,
ciechi, sciancati spesso falsi. Come Carmelo Femminella, che per «gonartrosi
bilaterale, osteoporosi diffusa, discopatia cervicale e lombare» risultava
semiparalizzato ma girava in motorino. Tale era l’aspettativa, scrisse il
magistrato, che i carabinieri avevano notato «verso il comune di Militello un
fenomeno migratorio anomalo». A casa di don Vince’ risultarono 15 nuovi
residenti.
Pareva finito, don Vincenzo, dopo quella grana. Sepolto sotto lo scandalo, i
debiti del Comune, l’ondata di indignazione morale. Lui fece spallucce: «Ho solo
distribuito a un po’ di poveracci un milionesimo dei soldi regalati alle
industrie del Nord!». Quindi, per mostrare quanto l’inchiesta non l’avesse
indebolito, si candidò a sindaco di Sant’Agata di Militello. E vinse. Poi
candidò il figlio Calogero a Militello Rosmarino. E vinse ancora. Pronto a
candidare la volta dopo Concettina. E vincere ancora. Fedele sempre a quel
cognome incredibilmente adatto a uno come lui che simboleggia un certo modo di
far politica all’italiana: Lo Re.
di RIZZO e STELLA
''IL COSTO DELLA DEMOCRAZIA'' DI SALVI E VILLONE
Analizzando i guadagni dei deputati, Salvi e Vitali mettono in risalto che un
parlamentare europeo, oltre ad avere uno stipendio quindici volte più alto di un
collega ungherese, ha diritto al rimborso spese di viaggio per sé e per i suoi
collaboratori calcolato sul biglietto aereo più costoso a forfait senza bisogno
di documentazione, 14.865 euro mensili d’indennità aggiuntiva per i
collaboratori di cui non occorre documentare l’esistenza, indennità e benefit
vari per il soggiorno, i viaggi, la presenza nelle commissioni per un totale di
circa 35.000 euro, pari a 70 milioni delle vecchie lire. I parlamentari
italiani, a loro volta, godono d’indennità diaria per il soggiorno a Roma,
rimborsi spese per i viaggi,anche all’estero, i portaborse, i telefoni, le spese
sanitarie per loro e i familiari, oltre a un assegno di fine mandato e a un
altro vitalizio a partire dal 60° anno se si hanno più legislature.
Una
volta, quando in Italia i partiti limitavano la loro propaganda ai comizi o al
porta a porta, restavamo scandalizzati nel sentire le cifre iperboliche che i
candidati alle elezioni presidenziali spendevano negli USA. Oggi anche in Italia
la politica sembra sia diventata un grosso affare, un modo per assicurarsi
potere e ricchezza, risolvere i propri problemi con la giustizia, evadere il
fisco. Ma la gente non è più disponibile a mettere dentro l’urna il proprio
voto, convinta com’è che esso sarà usato, a destra come a sinistra, per mettere
le mani nella greppia del potere ( il 28,6% degli elettori nel 2005 non è andato
a votare).
Oggi chi fa politica dimostra di non credere nell’insegnamento evangelico “[…]
chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore […]” (Marco, 10, 44), ma
in ciò che scriveva Petronius Arbiter nel I secolo d.C. nel “Satyricon”: “Tu
vali quanto possiedi”.
Il
potere di per sé non è un male: è l’uso che ne facciamo che lo sostanzia come
bene o come male. Addirittura per Buddha esso è la potenziale capacità di vivere
che nasce quando s’impara, coraggiosi e umili, a far coincidere il sé con la
forza cosmica circostante. Ma oggi il potere è diventato dominio che si esercita
con tutti i mezzi, sia quelli fisici che quelli psicologici.
I
senatori Salvi e Vallone non sono due politici di professione, ma due professori
di diritto. Essi si sono chiesti, da addetti ai lavori, quanto costa oggi la
politica, mettendo in piazza lo spreco delle risorse e denunciando i fattori che
portano alla corruzione e alla degenerazione della politica. Dal loro studio
emerge l’esigenza di una radicale riforma della gestione della “res publica” per
sottrarla alla lottizzazione partitica, introducendo regole di vita democratica.
Il
libro parte dal finanziamento dei partiti, abrogato con il referendum del 1993
dal 90,3% dei votanti, ma subito reintrodotto con furbizia dalla classe
politica. Le leggi successive (la n. 515/73, la n. 2/97, la n. 157/99, la n.
156/02) infatti, senza fare più alcun riferimento ai costi elettorali,
assicurarono lo stesso il rimborso delle spese sostenute dai candidati e dai
partiti in modo forfetario prima, moltiplicate per quattro poi. Oggi, ogni
partito che ha raggiunto l’1% dei voti ha diritto al “rimborso” sia per le
elezioni regionali che per quelle nazionali ed europee nella misura di un euro
per ogni cittadino elettore, anche se non votante. Oltre al partito, anche ogni
parlamentare può, in deroga ai regolamenti parlamentari, dichiararsi “componente
del gruppo misto” e così far parte per se stesso.
Nel
2005 sono stati così pagati a 81 partiti o liste oltre 196 milioni di euro, a
cui vanno aggiunti i contributi per i gruppi parlamentari nella misura di oltre
92 milioni di euro, per un totale di 288 milioni di euro, pari a circa 576
miliardi delle vecchie lire. Ma, nonostante ciò, i partiti risultano tutti
indebitati sino al collo: solo Forza Italia ha un debito di 121,6 milioni di
euro, coperto da una fideiussione bancaria di Berlusconi.
Proseguendo nella loro spietata analisi, gli Autori denunciano i costi del
federalismo, partendo dalle ambasciate che le venti regioni hanno a Roma,
Bruxelles e in altri stati esteri. La Sicilia, in particolare, ha a Bruxelles in
affitto un appartamento di 540 mq con 11 addetti e un budget di circa un milione
di euro l’anno. Vengono, poi, esaminati gli incarichi regionali, la
moltiplicazione delle commissioni speciali equamente distribuite tra maggioranza
e opposizione con la dotazione di autoblu, uffici, presidenti, personale
aggiuntivo. Con l’approvazione dei nuovi statuti regionali si prevede che i
consiglieri regionali da 1070 diventeranno 1181, con il rischio che i singoli
consiglieri si costituiscano in “monogruppi” con corrispondente staff e
contributo pubblico.
Le
maggiori spese del federalismo sono, comunque, di rappresentanza, per il
personale, i consulenti e i collaboratori esterni.
Negli ultimi anni sono state istituite sette nuove province, mentre altre
ventotto sono in cantiere. Così procedendo, visto che bastano duecentomila
abitanti per istituire una nuova provincia, c’è la possibilità che le attuali
centodieci province diventino duecentottanta.
Analizzando i guadagni dei deputati, Salvi e Vitali mettono in risalto che un
parlamentare europeo, oltre ad avere uno stipendio quindici volte più alto di un
collega ungherese, ha diritto al rimborso spese di viaggio per sé e per i suoi
collaboratori calcolato sul biglietto aereo più costoso a forfait senza bisogno
di documentazione, 14.865 euro mensili d’indennità aggiuntiva per i
collaboratori di cui non occorre documentare l’esistenza, indennità e benefit
vari per il soggiorno, i viaggi, la presenza nelle commissioni per un totale di
circa 35.000 euro, pari a 70 milioni delle vecchie lire. I parlamentari
italiani, a loro volta, godono d’indennità diaria per il soggiorno a Roma,
rimborsi spese per i viaggi,anche all’estero, i portaborse, i telefoni, le spese
sanitarie per loro e i familiari, oltre a un assegno di fine mandato e a un
altro vitalizio a partire dal 60° anno se si hanno più legislature.
Ogni anno in totale Camera e Senato spendono circa 1.530 milioni di euro, pari a
3.000 miliardi delle vecchie lire.
Per
la retribuzione dei 1118 assessori e consiglieri regionali si spendono oltre 150
milioni di euro all’anno, mentre per i consiglieri provinciali, comunali a
assimilati, circa 200 mila, si calcola una cifra di 283 milioni di euro, per un
totale di 433 milioni di euro, più di 850 miliardi di lire.
Quello di eletto è diventato un posto di lavoro, con uno stipendio su cui
accendere un mutuo, com’è successo a Castelvetrano.
La
“Politica s.p.a.”, come la chiamano Salvi e Villone, coinvolge 427.889 tra
eletti e destinatari di incarichi e consulenze, per un costo complessivo di 2
miliardi circa di euro, pari a 4 mila miliardi delle vecchie lire. Ma se tutti i
costi fossero conoscibili “la somma finale – concludono gli autori del libro –
sarebbe fra i 3 e i 4 miliardi di euro”. A queste cifre bisogna aggiungere
1.375.998.561,14 euro per gli staff dei ministri. Si arriva così all’iperbolica
somma di circa 5 miliardi di euro, pari a 10 mila miliardi delle vecchie lire.
Pazzesco!
Non
parliamo, poi, della lottizzazione bipartisan che ha provocato il fallimento
dell’Alitalia e della sanità soprattutto in Sicilia. I manager, come i primari,
vengono nominati sulla base del “vecchio, caro, manuale Cancelli” per
l’appartenenza politica e non per la bravura.
L’amara verità che emerge dal libro è che non vi sono regole e quelle che
esistono vengono evase per la carenza di controlli. Anche lo spoils system, che
ha dato la facoltà alla parte politica vincente di collocare proprie persone di
fiducia nei posti chiave dell’apparato burocratico, asservisce i funzionari ai
politici che possono, in qualsiasi momento, promuoverli o rimuoverli se non si
omologano, com’è successo al precedente Direttore dell’Ufficio scolastico
regionale.
In
Italia vi sono sette sistemi elettorali completamente diversi, per cui se
dovesse accadere, come d’altronde sarebbe auspicabile, di dover votare nello
stesso giorno per le elezioni del consiglio comunale e del sindaco, consiglio
provinciale e presidente, consiglio regionale e governatore, parlamento,
l’elettore andrebbe sicuramente in tilt.
I
rimedi proposti per correggere le disfunzioni del sistema sembra la parte più
debole e discutibile dell’opera. Innanzitutto i grandi partiti dovrebbero darsi,
in conformità al dettato costituzionale, un sistema di funzionamento interno
trasparentemente democratico per essere legittimati al finanziamento pubblico.
Ma questa è una scelta di natura squisitamente politica, fatta da soggetti
politici significativi, che non si può imporre per decreto. Altrettanto
discutibile appare la pretesa di considerare come rimedio funzionale un
inasprimento delle sanzioni penali e una riconfigurazione delle responsabilità
degli amministratori, se si vuole riconferire alla politica un ruolo di alto
profilo e non si vuole mantenerla sotto tutela.
Cosa dire a conclusione?
L'alto livello intellettuale ed etico degli autori del libro esclude che essi
siano stati condizionati dalla infelice storia recente, anche se gli avvenimenti
sono troppo forti e radicati perché si possa escludere a priori che Cesare Salvi
e Massimo Villone, sapendo cosa bolliva in pentola, abbiano voluto buttare le
mani avanti per smarcarsi dai loro compari diessini coinvolti nell’affare Unipol.
Comunque il problema dei costi della politica resta aperto e forse può trovare
risposta nell’antica saggezza degli ateniesi che, dopo aver provato lo tirannia
di Pisistrato
stabilirono, con Clistene,
la rotazione e il sorteggio nella partecipazione alle cariche politiche a
indicare con questa decisione che tutti hanno la stessa areté e che nessuno può
sottrarsi al dovere di partecipare al governo della comunità. In tal modo può
corrersi il rischio che venga eletto un imbecille oltre a persone oneste e
competenti: oggi abbiamo la certezza che le persone oneste e competenti stanno
lontano dalla politica governata dai partiti e dalle lobby di potere, lasciando
il campo a chi fa politica per perseguire i propri interessi, senza averne le
capacità né tanto meno la dignità.
COMPAGNI CHE SBAGLIANO
La
sinistra al governo e altre storie della nuova Italia
«Ci
dicevano: ma come farete senza di lui, voi demonizzatori, voi che su di lui
avete costruito una carriera? Adesso che non è più al governo, cosa farete?»
Dopo una campagna elettorale esitante e una delle notti più lunghe della storia
repubblicana che ha smentito ogni previsione di trionfo, il centrosinistra
prende il timone del Paese. Chi si aspettava una svolta rimane deluso. Le misure
adottate da Romano Prodi sono troppo deboli oppure fatte ad hoc per non
disturbare le lobby e lasciare le cose come stanno: l'indulto liberatutti; i
compromessi per affrontare (senza risolvere) il conflitto d'interessi e il
duopolio televisivo; l'assenza di interventi decisivi contro la grande emergenza
nazionale, la mafia; lo scontro sul segreto di Stato con i magistrati che hanno
messo sotto indagine gli uomini del Sismi. Il passato in Italia non insegna. I
rapporti sempre più stretti tra cosa pubblica e interessi
privati hanno cancellato l'identità dei partiti e sancito la logica del
trasformismo.
Gianni Barbacetto racconta gli «eroi» di questa nuova epoca. Storie di furbetti
rossi e neri. Storie di una transizione senza fine e della morte politica di un
Paese in cui anche la sinistra, che un tempo si diceva «diversa», si è del tutto
integrata nel sistema dominante.
MALE NON FARE, PAURA NON AVERE: PERCHé TANTO CLAMORE SULLE INTERCETTAZIONI???
Il povero Berlinguer (Enrico!) si rivolterà sicuramente nella tomba. Dalla sua battaglia sulla questione morale ai "Compagni" del Quartierino, brutta fine per i DS neo Partito Democratico...
Ecco le telefonate di D’Alema, Latorre e Fassino a Consorte, quando gli elettori non li sentono
«Devi farti un elenco delle prudenze che devi avere (...) sì... delle comunicazioni». È questo uno dei due passaggi più delicati per Massimo D’Alema tra le frasi indirizzate all’allora numero uno di Unipol, Giovanni Consorte. E’ il 14 luglio 2005, il braccio destro dalemiano Nicola Latorre gli passa il leader ds che ha bisogno di parlargli. Consorte è molto preso. D’Alema gli ripete di aver bisogno di parlargli di persona. Consorte ha impegni. Concordano allora un incontro per domenica sera. E intanto arriva il suggerimento di D’Alema. Di cui ieri, come peraltro già un anno fa, circolavano versioni più secche («attento alle comunicazioni», o «hai problemi di comunicazione ») che però non trovano i riscontri invece riconosciuti da più fonti alla più ambivalente frase riportata all’inizio. Che in sé, peraltro avulsa dal contesto completo, può essere compatibile tanto con un allarme dato sul rischio-intercettazioni (lo stesso 14 luglio in cui la moglie di Fazio spiegava al marito di aver appreso da Fiorani che, contrariamente a precedenti assicurazioni di un politico, c’erano telefoni sotto controllo); quanto invece con un invito di D’Alema a Consorte a coltivare meglio l’aspetto delle comunicazioni pubbliche sull’operazione in corso di scalata Unipol alla Bnl.
Bonsignore e il tavolo politico
In un altro passaggio delicato sembra profilarsi una compensazione sul piano
politico per una scelta in teoria imprenditoriale. È ancora il 14 luglio, ore
9.46, sempre tramite il telefono di Latorre. Consorte chiede a D’Alema di Vito
Bonsignore, socio di Bnl ed europarlamentare Udc: vorrebbe stesse dalla sua
parte, ma Bonsignore incorrerebbe in oneri fiscali a vendere.
D’Alema: «Ho parlato con Bonsignore, che dice cosa deve fare, uscire o restare
un anno... Se vi serve, resta... Evidentemente è interessato a latere in un
tavolo politico».
Consorte: «Chiaro, nessuno fa niente per niente».
Fassino: sto abbottonatissimo
Il 5 luglio Consorte sta trattando per comprare il pacchetto di Bnl
controllato dall’ingegner Caltagirone, che capeggia la cordata degli
immobiliaristi romani, ma è ancora incerto se vendere invece la propria quota
agli spagnoli del Bilbao.
Fassino: «Come siamo messi?».
Consorte: «Eh insomma, stiamo... Entro oggi decidiamo, stiamo in trattativa...
perché bisogna capire bene cosa vogliono fare questi signori... diciamo
romani... Perché se è una cosa lineare noi la facciamo, se invece non è lineare
e non è come noi riteniamo si debba fare... eh noi salutiamo... Rischi, Piero,
non ne vogliamo correre».
Fassino: Gli altri cosa fa? Perché mi ha chiamato Abete... Chiedendomi di
vedermi, non mi ha spiegato... cioè... voglio parlarti, parlarti a voce, a
voce... Viene tra un po’... Su quel fronte lì, cosa succede?
Consorte: «Mah, guarda, su quel fronte lì... eh, noi con... però tu... Ma
questa... eh... non gliela devi dire a lui...».
Fassino: «Ma io non gli dico niente, voglio solo avere elementi utili per il
colloquio».
Consorte: «No! No, no. Ti sto infatti...»
Fassino: «Sto abbottonatissimo».
Consorte: «Eh no, ma ti dico anche quello che puoi dire e non dire, solo
questo».
Fassino: «Ecco, meglio così. Dimmi tu».
Consorte: «Noi, sostanzialmente con gli spagnoli un accordo l'abbiamo raggiunto.
Anzi, non sostanzialmente ma di fatto proprio, concreto».
Fassino: «Che si configurerebbe come?».
Consorte: «Che noi aderiamo alla loro Offerta pubblica di scambio...Ci danno il
controllo di Bnl Vita...e soprattutto ci danno tutti gli assets, quindi 8
miliardi di euro che Bnl Vita gestisce, cioè tutta l'azienda proprio,
praticamente no? Poi ci danno un altro oggetto...».
Fassino: «Ehm».
Consorte: «Che però non si può dire oggi (...) E poi d'altra parte il vero
problema è che noi non riusciamo a chiudere l'accordo con Caltagirone».
Fassino: «Qual è il problema?».
Consorte: «Fa delle richieste assurde».
Fassino: «(...) Generali e Della Valle vedono di buon occhio gli spagnoli».
Grazie per l’intervista
7 luglio, ore 9.37
Latorre: «Oggi mi pare che... e’ una giornata importante per una delle
questioni».
Ricucci: «(...) Tra due giorni mi devo... riuscire ad andarmene dall’ufficio,
perché se no, non riesco più manco a sposarmi...Ti volevo dire che ho letto qui
l’intervista di Fassino... Eh... Ha fatto una presa di posizione positiva su di
me e io lo volevo ringraziare».
«Facci sognare»
7 luglio, ore 23.19.
Consorte: «Sto qua con i nostri amici banchieri a vedere come cavolo facciamo a
rimediare ’sti soldi».
Latorre: «Ah, te l’ho detto, firmo io le fideiussioni. Non rompere, stai
tranquillo».
Consorte: «Ma tu non sei credibile con i soldi, non c’hai una lira... tu mi
porti solo debiti».
Latorre: «Se c’è una cosa che non ti porto sono debiti».
Consorte: «Senti, hai parlato con Massimo? ».
Latorre: «Sì, ma lui domani deve andare a Massa Carrara».
Consorte: «Domani vado in Consob. Incontro le cooperative... ci devono dare
ancora un po’ di soldi.. Se me li danno.. eh.. andiamo avanti».
Latorre: «Partiamo (...) Se vuoi ti passo Massimo».
Consorte: «Dai, passamelo». (Ride).
D’Alema: «Lei è quello di cui parlano tutti i giornali...»
Consorte: «Guardi, la mia più grande sfortuna... Io volevo passare inosservato,
ma non riesco a farcela».
D’Alema: «Eh, inosservato, sì...».
Consorte: «Massimo, ti giuro, il mestiere che faccio io, più si passa
inosservati e meglio è... Niente, Massimo, sto provando a farcela... Con
l’ingegnere abbiamo chiuso l’accordo questa sera...».
D’Alema: «Ah».
Consorte: «Nel senso che loro ci danno tutto. Adesso mi manca un passaggio
importante e fondamentale. Sto riunendo i cooperatori perché sono tutti
gasati... Gli ho detto: però dovete darmi i soldi, non è che potete solo
incoraggiarmi».
D’Alema: «Di quanto hai bisogno ancora?».
Consorte: «Di qualche centinaio di milioni di euro».
D’Alema: «E dopo di che, fate da soli?».
Consorte: «Sì, Unipol, cinque banche, quattro popolari e una banca svizzera»
D’Alema: «Ah, ah».
Consorte: «Eh, eh (...) E andiamo avanti, facciamo tutto noi. Avremo il 70% di
Bnl».
D’Alema: «Ho capito».
Consorte: «Secondo te, Massimo, ci possono rompere i c... a quel punto?».
D’Alema: «No, no.... Sì, qualcuno storcerà il naso, diranno che tu sei amico di
Gnutti e Fiorani (...) Va bene. Vai avanti, vai!».
Consorte: «Massimo, noi ce la mettiamo tutta».
D’Alema: «Facci sognare! Vai!».
Consorte: «Anche perché se ce la facciamo, abbiamo recuperato un pezzo di
storia, Massimo, perché la Bnl era nata come banca per il mondo cooperativo».
D’Alema: «E si chiama "del Lavoro", quindi possiamo dimenticare?».
Consorte: «Esatto... E’ da fare uno sforzo mostruoso, ma vale la pena a un anno
dalle elezioni».
D’Alema: «Va bene, vai...»
Gnutti e Berlusconi
Il 12 luglio, ore 9.29, Fassino chiama Consorte e si lamenta che Gnutti
andrà alla cena con Berlusconi. Dicono: chi glielo fa fare di andare a cena con
uno che perderà le elezioni? Il 17 luglio, ore 21.57, Consorte comunica a
Fassino che l’operazione sarà chiusa domani prima dell’apertura della Borsa.
Fassino dice: ormai ci stanno attaccando da tutte le parti. E il 18 luglio è il
giorno del suo «abbiamo una banca?».
Compagno Ricucci
18 luglio.
Latorre: «Stefano!».
Ricucci: «Eccolo! Il compagno Ricucci all' appello!».
Latorre: ride.
Ricucci: «Ormai questa mattina a Consorte gliel’ho detto: "Datemi una tessera
perché io non gliela faccio più", eh!».
Latorre: «Ormai sei diventato un pericolo sovversivo».
Ricucci: «E sì, eh!».
Latorre: «Un pericolo sovversivo, rosso oltretutto ».
Ricucci: «Ho preso da Unipol io tutto... Ho preso, tutto a posto, abbiamo fatto
tutte le operazioni con Unipol, quindi...».
Tutti i verbali di Ricucci e compagnucci
Il Corriere della Sera pubblica i verbali degli interrogatori di Ricucci sulla scalata Rcs. Eccoli divisi in capitoli: Obiettivo: entrare nel "salotto" - La telefonata con Letta - L’incontro con Berlusconi - Il segreto con Rossi e Irti - Contatto con Prodi e Rovati - Il piano Lagardère - Il rifiuto di Caltagirone - "Caltagirone disse: Unipol un sistema Consorte chiamava Massimo e Piero" - Nello studio Melpignano - Gli argentini e Bonsignore
Obiettivo: entrare nel "salotto"
"Fino
all’11 aprile avevo il 5,60 per cento. Dall’11 aprile al 10 giugno non feci
altro che convincere il professor Natalino Irti ad assumere l’incarico, perché
non lo voleva assumere, di una mia consulenza per farmi entrare nel patto di
sindacato perché lui era già membro del consiglio di amministrazione di Rcs,
nominato come consigliere indipendente da Telecom, da Pirelli, da Tronchetti.
Gli dissi: "Guardi professore, mi faccia la cortesia, lei mi deve... io devo
entrare, vorrei entrare nel patto. Se riesce a parlare con il dottor Tronchetti,
un po’ Gnutti se riesce a parlare con il dottor Tronchetti, un po’ io riesco a
parlare attraverso Ripa Di Meana con Capitalia, un po’ Gnutti riesce a parlare
con Lucchini che è il suo vicepresidente in Hopa... Il mio obiettivo è sempre
stato quello di entrare in quel salotto, come ho fatto anche nel 2001 in Hopa.
Cioè la mia non è mai stata un’intenzione ostile. Certo tutti l’hanno preso come
se fosse ostile e posso capire pure perché, ma io ho sempre parlato con
persone... anche con Vittorio Ripa Di Meana stesso, con il dottor Geronzi ne
parlai. Il mio unico obiettivo era convincere questi tre soci grossi:
Montezemolo, Tronchetti e Della Valle. Lo sa quante volte io ho parlato con
Della Valle di questo ragionamento prima che ci litigai?".
P.M.: "Fino al 2 agosto lei ha comprato Rcs".
RICUCCI: "Dal 15 luglio in poi ho ricomprato il due per cento e il due e venti
per cento per superare il venti per cento, per avere la possibilità di convocare
l’assemblea ordinaria che c’ha un valore diverso dalla partecipazione... tanto
dal 17 e 70 al 20... non è che ho speso... ho speso 25,30 milioni di euro, non è
che ho speso 200 milioni di euro".
P.M.: "Questi contatti con il professor Rossi ci sono stati?".
RICUCCI: "Io personalmente mai, sempre il professor Irti".
La telefonata con Letta
Durante
l’interrogatorio del 5 giugno 2006, Ricucci entra nei dettagli della trattativa
per il controllo di Rcs. "La terza cosa ma è che non è per terza per... per
ultima ma era tutto contestuale questa cosa qui, cioè questa trattativa era
partita di uscita mia, o l’entrata nel patto era tra giugno e luglio... da
quando ho superato il 15 per cento in poi era diventata una cosa più
importante".
P.M.: "Come iniziò la trattativa Lagardère?".
RICUCCI: "La trattativa Lagardère non è che una mattina... Lagardère... fu
Lagardère a contattarmi a me, attraverso Alejandro Agag che io non conoscevo
assolutamente e che mi ha prese... che me l’ha presentato Livolsi è un amico
intimo di Berlusconi... tant’è che il testimone è Berlusconi. Cioè nel suo
matrimonio insomma... Berlusconi, Casini e lui sono mo... perché lui stava nel
Partito Popolare Europeo".
P.M.: "Anche... Agag..."
RICUCCI: "Quindi Agag chiama Livolsi che era notoriamente il mio advisor: "Tu
conosci Ricucci?—dice—"certo che lo conosco...", cioè io ho il mio amico Arnauld
Lagardère che è amico di Alejandro Agag che è molto interessato a investire in
Italia nel settore in questa... gli piacerebbe molto avere un contatto con...
con Ricucci, visto che è un uomo importante. Che cosa fa Livolsi? Chiama Letta,
Gianni Letta, per farsi accreditare questa operazione, questo è vero... è vero
perché una volta Livolsi quando mi spiegò... mi telefonò: "Guarda mi ha
contattato Alejandro Agag per fare... Io per fare questa cosa ho bisogno che
prima ne parli col dottor Letta, ho detto benissimo, ho detto vai te... vai a
parlare perché io non lo conosco". Quando è andato... siccome Livolsi due volte
alla settimana viene a Roma il martedì e il mercoledì mi sembra e quando mi
telefonò era una se... un fine settimana, mi disse: "Io vado, ho preso
l’appuntamento... in settimana che io arrivo a Roma, vado dal dottor Letta e poi
se lui è d’accordo nel portare avanti questa trattativa ti chiamo e ti confermo
se cominciamo a fare questa trattativa". Andò dal dottor Letta, me lo passò al
telefono, e questo era ai primi di giugno, metà giugno e il dottor Letta mi
disse: "Mi sembra che sia una strada buona, assolutamente di prestigio, questa
operazione, perché mi sembra, se lei la vuole portare avanti la porti. Mi sembra
una cosa percorribile, e in più le posso fare... le posso chiamare anche il mio
omologo francese, il mio... cioè il Letta francese per dare... per dare a voi
come azienda un accredito, non so se... ho detto bene". Ho detto la ringrazio e
poi mi ha ripassato Livolsi adesso... lui mi disse pure il nome di chi... chi
era questo omologo suo... il Letta francese, che io non me lo ricordo adesso
sinceramente, però è facile sapere chi è. Questa è l’unica volta che io ho
parlato con Letta al telefono, me lo passò Livolsi che era... penso a Palazzo...
o a Palazzo Grazioli adesso non so dov’era. Livolsi lo incontrai una sera sempre
a Roma dopo questo incontro che lui fece col dottor Letta e mi disse che Letta
aveva telefonato al suo omologo francese e aveva dato questo accredito per...
Lagardère non ci conosceva come azienda e fissammo l’appuntamento a Parigi e
andammo a Parigi e da lì iniziò questa... ecco, volevo precisare questo, come
era nata questa cosa di Lagardère insomma...".
L’incontro con Berlusconi
Nell’interrogatorio del 24 maggio, riferendosi a Berlusconi, Ricucci aveva
raccontato: "L’unica volta l’ho incontrato il 22 giugno 2005 all’inaugurazione
dell’auditorium della Confcommercio... Ci appartammo in sette, otto persone in
foresteria. C’era Billè, io, Carletto Sangalli l’attuale presidente di
Confcommercio, Paolucci il presidente di Microsoft e Resca consigliere dell’Eni
ed ex commissario della Cirio.E quindi mi parlò, Berlusconi mi fece una battuta,
mi ricordo ancora adesso. Dice: "Lo sa perché ce l’hanno tutti con lei? Perché
io e lei ci accomuna una cosa, ci piacciono a tutti e due le belle donne".
Punto. Io tante volte cercai... Guardi io Berlusconi non l’ho mai votato, io ho
sempre votato... comunque Berlusconi lo stimo come imprenditore, come politico
per me non vale niente, quindi... Però voglio dire, finché è presidente del
Consiglio è presidente del Consiglio". Il 5 giugno il ricordo appare più
preciso. "Berlusconi mi disse: "Beh, poi so che lei sta andando avanti su quella
trattativa, me l’ha detto il dottor Letta, ha detto mi sembra una cosa buona"".
Un via libera dunque che in seguito spinse Ricucci a cercare un altro contatto
diretto. E così ne spiega i motivi: "Il mio unico contatto per potere... era con
Livolsi o Romano Comincioli, perché Romano Comincioli lo conosce molto bene sono
amici di infanzia... a Livolsi però io non avevo mai detto della mia trattativa
riservatissima che avevo iniziato con il professor Rossi e Irti. Livolsi non
l’ha mai saputo, mai. Quindi io volevo dire a Livolsi ehm... volevo dire a
Berlusconi "Guarda che io... perché io gli dissi... Livolsi ci ha delle...
neanche Livolsi sa determinate cose" e io gli volevo dire "guarda che se noi, se
io porto avanti la trattativa con Lagardère tu devi sapere che io ho anche
quest’altra trattativa no, tu devi... perché in questo mondo se tu crei... si
crea poi il caos come poi è successo, perché è successo? Perché Lagardère quando
io andai a Parigi attraverso Lagardère in Francia, è un po’ come la famiglia
Agnelli in Italia, non so se... anzi il vecchio Lagardère erano amici storici
della famiglia Agnelli, insomma, e hanno un forte legame, molto forte, con
Mediobanca, Fiat e quant’altro e in più Arnauld Lagardère, il giovane, perché il
papà è morto è molto amico di Elkann, Montezemolo, e attraverso l’azienda Dassò
sono soci del patto di Mediobanca, tant’è che allora Lagardère mi disse: "Io
prima di chiudere questa operazione io devo parlarne con i miei soci Dassò e con
Tarak Ben Ammar e infatti entrò dentro anche Tarak Ben Ammar che è l’uomo che fa
da congiunzione tra la Francia e l’Italia in tutto questo... in tutti gli
investimenti francesi, rappresenta circa il 20 per cento nel patto di Mediobanca
Tarak Ben Ammar che è molto amico sia del gruppo Lagardère, ma anche molto amico
del gruppo di Berlusconi... insomma è una persona molto vicina, tant’è che Letta
disse di parlarne anche a Tarak Ben Ammar, quando il dottor Arnauld Lagardère
parlò con Fiat... Montezemolo e Elkann e contestualmente c’era l’altra
trattativa aperta con Rossi e Irti queste cose... si crearono degli scontri
fortissimi, ecco perché è successo tutto questo caos. Tutto questo è successo
tra giugno e luglio, in quel momento preciso c’erano tre aspetti deboli in
questa aria del patto Rcs. C’era il rinnovo del convertendo Fiat, c’era il
rinnovo del gruppo, il patto Pirelli-Telecom, Olimpia e c’era il rinnovo del
patto Capitalia. Non so se voi avete inquadrato un po’ il patto Rcs-Mediobanca
come funziona ".
Ricucci fa il quadro della situazione e delle alleanze. Sostiene che "in Rcs c’è
un’area di centrodestra molto debole e c’è un’area di centrosinistra molto
forte, l’area di Tronchetti si è spostata... si è spostata più verso l’area di
centrodestra". E proprio in questo quadro aggiunge: "Io immagino che il dottor
Lagardère l’avrà detto: "Io ho ricevuto una telefonata dal dottor Letta tramite
l’omologo del... il sottosegretario alla presidenza di Chirac, quindi si è
creato questo caos".
Il segreto con Rossi e Irti
P.M.:
"Perché era venuto fuori?".
RICUCCI: "Si è creato questo... come debbo dire, involontario, perché io non
avevo detto nulla né a Lagardère, né a Livolsi, né a nessuno che io avevo invece
contestualmente iniziato anche un’altra operazione che era quella di vendere la
quota al patto e tenermi il 4/5 per cento e entrare nel patto. Quindi questa
cosa io l’avevo tenuta assolutamente segreta, tant’è che c’era un patto di
riservatezza molto forte che aveva fatto il professor Irti con il professor
Rossi e quant’altro, quindi si è creato proprio, si è creato, involontariamente
no che l’ho creato volontariamente, si è creato questo, questo... incidente come
debbo dire, si so' creati dei malintesi forti...".
P.M.: "Io vorrei capire meglio qual era la necessità di un accredito".
RICUCCI: "Se tu non hai un accredito, non è che la Magiste è un’azienda che tu
puoi... devi essere accreditato, devi essere... non è che Lagardère conosce
Magiste, conosce Stefano Ricucci".
P.M.: "Ma perché cercare un accredito proprio da Letta e perché sperava che
Letta poi...".
RICUCCI: "embeh, ma il partito... Lagardère è notoriamente amica del gruppo di
centrodestra, il governo di centrodestra ehm... il dottor Letta non è uno che...
se te deve di’ de no te lo dice subito, non ti dice sì e poi non lo fa...".
P.M.: "Vorrei capire, a un certo punto lei ha paura che le due trattative, ci
sia un corto circuito, che si venga...".
RICUCCI: "C’è stato un corto circuito... adesso posso dirlo. Io non mi ero
attivato soltanto con il dottor Letta, o tramite Livolsi, o con Berlusconi
attraverso Romano Comincioli. A Comincioli gli dissi: "Cerca di farmi incontrare
il presidente perché io gli devo dire che ho queste due... ma non lo dissi
neanche a Comincioli gli ho detto io gli devo dire delle cose che Livolsi non
sa".
P.M.: "E che c’entra Berlusconi?".
RICUCCI: "Berlusconi rappresenta... ma il presidente del Consiglio del Paese,
come che c’entra?". A questo punto Ricucci rivela i suoi contatti con Romano
Prodi e con il suo staff. "Il presidente del Consiglio del paese non può... è
come se adesso vado a parla’ con Prodi, come... Prodi mi da... io cercai anche
il professor Prodi attraverso Angelo Rovati che è un mio amico, Angelo Rovati mi
ha chiesto... tant’è che una volta venne in ufficio da me Angelo Rovati con il
dottor Costamagna che è notoriamente un prodiano, ma il professor Irti stesso,
lo stesso Irti è il consulente di Prodi, eh, il professor Irti... tant’è che l’8
luglio mi chiamò Prodi".
Contatto con Prodi e Rovati
P.M.:
"Ma il presidente del Consiglio viene a sapere che lei ha due trattative...".
RICUCCI: "Dottor Cascini, se uno... se uno deve andare... se uno vuole entrare
in Rcs deve avere dei consensi politici, ma questo per... a destra e a
sinistra... Alfonso Pecoraro Scanio il 12 luglio perché lo... perché anche lui è
importante. Nicola Latorre che io volevo parlare con... anche il dottor D’Alema,
tutti... cioè se tu non hai un consenso politico non entri dentro Rcs ... puoi
avere pure un miliardo.., tre miliardi di euro...". I suoi tentativi di tessere
queste relazioni, Stefano Ricucci li racconta quando gli chiedono conto di un
biglietto d’auguri mandato a Berlusconi. "Ma mica solo a lui, pure al
governatore, ma mica lo conoscevo prima. Poi l’ho conosciuto nel 2005 il
governatore...".
P.M.: "Però gli faceva gli auguri di compleanno? Cioè lei ha le date del
compleanno di tutte le persone importanti?".
RICUCCI: "La mia segreteria... il governatore è nato lo stesso giorno dopo, l’11
ottobre, voglio dire... Ma mica solo a loro, pure a D’Alema glieli ho fatti,
cioè pure a Fassino, pure a Prodi l’8 luglio mi ha telefonato, mi ricordo come
se fosse adesso. Alle ore 15.30, io stavo in banca, per farmi gli auguri del
matrimonio perché io avevo chiesto a Prodi se mi poteva fare un accredito dentro
al patto attraverso Bazoli. Angelo Rovati, me l’ha portato Rovati... quel
signore alto...".
Il piano Lagardère
Ricucci
illustra anche quale fosse il futuro del gruppo Rcs.
RICUCCI: "Lagardère voleva comprare la mia quota...".
P.M.: "Per farci che?".
RICUCCI: "Per poi lanciare l’Opa... C’erano tre aree che erano molto deboli in
quel momento... sicuramente uno molto debole era il 10 per cento di Fiat, in
quel momento la Fiat era crollata, era a 5 euro, 4 euro e mezzo, se uno lanciava
un’Opa a 5 euro e mezzo a 6 euro la partecipazione del 10 per cento di Rcs che
ha Mediobanca, che ha Fiat in Mediobanca valeva 500 milioni di euro. Da un punto
di vista azionario come faceva Fiat a non accettare una cifra del genere, quando
le banche che fanno parte del patto Rcs sono quelle che devono fare il
convertendo in Fiat. A questa cosa qui, non è che... poi io non so... Io
sinceramente dottor Cascini non ci ho mai parlato con Tarak quindi, però
immagino che Tarak sia la persona che... siccome era una persona di fiducia
all’interno del patto di Mediobanca e di Rcs ed è contestualmente una persona di
fiducia anche dell’area di centro destra... possa essere stata la persona più
giusta per poter mediare queste due... queste due richieste".
P.M.: "E oltre al prezzo di che cosa avete discusso con Lagardère?".
RICUCCI: "Ma di tutto... di tutto il piano industriale, per esempio Lagardère mi
disse, c’era anche un altro aspetto che era molto importante, era tutto il
discorso di come scorporare... io infatti questo me lo so’ segnato, quando...
anche in agosto quando andò avanti questa trattativa c’era tutto il discorso di
Rcs Periodici, Rcs Libri perché a loro interessa molto ehm... Rcs ha la parte
libri molto forte in Francia che è la Flammarion e a Lagardère interessava molto
questa... tant’è che loro... dissero se a limite non troviamo un accordo... nel
distribuire tutto il gruppo Rcs attraverso un’Opa possiamo comprare soltanto la
quota tua e fare uno scambio azionario in modo tale che Rcs ci cede Rcs
Periodici che noi possiamo fonderla con il nostro gruppo".
Il rifiuto di Caltagirone
Ricucci
racconta il tentativo di convincere Francesco Gaetano Caltagirone a entrare
nell’operazione Rcs.
P.M.: "Che gli ha detto a Romano Comincioli? ".
RICUCCI: "Se poteva, attraverso Berlusconi, telefonare a Caltagirone per cercare
di convincerlo a prendere una quota del 4/5 per cento, perché lui ci aveva una
quota sotto al 2 per cento, ce l’ha sempre avuta Caltagirone, ho detto però,
Caltagirone la può compra’ al 4/5 per cento di Rcs, per lo meno il 5 per cento,
siccome io mi ero impegnato con il mondo francese, con Lagardère di portare per
lo meno con me 4/5 personaggi... al di fuori del patto. Loro avevano individuato
nella Bpi, in Caltagirone, in Statuto e in Coppola e me, e già in 5
potevamoavere un 25 per cento no, non so se... il 30 lo avrebbero ritirato loro,
che poi si sarebbero ridistribuiti con il... con una parte del patto a discapito
di altri, cioè chi è che si doveva tirar fuori in questo disegno... Fiat,
Romiti, Bertazzoni, Quadrino, tutti quei, quote minimali, non so se, mica
Mediobanca, Banca Intesa e Generali, quelli no, ma per carità. Nè Tronchetti,masicuramente
la Fiat in quel momento valeva 5,00 euro, ci avevano bisogno di soldi, le banche
che dovevano essere... gli dovevano convertì le azioni perché la Fiat non glie’
vo’ rida’ i soldi co’ 3 miliardi di euro, se gli dai 500 milioni di euro per la
partecipazione, dovrebbero accettarlo no, che fa, dice no io la mia quota di
partecipazione a Rcs non la vendo, però voglio pure le proprietà di 3 miliardi
le azioni Fiat, ma come cioè.., in quel momento era un... era importante. Non so
se mi ha capito il senso politico di questo... Io con Caltagirone ho parlato sia
prima che dopo, soltanto che lui tra il prima e dopo si è venduto il 2 per
cento. E io lì ci rimasi male, quando lui ha fatto questa cosa, perché lui mi
aveva fatto mezzo capire che poteva starci. E lui mi dice: "Però io quando ho
pigliato ’sta partita Bnl, ne riparliamo"".
P.M.: "E quindi ha chiesto a Berlusconi di fare da intermediario, ha chiesto a
Comincioli?".
RICUCCI: "A Comincioli dovrebbe esse... cioè non è che gli ho chiesto per
telefono, gli ho chiesto, vorrei avere questo appuntamento perché vorrei
chiedere a Berlusconi se poteva, se mi può fare questa cortesia di fare... di
chiamare l’ingegner Caltagirone per potermi dare una mano su questa operazione
qua. Se si poteva prendere per 10 meno il 5 per cento, il 4/5 per cento della
quota di Rcs".
P.M.: "E lei sa se è stato fatto qualche passo verso Caltagirone?".
RICUCCI: "No... non c’è stato l’appuntamento con Berlusconi".
"Caltagirone disse: Unipol un sistema Consorte chiamava Massimo e Piero". Il racconto di Ricucci. Sotto inchiesta i "contropattisti"
La
cordata con Francesco Gaetano Caltagirone, la trattativa con Consorte, ma
soprattutto i personaggi che si muovevano nell’ombra dell’affare Unipol-Bnl
vengono raccontati da Stefano Ricucci in diversi interrogatori. Davanti ai
magistrati l’imprenditore romano rivela il ruolo delle banche, l’interesse dei
politici che aveva ascoltato quasi in diretta, oppure intuito, e i suoi rapporti
con gli ufficiali della Guardia di Finanza che gli avrebbero "soffiato" notizie
sull’inchiesta in corso e ai quali lui stesso avrebbe raccontato i retroscena
dell’operazione. L’indagine non è chiusa.
Una informativa del nucleo Valutario della Guardia di Finanza ha infatti
evidenziato sospetti di aggiotaggio sul titolo Bnl e sotto inchiesta sono finiti
i movimenti dei contropattisti. Nell’interrogatorio del 16 maggio 2006, in una
saletta di Regina Coeli dov’è l’immobiliarista detenuto, il pubblico ministero
chiede proprio conferma di alcune confidenze che Ricucci avrebbe fatto a un
investigatore della Guardia di Finanza.
P.M.: "La domanda è molto semplice: lei a Carano (ufficiale della Gdf, ndr), su
Unipol-Bnl che cosa ha detto?".
RICUCCI: "Io ho detto che abbiamo fatto la trattativa con Unipol, ma l’ha fatta
soprattutto l’ingegner Caltagirone... Quindi l’ingegner Francesco Gaetano
Caltagirone che ha detto che Unipol era interessata a rilevare le nostre quote e
quindi questo gli ho raccontato. Ma voglio dire, poi c’era Consorte, e Sacchetti
che notoriamente è vicino al mondo politico di sinistra (...)".
P.M.: "Carano dice di aver saputo da lei che i vertici Unipol avevano fatto
riunioni con esponenti politici sulla questione...".
RICUCCI: "Lo diceva Consorte pubblicamente nelle riunioni che noi facevamo.
Parlavano al telefono sempre... Stava lì al telefono davanti a me "Ciao Massimo,
ciao Piero", davanti a noi... Caltagirone che parlava con suo genero di assegni,
era tutto pubblico... L’ingegner Francesco Caltagirone ha trattato direttamente
con Consorte e la Banca d’Italia, quindi avvertendo il Governatore
continuamente, finché noi abbiamo chiuso il prezzo e mi impuntai, perché io
volevo 3 euro e mi fecero enormi pressioni. Questo ho raccontato a Carano e
questo vi sto dicendo. (...)".
P.M.: "Quando lei dice "mentre facevamo la trattativa Consorte alza il telefono,
ciao Piero, Ciao Massimo", immagino si riferisca a Fassino e a D’Alema...".
RICUCCI: "Ma Unipol è... Perché ve lo dico io? Io sono d’accordo, non è che...
Per me è positivo che ci sia un vantaggio politico, una fusione politica. Un
concetto del genere lo accetto, è una cosa buona... Chi è che le può rispondere
perfettamente su questo è l’ingegner Francesco Gaetano Caltagirone, il dottor
Gianni Consorte e Ivano Sacchetti. Noi ci siamo trovati, io e le altre cinque
persone appena entrati, nella stanza dell’ingegner Francesco Caltagirone, nella
sala riunione, Consorte e Sacchetti. E chi lo sapeva? Immaginerò che c’è stata
una trattativa prima, no? Non con me, con Caltagirone e immagino, vista la
confidenza che già era in quel momento, immagino... visto che si parlavano...
Quello parlava al telefono con la Banca d’Italia, quello parlava al telefono con
Fassino, quell’altro parlava e... Io sono arrivato e ho detto: "Io non vendo a
2,70, io se volete vendo a 3 euro". Fecero l’ira di Dio. Ho detto: "Sentite, a
me non è che mi potete convincere su una cosa che... Io se volete... vorrà
dire". Ci siamo accordati con enormi pressioni che mi fece Caltagirone. Dice
"Guarda... è un’operazione di sistema, è di qua, è di là". Alla fine, dopo due
giorni io decisi di vendere a 2,70 euro. Sono stato io. Ho fatto aumentare il
prezzo da 2,40 a 2,70, perché loro volevano vendere a 2,40)(...)".
Nello studio Melpignano
P.M.:
"È vero che lei riferì a Carano di incontri fra vertici Unipol ed esponenti
politici a San Lorenzo in Lucina?".
RICUCCI: "Nello studio Melpignano? Al primoappuntamento l’ingegner Caltagirone
mi disse: "Devi incontrare l’ingegner Consorte presso lo studio Melpignano"...
Io ho detto a Carano che l’universo Unipol vedeva di buon occhio il vertice Ds,
D’Alema e Fassino, affinché Unipol comprasse Bnl. Io incontrai Consorte da
Melpignano, poi arrivò Ivano Sacchetti che era l’altro amministratore delegato.
Dopo di me arrivò l’ingegner Caltagirone, poi arrivò Statuto, poi arrivò
Coppola, poi... tutti quanti... Poi ci siamo messi d’accordo. (...)".
I pmcercano di far capire a Ricucci il senso delle loro domande, ma l’immobiliarista
continua a rispondere in modo che ai magistrati appare evasivo, finché
interviene l’avvocato difensore Grazia Volo: "Il discorso è semplicissimo:
Carano sostiene di essere stato informato da te di attività sostanzialmente
illecite tra Unipol e i vertici Ds".
RICUCCI: "Per carità, mai! (...) Il punto è questo. Tutti quanti hanno parlato
dell’operazione Unipol-Bnl in modo errato, secondo me. Tutti. Notizie, giornali,
e lo stesso Carano ne parlava male. Io gli spiegai che questa operazione fu
perfetta da parte di Unipol, Consorte e Sacchetti, sia nei modi sia nei tempi.
Io non ero d’accordo solo sul prezzo,ma poi dopo mi sono dovuto adeguare a 2,70
euro. Ma per quanto mi riguarda i tempi e i modi sono stati perfetti. (...) Noi,
noi contropatto, non io, in sette persone, abbiamo trattato con Unipol
attraverso l’ingegner Caltagirone. (...) Nel modo più perfetto e automatico e
trasparente del mondo, Unipol ci disse: "Noi abbiamo con noi Nomura, Deutsche
Bank, cooperative, Opa e...". Insomma, erano cinque o sei persone che potevano
comprare le nostre quote. Nel sorteggio ame uscì Nomura, e io ho venduto la mia
partecipazione alla Banca Nomura. (...) Poi che Unipol avesse avvertito prima e
dopo e durante Fassino, D’Alema e quant’altro... Ma per meè pure giusto.Mache
Caltagirone è il suocero di Casini e non l’avverte? Scusa eh... Non lo so, io
penso... Immagino di sì, l’ho sentito anch’io per telefono questo, come ho
sentito per telefono che Caltagirone chiamava il Governatore, chiamava Frasca...
È normale per avere un’autorizzazione verbale, come debbo dire? Un consenso di
fattibilità, se questa operazione si poteva fare o meno e se era ben accetta
dalla Banca d’Italia... Cioè, è così che si fa... (...)".
P.M.: "Quando e come lei ha saputo dell’interesse di Unipol per Bnl? (...). La
prima volta che lei ha avuto notizie di questi incontro, quand’è? ".
RICUCCI: "Me lo disse Fiorani nell’estate del 2005 (...). Per telefono Fiorani,
sul suo telefonino, al bar.. Eravamo a Cala di volpe! Andammo lì a prendere un
aperitivo... Lui mi disse questa cosa qui: "Guarda che Consorte sta trattando
con Caltagirone", mi fa. Ho detto: "Ah, caspita è importante questo, tanto è
andata in fumo l’operazione Banca popolare di Novara,". Dice: "Però non vuole
spendere più di 2,40 euro, 2,50", gli ho detto: "Veda... Co’ ’sti prezzi facesse
come gli pare". Poi dico "no, ma dai... su queste cose... bisogna vede’". Me lo
passò per telefono, e poi mi disse "Tanto ci vediamo, che io ho appuntamento con
l’ingegner Caltagirone, sto a tratta’...". Consorte mi disse questo".
Gli argentini e Bonsignore
Una
settimana più tardi, il 24 maggio, sempre nel carcere di Regina Coeli i pubblici
ministeri e Ricucci tornano a parlare della vicenda Unipol- Bnl. L’immobiliarista
ripete i contatti e gli incontri con Consorte, fino alla vendita delle azioni
Bnl del 18 luglio 2005. Dalle domande emerge il sospetto degli inquirenti su
un’operazione di aggiotaggio, che potrebbe coinvolgere gli stessi contropattisti
di Bnl.
P.M.: "Lei sa chi ha comprato Bnl il giorno immediatamente precedente il 18
luglio, facendo salire il prezzo del titolo? Prima del contratto che avete fatto
ci sono stati degli acquisti forti sul titolo Bnl, il titolo non valeva 2,70
prima del 18 luglio, è andato sul mercato a 2,70".
RICUCCI: "Io sui titoli non c’entro niente".
P.M.: "Sono stati comprati titoli sul mercato di "Hedge Fund" inglese, lei non
me sa niente?".
RICUCCI: "Per carità! Zero!".
P.M.: "Non è roba sua".
RICUCCI: "No".
P.M.: "Stavolta non c’entra niente, eh?".
RICUCCI: "Se lei vuole gli dico di sì, ma...".
P.M.: "No, è per sapere, e scopriremo prima o poi chi sta dietro questa "Hedge
Fund". Era una domanda legittima per sapere se per caso lei ne sapeva qualcosa
sull’allineamento al mercato al prezzo che avevate concordato voi".
RICUCCI: "Ma guardi che in tre giorni è successa questa cosa (...)".
P.M.: "Degli acquisti fatti da Unipol su Bnl le non ne sa nulla?".
RICUCCI: "Zero! Io proprio il mondo Unipol non lo conosco. Io gli ho chiesto un
affidamento di 80 milioni di euro, però me l’ha bocciata Consorte (...)".
P.M.: "Lei è stato socio di Bnl per lungo tempo, dell’esistenza di un socio che
deteneva un pacchetto rilevante di Bnl ha mai sentito parlare? Un socio non
dichiarato, non ufficiale".
RICUCCI: "Sì, sì, se ne parlava, erano gli argentini... Se ne parlava così, non
è che gli posso... (...) Perché lei mi vuole far prendere una denuncia a me? Lei
chiuda il microfono e io glielo racconto ".
P.M.: "Questo non è possibile (...)".
RICUCCI: "Su Unipol c’erano tutte le altre banche, c’era la Carige, la Banca
popolare dell’Emilia Romagna, c’era la Banca popolare di Vicenza ".
P.M.: "E avevano quote di Bnl?".
RICUCCI: "Certo. E appoggiavano l’operazione Unipol".
P.M.: "E rastrellavano azioni Bnl?".
RICUCCI: "E certo".
P.M.: "Anche Gnutti?".
RICUCCI: "Gnutti era il numero uno, cioè...".
Al pubblico ministero interessano i "soci occulti " di Bnl, ma a Ricucci
l’argomento non piace: "Degli argentini non deve parlare con me. Lei si convochi
Bonsignore e Caltagirone e se lo faccia dire. Che lo chiede a me?".
P.M.: "Ma lei cosa sa?".
RICUCCI: "Io non so niente. Conosce Catini? Si chiama tutti e tre, si mette qui
e se lo fa spiegare".
P.M.: "Ma perché lei sa che queste persone sanno qualcosa di questo pacchetto?".
RICUCCI: "Chi vive in un mondo finanziario sa di queste cose, ma non è che ha
delle prove. Si sa... Non so’ cose palpabili...".
P.M.: "Eh, allora dica "Ho sentito dire che..."".
RICUCCI: "Ma non posso dire così. Scusi eh, lei fa il pubblico ministero, lei ha
tutti i poteri per chiamare queste persone, che sono i diretti interessati, gli
fa delle domande e si fa dare delle risposte. Che lo vuole dare a me ’sto
problema? Non ho capito perché mi vuole dare ’sta croce!... Io le ho dato un
indirizzo, adesso lei utilizzi questo indirizzo".
P.M.: "Ma se mi dice "chieda a quei tre" qualcosa deve sapere".
RICUCCI: "Ma non sono tre, chiami anche la Banca Finnat. (...) Chiami De Bustis.
Lo sa chi è la moglie di De Bustis?".
P.M.: "No, che ne so io...".
RICUCCI: "È il capo dell’ufficio finanza in relazione alla Banca Finnat".
P.M.: "E che cosa c’entra con questi argentini? ".
RICUCCI: "La Banca Finnat fa per mestiere principale la fiduciaria (...)".
Ricucci fa capire che non vuole parlare, dice non può, che se affronta il
discorso di Giampiero Nattino e della Banca Finnat rischia addirittura la vita.
RICUCCI: "Giampiero Nattino è il proprietario della Banca Finnat. È il
maggiore... È quello che ha curato tutta l’operazione Bnl, del contropatto. Non
per quanto mi riguarda, perché io le azioni Bnl ce l’ho da ottobre 2003, a me mi
ha finanziato la Banca Carige. La Banca Finnat io l’ho conosciuta nel mondo
Caltagirone".
P.M.: "Ma fa da fiduciaria a chi?".
RICUCCI: "A tutti. I più grandi imprenditori (...)".
P.M.: "Da Caltagirone bisognava andare per parlare di questo pacchetto?".
RICUCCI: "Io non le ho detto questo... Lo dice lei, veda lei!".
P.M.: "Va bene, ha altro? (...)".
RICUCCI: "Mi dite per cortesia quando mi rimandate a casa?".
P.M.: "Attendiamo un attimo la trascrizione".
RICUCCI: "Che posso inquinare? Manco il Tevere posso più inquinare io!".
L'iniziativa Parlamento pulito è continuata anche dopo le elezioni politiche del 2006, interessandosi così anche ai parlamentari neoeletti e rieletti di tutti gli schieramenti. Ne risultano 25 condannati definitivi (compresi quelli che hanno patteggiato la pena), di cui 21 di centrodestra e 4 di centrosinistra.
I NOMI DEI 25 “ONOREVOLI” TUTT’ORA IN CARICA:
1.
Berruti Massimo Maria (FI): favoreggiamento.
2. Biondi Alfredo (FI): evasione fiscale (reato poi depenalizzato).
3. Bonsignore Vito (UDC): corruzione.
4. Borghezio Mario (Lega Nord): incendio aggravato.
5. Bossi Umberto (Lega Nord): finanziamento illecito e istigazione a delinquere.
6. Cantoni Giampiero (FI): corruzione e bancarotta.
7. Carra Enzo (Margherita): falsa testimonianza.
8. De Angelis Marcello (AN): banda armata e associazione sovversiva.
9. D’Elia Sergio (Rosa nel Pugno): banda armata e concorso in omicidio.
10. Dell’Utri Marcello (FI): false fatture, falso in bilancio e frode fiscale.
11. Del Pennino Antonio (FI): finanziamento illecito.
12. De Michelis Gianni (Nuovo PSI): corruzione e finanziamento illecito.
13. Farina Daniele (PRC): fabbricazione, detenzione e porto abusivo di ordigni
esplosivi, resistenza a pubblico ufficiale, lesioni personali gravi e
inosservanza degli ordini dell’autorità.
14. Jannuzzi Lino (FI): diffamazione aggravata.
15. La Malfa Giorgio (FI): finanziamento illecito.
16. Maroni Roberto (Lega Nord): resistenza a pubblico ufficiale.
17. Mauro Giovanni (FI): diffamazione aggravata.
18. Nania Domenico (AN): lesioni volontarie personali.
19. Patriciello Aldo (UDC): finanziamento illecito.
20. Pomicino Paolo Cirino (DC): corruzione e finanziamento illecito.
21. Previti Cesare (FI): corruzione giudiziaria.
22. Sterpa Egidio (FI): finanziamento illecito.
23. Tomassini Antonio (FI): falso in atto pubblico.
24. Visco Vincenzo (DS): abuso edilizio.
25. Vito Alfredo (FI): corruzione.
Contributi delle imprese ai partiti (anno 2004, valuta Euro):
Alleanza Nazionale |
|
Contributi 2004 |
1.478.105 |
Contributi 2003 |
226.350 |
Videopuglia srl, Conversano (Le ) |
100.700 |
------------------------------------------------------------------
Democratici di Sinistra |
|
Contributi 2004 |
1.526.880 |
Contributi 2003 |
733.500 |
Capuana srl |
100.000 |
------------------------------------------------------------------
Forza Italia |
|
Contributi 2004 |
1.265.500 |
Contributi 2003 |
188.000 |
Casprini, San Giovanni Val D' Arno (Fi) |
184.000 |
------------------------------------------------------------------
UDC |
|
Contributi 2004 |
480.000 |
Contributi 2003 |
471.290 |
Elia srl, Varese |
150.000 |
------------------------------------------------------------------
Lega Nord |
|
Contributi 2004 |
369.248 |
Contributi 2003 |
225.800 |
Editrice Esedra coop giornalisti, Roma
|
100.000 |
------------------------------------------------------------------
Udeur |
|
Contributi 2004 |
139.750 |
Contributi 2003 |
0 |
Mec srl, Torino |
50.000 |
------------------------------------------------------------------
La Margherita |
|
Contributi 2004 |
138.850 |
Contributi 2003 |
74.500 |
M&G finanziaria ind., Alessandria |
30.000 |
------------------------------------------------------------------
SDI |
|
Contributi 2004 |
20.000 |
Contributi 2003 |
35.000 |
Cantieri italiani spa, Pescara |
10.000 |
A margine del documento si legge che "nessuna azienda ha versato denaro a Rifondazione Comunista, Comunisti Italiani, Verdi e Italia dei Valori". In più, si specifica come i contributi inferiori a 10.000 euro siano conteggiati nel totale, anche se non specificati nel dettaglio.
› Per leggere le edizioni precedenti: 1
11-12-07 21.57