:Intro:

«Edipo Re» di Sofocle
«Nàvrat - Il Ritorno» di Peter Jilemnický
Definizione dei caratteri e messa in relazione dei personaggi

Sofocle e Jilemnický a confronto
Il senso del cambiamento
Prima e dopo il muro: un Edipo Occidentale
Conclusioni




Norvat: il ritorno





La sentenza del tribunale fa crollare le speranze di Padych che si sente come un naufrago disperso tra le onde. L’acqua s’increspa, si agita, si formano cerchi che si propagano verso le rive e poi più nulla: l’acqua torna ad essere calma e sulla sua superficie si riflette il disco mutilato di una luna che ride d’ogni disgrazia umana.

La coscienza di Padych si ribella, ma i cerchi si diffondono sempre più e l’odio è così grande che li spinge al di là d’ogni possibile ostacolo.

Esce dal tribunale dirige direttamente all’osteria.

Alcuni conoscenti siedono dietro tavoli umidi e lerci: masticano tabacco e sputacchiano ventagli bruni sul pavimento fradicio. Vecchi contadini stritolati e consumati dalla fame e dal lavoro pesante, dei quali non restano altro che rughe ritorte sulla fronte secca e ossa pietrose nelle mani.

- Lodato sia… - bofonchia Padych sedendo accanto a loro - Ehi, oste! - grida - Porta un decilitro a tutti quanti! - e solo dopo chiede: - Che cosa bevete?

- Come mai tanta generosità?

- Hai guadagnato così tanto?

- Che cosa prendete? - replica Padych con impazienza.

- Se proprio ci tieni… grappa di prugne!

Bevono assieme. Poi, stringendo in mano il bicchiere vuoto e battendolo sul tavolo, Padych mormora: - Eh, sì… ho guadagnato!… ho guadagnato abbastanza!… veramente!… Torno ora dal tribunale: mi hanno condannato!

Le sopraciglia fitte degli uomini attorno a lui si drizzano, s’inarcano: sui loro volti compare una smorfia di meraviglia.

- Cosa?

- Non mi dire!

- E chi?

Padych, visibilmente colmo d’ira, fa riempire nuovamente i bicchieri e poi, a gran fatica, vomita parole assordanti: - Chi?… Chiedete chi?… E chi se non quel gretto di un Šulgan… Šulgan l’oste: che vada al diavolo! - piccola pausa - Veramente c’è di mezzo qualche debito, però… come se non volessi pagare!… Per chi mi ha preso?… Certo che lo avrei pagato, ma non ora… - prende la grappa di prugne e la trangugia in una sorsata.

- Eh sì, Šulgan è un vero rapace! - annuisce uno di loro.

- Vuole arricchirsi presto.

- E si arricchisca pure… - schiamazza Padych - …solo i ladri si arricchiscono presto! Ecco, se fosse per l’alcol… quel nostro debito… non direi nulla: mi denunci pure, mi porti in giudizio!… Ma per la farina, lo zucchero, qualche tela… l’inverno era così lungo e bisognava beh mangiare, dico io!

L’ira lo assale e non riesce più a formulare discorsi coerenti. Davanti agli occhi gli passano immagini terribili grondanti di miseria nera.

 

L’anno precedente, verso la fine dell’inverno, gli era caduto addosso un albero del bosco che lo aveva condannato a restare a letto per l’intera estate e la moglie, da sola, aveva coltivato un pezzo del loro piccolo campo per avere almeno un po’ di patate.

Era giunto l’inverno.

Si era ripreso un po’ e aveva pensato: - Resterò a casa e potrò intagliare molte assicelle per l’ebreo Cadce.

Macché!

Il lavoro non gli era andato bene come aveva previsto e quell’unico carretto di assicelle – pur se ben intagliate – non gli era bastato per coprire le necessità della famiglia.

Non gli restava altro da fare che andare da Šulgan, proprietario dell’osteria e dell’emporio, di una casa di mattoni e di una catena d’oro che gli arrivava alla pancia.

Ma Šulgan non è stupido!

Šulgan sa bene come vanno gli affari: sa di chi fidarsi e di chi no! Non per niente fa credito ai poliziotti e al notaio e conosce tutti i signori della città.

Lui sa cosa può permettersi e cosa no.

Sì, lui sa perfettamente cosa e a chi può prestare la merce del suo emporio così che gli ritorni moltiplicata a tempo debito. Ecco perché ha nutrito Padych con farina rancida e zucchero costoso in un periodo in cui il povero malcapitato non aveva soldi neppure per comprare il sale e la povertà digrignava i denti in ogni angolo della sua misera capanna. Lo ha nutrito attendendo il momento ideale per denunciarlo come debitore.

A causa di un piccolo debito necessario alla sopravvivenza, Šulgan teneva in pugno il povero Padych e sapeva di poterlo distruggere in qualsiasi momento.

 

- I soldi non li ho, ma devo pagare lo stesso!, dicono… - la voce di Padych è velata dall’alcol - Così pensano i nostri signori! - il sangue brucia sotto la sua pelle e lo irrita fin nel suo più remoto antro - Arriveranno gli uomini dell’esecuzione e mi porteranno via tutto… non mi resterà più nulla!

- Non esagerare! - cercano di tranquillizzarlo gli amici.

Padych non riesce a calmarsi: - So bene quello che pensa Šulgan! - continua colmo di tristezza - Perché non mi ha denunciato all’inizio dell’inverno?… Pensate forse che abbia avuto pietà?… - la sua voce diventa un lamento - Povero Padych, resterà senza latte, senza nulla da mangiare!… - piccola pausa e ruggito - No! Lui non è così caritatevole! Lui è furbo! - occhi iniettati di sangue - Lasciagliela la mucca! Lascia che la nutra lui e quando arriverà il momento… - sfrega le mani - …quando finirà l’inverno… gliela prenderò grassa e ben custodita… - è un monologo di piombo, gonfio di disperazione, madido del sudore rancido in cui nasce e muore il povero popolo di Kysuce.

Padych e compagni escono dall’osteria e dirigono verso casa.

Il cielo è azzurro e il sole pallido brilla ancora.

 

È febbraio: la neve copre tutto il paese e il gelo, terribile durante la notte - notte nera come i velluti destinati ai morti - fa ghiacciare i fiumi nelle cui acque si riversano la povertà e la tristezza del paese.

Scorrono le acque: scendono dai pendii impervi e sgorgano da capanne povere irrompendo nel Vah e nella Dolna. Sono convogliate dai grandi fiumi attraverso lande desolate, campi arati di fresco, rigogliosi prati dove pascolano buoi grossi e villaggi in cui si mangia pane bianco. Raggiungono la parte meridionale del paese dove la gente sa che esiste un angolo di mondo chiamato Kysuce.

Kysuce? Da qualche parte lassù!

Kysuce: terra martoriata, dove ogni anno tempeste e diluvi strappano zolle di terra e le portano via, dove non crescono né graminacee né segale.

Kysuce: terra sfortunata, dove ci sono per lo più donne, perché gli uomini devono emigrare in Francia, a Cuba, in Canada o in Argentina e dove la miseria affoga nell’alcol denaturato.

 

Gli amici hanno raggiunto le loro casupole sparse e Padych resta solo.

Attraversa il villaggio, passa acanto alla chiesa e oltre la chiesa scorge l’osteria di Šulgan.

Siede su un muretto e ride con amarezza, mentre un pensiero malvagio attraversa la sua mente: - Che gli venga un accidente!

Si alza, attraversa la via e percorre un tratto di marciapiede, svolta a sinistra e intravede la sua baracca. I raggi di un sole serale, obliqui, leccano assetati la neve.

Gli stivali scivolano sul marciapiede ghiacciato, cade, impreca dentro di sé. La miseria è rovinata su di lui come un’enorme montagna e lui non ha potuto evitarla: lo schiaccia come un verme impotente, col suo peso lo tiene fermo e lo obbliga a osservare la realtà del suo mondo.

Quando entra nel locale, l’aria pesante lo schiaffeggia in volto e lo fa vacillare sulla soglia. Per terra siede una bambina: gioca con una bambola di stracci lerci. Caterina, la sua donna, siede accanto alla finestra ombrosa e tesse un telo di lino.

- Allora? - chiede timidamente mentre lui chiude la porta. Non corre ad abbracciarlo, ma lo stringe a sé con occhi tremanti di paura. Nel suo cuore una scintilla di speranza e una fiammella viva trucidata dalla risposta del marito.

- Mi hanno condannato!

Gli occhi affettuosi della donna si socchiudono. Una torbida nebbia li vela e due lacrime, solo due lacrime, scendono lungo le sue belle e giovani gote.

A Kysuce non si piange e due lacrime non sono poche.

A Kysuce piangono solo le vecchie con occhi ciechi.

A Kysuce piangono solo i bambini colpiti da congiuntivite.

A Kysuce la gente non piange e due lacrime non sono poche.

 

I venti di primavera non hanno ancora iniziato a soffiare lungo le pendici dei monti, sui campi e sulle pianure ancora coperte di neve in febbraio, quando arriva nella valle un agente.

- Cerchiamo uomini da mandare in Francia! - annuncia e la notizia, come un piuma leggera, vola di bocca in bocca e si divulga per il paese.

Alcuni uomini del villaggio vanno dal sindaco per accertarsi della veridicità della notizia e per vedere in volto l’agente che la propaga.

È la verità!

L’agente agita fogli colmi di timbri dei vari uffici di stato e mette al corrente la popolazione delle novità. Le sue parole assumono i connotati di franchi d’oro e creano un’immagine della Francia come di una montagna di pane bianco in attesa di essere tagliato e mangiato.

Ci sono pochi uomini. In parte sono già sparsi per il mondo e quelli rimasti non si fanno avanti.

 

Frattanto, la popolazione della Francia del nord, appena uscita dalla Grande Guerra, si riprende con difficoltà. Gente vestita di stracci, affamata e piena di idee rivoluzionarie comincia ad alzare la testa dopo essere stata sottomessa per tanto tempo all’ingiustizia.

- Vogliamo vivere come uomini! - gridano.

- Vogliamo avere un’esistenza dignitosa! - proclamano.

C’è chi scava nelle miniere, chi ripara fabbriche distrutte dai bombardamenti e chi spiana la terra sconquassata dalle bombe, cosi che dal mare della povertà possa nascere una nuova generazione toccata dal benessere.

 

A Kysuce nessuno sa cosa voglia dire vivere dignitosamente.

Alla gente di Kysuce basta avere un tetto, anche se non bellissimo, sotto il quale ripararsi e, oltre alle patate, anche un po’ di farina. Le stalle di pietra restano sorde nei confronti delle speranze ridicole e dei pugni dei padroni, che attraversano questa terra contando di arraffare e ne escono con le mani vuote.

Padych guarda le sue mani larghe e forti: - È un peccato che mani così debbano essere pigre! - pensa.

Decide di partire per la Francia.

- Mi sono iscritto. - annuncia a sua moglie quando torna a casa.

- Come potrò farcela da sola? - chiede Caterina tra i singhiozzi - Proprio adesso che Šulgan ci ha ingannati… ci prenderanno la mucca e poi, cosa faremo?

- Forse è meglio così… - la incoraggia Padych - …sei riuscita a vivere sola fino ad ora… tutto l’anno… riuscirai anche dopo la mia partenza.

Sono parole definitive, decisive.

 

Padych inizia a prepararsi per il viaggio perché il termine di partenza si avvicina.

Quando incontra gli amici della campagna, gli chiedono: - Come ti troverai nella città straniera, Štefan? Non hai paura?- lui risponde con sicurezza: - Non c’è motivo di aver paura… meglio vivere all’estero che restare a casa a morire di fame.

Si sente benissimo.

Si prepara a partire e si rallegra: è diventato il centro d’interesse del villaggio e alla gente che lo ferma e che gli chiede della Francia, lui risponde come se fosse già lì, usando le parole rosa e dolci come caramelle dell’agente.

Al contrario, a casa, parla poco della sua partenza.

Caterina piange di nascosto: aspetta che se ne vada.

A volte, quando lui ritorna, gli chiede: - Dimmi, Štefan, i soldi me li manderai? Ti prego, non dimenticarti di noi, perché qui, senza di te, non staremo per niente bene.

Frasi sdolcinate e parole d’amore non hanno mai trovato terreno fertile tra le mura povere del loro rifugio.

Padych ha una moglie stupenda dalla pelle rosata come il sole all’alba.

Ascolta le sue parole, ma non l’abbraccia.

Ascolta la sua richiesta, ma non la bacia.

Percepisce il suo timore, ma non si avvicina e non la accarezza.

Con un’ombra di preoccupazione, sentimento tipico per la gente di Kysuce dichiara: - Te li manderò… dicono che lì si guadagna bene e i prezzi sono bassi…

 

È l’ultima notte.

Padych si sdraia accanto alla moglie.

Il dolore dell’addio accende l’amore nel cuore di Caterina. Le sue braccia nivee e le sue cosce fresche lo stringono in una passione esplosiva che segrega nell’anima il pianto.

 

Molti granelli di sabbia sono passati attraverso il restringimento della clessidra e Štefan è già assente da parecchio tempo.

I pensieri di Caterina vagano e penetrano mondi lontani, realtà sconosciute, situazioni misteriose.

Immagina il marito a riposo: è sabato e lui, pulito e profumato, con lo stipendio nella borsa, si reca alla taverna per bere una birra. Ha un cappello nuovo e… sogni.

Così, Štefan Padych, che non aveva mai avuto la fortuna di conoscere il vero significato della parola vivere, si è recato in Francia a lavorare. Assieme a migliaia di altri stranieri, polacchi, africani, italiani, ha lasciato la sua famiglia, la sua realtà, la sua tradizione e forse ora rimpiange questa sua decisione. In quella terra, dove i campi sono pieni dei cadaveri di soldati… dove inizia a crescere un grano nutrito dai resti dei caduti in battaglia… dove qualcuno ha guadagnato grazie alla guerra… sogni.

 

Quando sui campi nudi comincia a crescere l’erba e i bambini escono dalle loro case dopo il lungo inverno e i pastori portano fuori le greggi: Caterina saluta per l’ultima volta la sua mucca Rosalina.

- Cosa farò, ora? - si chiede tra le lacrime - Cosa succederà?

La mucca Rosalina, trascinata via da Šulgan e dagli esecutori del tribunale, cerca lo sguardo di Caterina. I suoi grandi occhi scuri sono confusi.

Caterina cerca di persuaderli a lasciargliela: - È tutto ciò che mi è rimasto!… - piange la donna pensando alla piccola Veronica - Rosalina, tu sei la nostra vita! Come faremo senza di te. - copiose colano le lacrime sul suo viso.

- Nahyeee! - Šulgan tira la corda e, senza tradire il minimo ripensamento, trascina via l’animale. Nessuna pietà.

- Non una volta sola ho detto al tuo Štefan di saldare i suoi debiti, ma lui non si è fatto mai vedere… - la voce di Šulgan sembra cercare una scusa alla sua crudeltà - …come puoi dire che è colpa mia?… Prenditela con tuo marito… avrebbe dovuto pagare quando era il momento!

Caterina cade a terra come svenuta con gli occhi pieni di lacrime e le donne che la guardano compatendola le dicono: - Non piangere, Caterina, non serve a niente… non aiuta… - a Kysuce, infatti, non si piange mai.

- Dio lo punirà! - pensa la giovane moglie di Padych ascoltando l’assurdità di quelle parole di consolazione.

Poi, all’improvviso, diventa indifferente: a cosa servirebbe? Se anche Dio avesse punito all’istante Šulgan attraverso la forca, una brutta malattia, una morte atroce o chissà cos’altro, la stalla di Caterina sarebbe rimasta vuota. Lei ha speso la sua vita qui, in questo luogo e la vede come un albero flagellato dalla pioggia, mozzato dal fulmine, rotto dal fardello della neve. Guardando Rosalina che si allontana, immagina l’ultimo ramo rimasto che si spezza sotto il peso dell’ingiustizia.

Da quel momento, per Caterina diventa difficile trascorrere ogni minuto nella sua casa vuota e dalla partenza di Štefan non aveva più avuto sue notizie.

 

I giorni passano inesorabili e pieni di silenzio: il lavoro si accumula in strati regolari col trascorrere delle settimane e quando queste sono già sei, Caterina inizia a pensare che Štefan è via da parecchio tempo ed è molto strano che ancora non scrive: - Anche se la Francia è lontana da Kysuce, - pensa - le lettere dovrebbero arrivare velocemente.

Caterina non aspetta una lettera in cui Štefan le dichiara il suo amore. La gente di là non usa la posta per questi scopi: - "Sono qui, sto bene, lavoro, guadagno, vomito.. manderò dei soldi" - gli uomini, dall’estero, scrivono lettere di questo genere alle loro donne. E loro sono pazienti, perché sanno che la vita è dura.

Anche Caterina aspetta una lettera simile.

Esce da casa coprendosi gli occhi per il sole e aspetta il postino.

- Non mi ha scritto Štefan dalla Francia? – chiede sempre più spesso vedendo crescere il suo stato di povertà.

- Non scrive, Caterina, mettiti il cuore in pace, non scriverà! Forse ha già trovato un’altra… - risponde il postino sorridendo con un sorriso che non vuole offendere nessuno, perché, a Kysuce, la gente, non desidera mai offendere nessuno.

A Kysuce tutti soffrono la povertà e nuotano nel mare della miseria e della sofferenza. Ognuno aspira unicamente ad occupare il posto che gli è assegnato lottando fino alla fine per poterlo mantenere.

A Kysuce ognuno bada solo alla propria miseria.

Caterina, dopo aver ascoltato le risposte del postino, corre in casa e cade sul suo letto: unisce le mani sospirando e resta distesa come morta, in silenzio. Intanto, la piccola Veronica si avvicina, la prende per mano, le fa il solletico sotto le ascelle - i bambini vivono ingenuamente la sofferenza e riescono a restare sospesi tra il sogno e la realtà - ma quando vede che la madre non le presta attenzione, torna dalla sua bambola.

 

Štefan continua a non scrivere.

 

È sera.

La nebbia copre le stelle e il vento trasporta il dolce profumo della terra per tutta la campagna.

Caterina sta tornando a casa dal villaggio. A ogni passo ricorda il suo Štefan e ogni sospiro le rammenta che non le ha ancora scritto: - Forse mi ha già dimenticata… - pensa con rammarico - …o forse è malato… - si sente toccata dalla sfortuna e ogni boccata d’aria che respira si trasforma in una pietra pesante nel suo intimo deluso.

Passa accanto alla taverna di Šulgan. Una luce opaca filtra dai vetri polverosi e sulla strada sente un passo leggero poco distante da lei.

Un’ombra si avvicina.

Aguzza lo sguardo e intuisce trattarsi dell’ombra di un uomo.

- Buonasera… - ossequia velocemente, perché a Kysuce saluta sempre prima la donna.

Un sussurro dell’ombra: - Buonasera.

Si ferma in mezzo alla strada e sente… come un continuo rumore di scarpe in movimento. Sente… come una moltitudine di sguardi su di sé. Sente… come uno strano disagio crescerle dentro. Sente l’ansia che le offusca il cuore. Sente che deve correre e inizia a muoversi velocemente verso casa.

Fino a quel momento pensava di non conoscere la timidezza, ma improvvisamente, sentendosi vicina l’ombra di quell’uomo sconosciuto, è come se la tela invisibile del timore e della preoccupazione l’avvolgesse. Nel suo animo s’insinua qualcosa che non sa riconoscere: una scintilla piccola piccola che potrebbe dar vita alla fiamma del cambiamento.

Raggiunge la sua capanna ansimante. Il turbamento iniziale si è trasformato ed ora sente come se un vento gioioso scendesse dalle colline abbracciando gli alberi e si fermasse davanti alla sua finestra: nell’oscurità ode il diffondersi dell’urlo di un ubriaco.

 

La mattina seguente, mentre Caterina è intenta a spaccare un pezzo di legno contorto sotto la tettoia della stalla, riceve la visita della signora Kašubova, conosciuta in paese per essere una gran chiacchierona: - Deve essere difficile spaccare un ceppo simile per una donna! - esclama così, tanto per iniziare il discorso.

- Difficile. - confessa Caterina assestando un colpo deciso con l’ascia.

La lama si incastra nel legno, ma il ceppo non si spacca.

- Ha sentito l’urlo durante la notte? – sicuramente la Kašubova vuole sapere qualcosa ma non osa chiederlo apertamente.

Caterina non risponde. Non sa se fosse un sogno: effettivamente ha sentito un urlo la notte prima, ma ora non riesce a distinguere cosa fosse sogno e cosa realtà.

La Kašubova continua: - Tutti gli uomini sono tornati a casa ubriachi. Il mio vecchio… che crepasse!… è tornato a casa e si è gettato nel letto vestito…

Caterina la guarda indifferente.

Non si interessa degli uomini.

Non le importa cosa fanno.

Fosse per lei potrebbero uccidersi tutti.

L’unica cosa che le importa, al momento, è che il pezzo di legno ceda sotto i colpi della sua scure.

- E sai chi gli ha pagato da bere? - la Kašubova non vuole interrompere il discorso.

Voce distaccata: - Chi?

 

- Michal Valancák.

Caterina resta ferma con la mano sulla lama dell’ascia ancora incastrata nel ceppo. Il suo stupore assume i connotati di un urlo soffocato.

- Michal! – ripete la Kašubova.

- Ma è andato in America!

- È già tornato… e ha tanti di quei soldi che qui in paese nessuno li ha mai neppure sognati!… Questo è quanto mi ha raccontato il mio vecchio… crepasse!… e adesso sta poltrendo a letto con la testa che gli scoppia… ubriacone!

 

Caterina è confusa.

Tre anni prima Michal è partito per l’America, ma prima di andarsene - ricorda la giovane - veniva sotto la sua finestra e le cantava il suo amore. Le stelle ardevano appassionatamente nel suo oscuro cielo interiore e Michal insisteva: - Caterina, ti sposerò… staremo bene noi due assieme… vedrai… devi dire soltanto una parola… - Caterina, però, taceva. Lo ascoltava per un istante e chiudeva la finestra.

 

- In realtà non ha guadagnato molto nei tre anni di lavoro in America… - il momento presente le cade addosso sospinto dalle parole della Kašubova: si volta verso di lei - Per lo meno non da solo! - confessa ridacchiando la donna - Dicono… che abbia ereditato una fortuna dallo zio… certo Privarcák… Dio se l’è portato via, pace all’anima sua… tu non l’hai conosciuto… lui era da anni in America… è stato lui che ha mandato a chiamare Michal…

- Lui… - ripete meccanicamente Caterina visibilmente sconvolta. Benché fossero passati degli anni, non ha dimenticato quel giorno in cui, poco prima della sua partenza, Michal le tagliò la strada e le disse con una certa aggressività: - Sappi, Caterina… se dovessi star male in America, sarà solo per colpa tua!… Non dimenticarlo: per colpa tua!

Allora, però, Michal era solo un ragazzo senza esperienza, un bulletto alla ricerca di un suo posto nel mondo.

Mentre la Kašubova racconta la storia del ritorno di Michal, passa il postino.

Caterina lo ferma e gli chiede: - Niente? - e quella parola, quell’unica parola si smorza in bocca come se già nascondesse la risposta: - Niente.

Prende il fazzoletto e lo preme sugli occhi. Avrebbe una gran voglia di piangere: la tristezza l’assale all’improvviso. È come se tutto ciò in cui crede, la sua speranza, la sua attesa… è come se tutto le scivolasse di mano ponendola nuda di fronte alla sua miseria infinita.

Niente: il niente prende forma in lei e la sua mente non considera minimamente la moltitudine di altre disgrazie che si consumano nello stesso istante nel mondo: navi a vapore che affondano, fabbriche che bruciano, miniere che esplodono.

- Come mai Štefan non ti scrive? - chiede la Kašubova.

Caterina guarda la sua vicina con gli occhi bagnati: un lampo improvviso la attraversa, un lampo d’ira. Contro di chi?

La Kašubova se ne va: Caterina raccoglie la legna e torna nella sua stanza dove, sul pavimento di sasso, siede la piccola Veronica. Tra le mani ha la sua bambola di stracci: la culla e calma il suo posticcio pianto inavvertibile: - Sssst, sssst!… piccola mia… lo so, hai fame… ora ti cucino il tuo brodino!

Caterina sorride: scuote la cenere nella stufa e accende il fuoco. La sua mente nuota tra le acque amare dei sogni: dalla mattina si sente prigioniera di sentimenti sconosciuti che producono espressioni strane sul suo viso chiaro. La sofferenza di tante settimane solitarie e la miseria di un presente che sembra non voler migliorare la imprigionano sempre più in un cerchio di ferro… e da un cerchio simile non si esce.

 

Štefan.

 

Štefan diceva: - Andrò in Francia e ci sentiremo meglio… con me se ne andrà una bocca affamata… guadagnerò e ti manderò molti soldi! - e Caterina ripose tutta la sua speranza in Štefan. Si sentiva orgogliosa: suo marito sarebbe partito per un paese lontano, avrebbe visto il mondo. E nella sua anima conservava una scintilla di speranza: grazie ai soldi che Štefan le avrebbe mandato, avrebbe potuto procurarsi delle patate e pagare i debiti al signor Šulgan e… e riprendersi Rosalina, la sua mucca tanto preziosa.

Ora la scintilla si spegne: dentro di lei alberga il buio.

Inoltre, a peggiorare la situazione c’è anche quest’ultima novità: Michal Valancák è tornato. Proprio quel Michal che rivolse parole tanto dure prima della partenza è tornato e… sta bene!

Come per incanto le immagini della sera precedente tornano alla memoria di Caterina: è come se due occhi sconosciuti abusassero di lei… due fiamme ardenti che la trapassano provocandole dolore.

Adesso è sicura: era lui!

Un presentimento la porta a girare la testa verso la porta: un’ombra lunga e scura la osserva.

Sussulto.

È la mensola di legno di quercia: i raggi obliqui del sole indicano che la sera si sta avvicinando.

La notte cala e, solo quando la stanza è completamente al buio, con il corpicino di Veronica che stringe la sua bambola addormentato sul letto, Caterina sente che qualcosa sta per succedere.

Esce dalla stanza e si ferma davanti alla propria abitazione.

Il buio è denso, profondo.

Le finestre fiocamente illuminate delle casette ai piedi del colle sbirciano audaci.

Accanto a una casa un cane abbaia e, come una catena gestita dal caso, lentamente, altri cani lanciano il loro bestiale latrato che balza di campo in campo, di colle in colle fino a calmarsi nella attesa di un nuovo motivo per ricominciare.

Caterina torna nella sua stanza.

Accende la lanterna dal vetro annerito di fuliggine.

Il buio si allontana emarginandosi oltre le finestre opache.

Nella stufa, una debole fiamma sta terminando di bruciare.

Come ogni sera siede al tavolo a ricamare: le ore passano, gli occhi si stancano.

Si ferma.

Ripone il lavoro in una cesta e prende la testa tra mani rovinate dal duro lavoro. Dentro di sé non vede altro che ombre pesanti e spaventose che si muovono nelle tenebre.

Silenziosa silenziosa, più silenziosa del silenzio stesso, la porta della stanza si apre.

Prima che qualcuno possa rendersi conto del movimento, la porta si chiude.

Occhi insicuri e capelli sciolti sulla fronte, fierezza e gioia: - Caterina… - sussurra quel nome come se avesse paura di disturbare il mutismo incantato di ciò che lo attornia.

Lei si spaventa.

Si volta di scatto verso di lui e, con occhi sofferenti, ma ancora bellissimi seppur confusi, chiede: - Perché sei venuto?

- Sono passato a vedere… a vedere come stai… - risponde timidamente, atteggiamento strano per lui.

Si muove.

Si avvicina al tavolo. I suoi occhi non si staccano dalla giovane donna.

Siede accanto a lei: la osserva. È ancora bella.

La contempla: le guance infossate… è dimagrita. Venticinque primavere hanno segnato quel viso contornato da una corolla d’oro simile alle corone che i bambini attorcigliano attorno alle madonne sofferenti del campo.

- Stai bene, Caterina… adesso… con Štefan?

- È andato in Francia.

- L’ho sentito.

Lei china la testa. Sul bordo dei suoi occhi si vedono luccicare le lacrime.

- Ho sentito tutto… - continua Michal - …so anche perché se ne è dovuto andare… Šulgan, quel vampiro!… so che si è preso la mucca…

- Hai chiesto in giro?

- Beh,… non ne ho avuto bisogno… la gente parla da sola, sai?

- Non raccontarmi bugie… dimmi: perché sei venuto?

Mette una mano in tasca: - Hai sentito? La notte scorsa ho fatto bere tutti gli uomini… l’ho fatto perché volevo far loro capire come ero quando sono partito e come sono ora che sono tornato. - si vanta: toglie di tasca un sacco di soldi e li butta sulla tavola - Scegli, Caterina!

- Cosa stai facendo?… Dimmi solo perché sei venuto…

- Voglio che tu scelga. Quanto hai bisogno?

Caterina si alza e imprime il suo sguardo infuocato su di lui. Si sente imprigionare da forze malefiche che la incatenano bloccando ogni parte del suo corpo.

- Sei un fanfarone! - pensa… con calma si rimette a sedere accanto a lui.

Fuori, nel buio intenso, si sentono le note malinconiche di un’armonica che intonano una canzone:

 

Horelica, Cadca,

chiesa di Zákopec,

vengo da te ragazza,

però devi preparare il letto…

Michal resta un istante in ascolto: - Li senti? I giovanotti del villaggio sono in cerca di morose… - ridacchia.

Lei non risponde: si sente come se qualcosa l’avesse colpita sulla testa con un peso invisibile.

- Un tempo andavo anch’io… - il suo sguardo perso all’infinito e la sua voce soave.

Caterina non riusciva a capire il perché di quel tono.

- Ricordi quando venivo da te?… Stavo sotto la tua finestra, ma non mi hai mai lasciato entrare… per te sono stato… - non finisce la frase, fa un gesto con la mano e ride amaramente.

Caterina sente il pianto salirle fino in gola: è dispiaciuta.

Il suo cuore si spreme come un frutto maturo.

Michal si alza. Mette il cappello abbassandolo sulla fronte. All’estremità della sua bocca si indovina un sorriso infausto. Sventola le banconote e dice: - Bene: quanto hai bisogno? - divide il mucchio di soldi: una parte la dà a Caterina e il resto lo ficca in tasca come fosse carta straccia. In quell’atto c’è qualcosa di strano: - Paga il debito con Šulgan, riporta la mucca a casa e, se ti chiedono qualcosa, di che hai avuto un prestito dalla tua famiglia.

Caterina non lo ascolta: non lo guarda. Si sente debole e deve combattere una battaglia difficile: - E tu, Michal… non lo dirai a nessuno?

Lui non risponde.

Si avvicina alla giovane donna: la abbraccia, la bacia appassionatamente e se ne va chiudendosi la porta alle spalle.

Correndo nella notte, inciampa in radici nascoste dal buio sotto lo sguardo del monte Polana che tace come un uomo che inghiotte la propria ingiustizia: scende al villaggio con anima allegra e serena.

Anni prima, quando si recava da Caterina, restava sempre con una nuvola opprimente attorno alla fronte: - Vai via, Michal, vattene, io non ti voglio! - diceva la giovane a quei tempi e i ragazzi del luogo si beffavano di lui: - Nessuna donna ti vuole! - lo schernivano. Oggi, però… oggi tutto è cambiato. Al villaggio, tutti lo seguono come se fosse un eroe e vogliono diventare suoi amici.

 

Caterina pensa a lungo cosa fare con tutti quei soldi. Li tiene in mano, li contempla e, quando finalmente sembra decisa di andare da Šulgan, li infila tra le pagine di un vecchio libro che nasconde nel cassetto del tavolo. Dentro di lei sente crescere il dubbio e la paura: cosa avrebbe detto Šulgan vedendola arrivare con quel mucchio di soldi?

E la gente?

Si sa come le malelingue sappiano mettere in giro falsità e inventare storie assurde pur di far del male al prossimo.

Mentre pensa a tutto ciò, però, le ritorna in mente l’ultimo affronto subito e l’amarezza invade la sua bocca. La inghiotte e decide.

 

Alcuni giorni prima, non potendo fare altrimenti, si recò da Šulgan per un po’ di farina e una bottiglia di petrolio.

- I soldi li hai?- gli chiese con cattiveria l’oste.

Lei non aveva soldi.

- Ma mi prendi per scemo? - iniziò ad urlare l’usuraio - Senza soldi non ti darò neppure un seme di papavero!

Caterina, stordita dalle parole dell’usuraio, restò immobile come un muro.

- Puoi anche andartene! - gridò Šulgan - Aspetti invano… da me non riceverai nulla!

 

Così, ricordandosi questa situazione e il sentimento di vergogna e sottomissione che la invase, decide di pagare quel debito.

Va da Šulgan, estingue il debito, paga gli interessi e lascia l’oste a bocca aperta tra le pareti della sua taverna, portandosi via Rosalina.

 

Inspira felice aria nuova.

 

Anche se è già la fine di aprile, nota che sui rami di un pero fischia il primo stornello e solo in quel momento si rende conto di una macchia fiorita sotto una collinetta: le prime primule gialle si aprono al mondo.

 

In quei giorni, durante le serate scure, quando nubi nere si muovono basse e infinite e le capanne vicino ai ruscelli sono nascoste dalla nebbia e i sentieri madidi sembrano senza né inizio né fine, Michal, protetto dal buio, si reca segretamente da Caterina.

Solito rituale: siede al tavolo, si leva il cappello, lo lancia su una sedia in un angolo della stanza e la guarda.

 

Con il passare del tempo gli occhi del giovane si inumidiscono. La sua voce diventa un urlo folle che fa tremare tutte le bettole del villaggio e sulla sua fronte si formano dei profondi solchi nei quali s’assestano nubi di inquietudine.

 

Una sera, arrivando da Caterina, ancora stravolto dalla baldoria della notte precedente, lei gli si avvicina, gli appoggia una mano sul braccio e lo mira con dolcezza negli occhi turbati: - Dimmi, Michal, perché fai tutto questo?

Lui toglie quella mano dal suo braccio, la stringe nei palmi e risponde: - Chiedi perché?… Ma… perché ti… ti amo!

Caterina sussulta e abbassa lo sguardo lasciando la sua mano tra i palmi infuocati di Michal: - Non dire stupidate, Michal… sai che sono… una donna sposata.

- Certo, ma Štefan?… Chissà se tornerà mai? - replica Michal sentendo un gran dolore che lo percuote dal di dentro - Se ne è andato, si è sbarazzato della sua povertà e ha dimenticato chi lo aspetta…

Nella parte più nascosta dell’anima di Caterina nasce il pianto.

Michal tira Caterina a sé, la fa avvicinare, la fa sedere al suo fianco: - Un tempo, quando ero un giovane di questo paese, nessuno mi notava… oggi, invece, potrei comprare tutto il paese nella bettola… i ragazzi si burlavano di me, le ragazze non mi lasciavano entrare nella loro vita… mentre oggi… oggi potrei ad un tratto sposarle tutte!

- E allora? - chiese Caterina senza titubanza.

- Non voglio!… - fa una pausa - È vero, tu sei sposata, Caterina… - la stringe forte e lei si scioglie nell’abbraccio. La sua anima si appassiona alla nuova affinità e scavalca ogni possibile pregiudizio o abitudine dissolvendosi come una nuvola bianca nel cielo rosa del mattino.

La pioggia inizia a tamburellare sul tetto della capanna: improvvisamente il vento sbatte ventagli d’acqua sui vetri della finestra.

- Piove. - sussurra Caterina.

Michal si alza e fa per andarsene.

Apre la porta e sente il suono che fa l’acqua quando cade.

Rientra.

Chiude la porta e si strofina le mani: - Non piove, diluvia!… e si sta alzando anche la bufera. - tace.

Lei lo guarda profondamente e nota il dispiacere sul suo volto.

Michal si avvicina. L’abbraccia con mani forti: la voce trema di un sentimento sconosciuto: - Caterina, è vero che con questo tempo… non si manderebbe via neppure un cane…

Lei non risponde, appoggia la testa sulla sua spalla e, mentre lui la conduce dolcemente verso il letto, con una mano gli accarezza il collo.

 

Da quella sera in poi, Michal si reca sempre più spesso da Caterina, approfittando dell’oscurità della notte.

 

È diverso dagli altri. È diverso da Štefan. Lo sente dentro, una sensazione non cosciente che giunge direttamente dal suo umile cuore. Quando la prende per mano, quando le accarezza i capelli e le guance, quando la stringe al suo petto. Štefan non lo faceva mai. Štefan non parlava mai d’amore: per lui esisteva soltanto l’ascia pesante con la quale, per anni, si era guadagnato il pane.

Così, una notte, con il vento che corre tra i monti, Caterina dice a Michal: - Michal,… caro,… c’è qualcosa di brutto…

Lui si gira dal fianco sulla schiena, mette le mani sulla testa e chiede con una certa indifferenza: - Cosa c’è che non va?

- Sono incinta…

Abbozza una risata e tace.

- Non dici nulla?

Ride di nuovo, ma questa volta il riso è un’esplosione e le sue parole non nascondono un qualcosa simile alla felicità: - Quindi… avrò un bambino?

Giunge la mattina e Michal si alza e se ne va.

L’alba lo incontra sulla strada che percorre lentamente: davanti a lui la città.

Dai campi vicini si alzano in volo stormi di corvi che disegnano in cielo una croce nera.

 

In poco tempo, la notizia che Caterina ha pagato il debito con Šulgan e si è riportata la mucca a casa è sulla bocca di tutti. I pettegolezzi non smettono di esaltare l’avvenimento. Ma tra tutte le dicerie, c’è una domanda alla quale nessuno ha ancora saputo dare risposta: "dove ha presto tutti quei soldi?"

Questo è il grande segreto che ognuno vorrebbe svelare. Ma nessuno ha il coraggio di chiederlo a Caterina e lei, di sua iniziativa, non parla con nessuno.

Dal giorno in cui Michal l’ha aiutata con i soldi - creandole altri problemi - si è recata raramente al villaggio e la gente non esita a chiacchierare a proposito di questo suo comportamento etichettandolo come pura e semplice vanità.

Versioni distorte della realtà si espandono a macchia d’olio passando di bocca in bocca e fantasie travisate iniziano a prendere forma crescendo come un albero i cui rami si propagano di stagione in stagione.

Caterina è disperata, permeata di vergogna. Trascorre le sue giornate decorando il giardino, nascondendosi dalla gente, rispondendo con mezze parole a chi si avvicinava e a chi si trovava a passare sulla via del lavoro.

 

Giunge maggio e la gente intona canti allegri.

Caterina è molto triste, prigioniera di un rimorso che le pare ben più terribile della povertà che si è lasciata alle spalle. Un rimorso alimentato dalla prolungata assenza di Michal, che da qualche tempo non la viene più a trovare. Non riesce a capire cosa abbia fatto di male per provocarne l’allontanamento. L’unica cosa certa è che sa con precisione di aver fatto qualcosa di molto brutto, qualcosa di molto contrastante con quanto le è stato insegnato in chiesa.

Sta sistemando un’aiuola quando nota il postino che si avvicina.

Lo guarda, così, senza nessun imbarazzo: ormai è abituata a vederlo passare senza alcuna lettera di Štefan e lei ci ha fatto il callo. Non si aspetta più alcuna notizia dal marito partito molto tempo prima per un paese lontano.

Lo guarda e sorride: un sorriso che racchiude in sé la domanda e chiede il solito gesto del capo che, senza proferir parola, risponde: - No.

Ma quella mattina: - Sì, ecco!… Una lettera per te!… L’ha impostata con un francobollo azzurro.

La prende tra le sue mani tremanti.

Scrittura estranea: corsivo pesante sulla busta. Sul davanti l’indirizzo di Štefan.

Entra in casa, lontana da occhi indiscreti.

Prende un coltello e taglia il bordo superiore della busta: "Dunque è così…" - le parole del marito sono scritte da una mano sconosciuta - "…la nostra vita è segnata dalla sfortuna. Subito dopo il mio arrivo alla miniera, sono stato vittima di un’esplosione. Ho perso una mano e il viso è irriconoscibile. Avrei voluto scriverti prima, ma senza la mano… e qui all’ospedale, fino ad oggi, non c’era nessuno che sapesse scrivere in slovacco. È arrivato un tipo con la gamba rotta. Non ci starò a lungo… spero che per l’estate mi mandino a casa…"

La notizia abbatte Caterina. Bianca in viso s’accascia al suolo esanime.

Il fatto che sia sfigurato, derubato di un arto, sofferente, passa in secondo piano: ciò che ritiene e che la fa star male sono le parole finali, l’ultima affermazione: "…spero che per l’estate mi mandino a casa…"

Una eco lontana le rimbalza in testa: "Štefan ritornerà a casa e troverà la moglie che si è data a un altro uomo!"

- Hai governato bene la casa! - dirà e la bastonerà perché non potrà fare altro.

Caterina resta sospesa su un abisso: si sente male. Le idee si tingono di nero e si confondono nella sua testa: si invischiano come le ali delle mosche nel miele e la portano a perdersi in fetide paludi senza uscita.

Stordita come un salice gelato sulla riva di un fiume, prepara il pranzo e dà da mangiare alla piccola Veronica prima di mandarla a giocare in giardino.

Prega: una preghiera vuota che si perde nel tempo come i colpi di un martello che batte l’aria.

Chiude la porta di casa e accelera i corso degli eventi.

 

La notizia della lettera di Štefan si sparge presto in tutto il villaggio e la signora Kašubova non perde occasione per passare da Caterina e scoprire cosa le scrive il marito.

- Mamma è in casa? - chiede alla piccola Veronica seduta accanto alle aiuole.

- Sì, sì… in casa… - risponde la fanciulla con le poche parole che sa e con due occhi grandi e azzurri.

La Kašubova afferra la maniglia, la abbassa e tira verso di sé la porta.

- Come mai è così dura? - si chiede - È come se… - tira più forte e la scosta quel tanto che basta per sbirciare all’interno - …per Dio! - esclama piena di terrore.

Utilizza tutta la sua forza e spalanca l’uscio.

Caterina penzola dalla trave: la corda, fatta passare al di sopra di essa, è stata fissata alla maniglia e lentamente la soffoca estirpando dal suo intimo l’essenza vitale e la malerba della vergogna.

Visibilmente perturbata, con le gambe pervase da tremore, la Kašubova, corre sulla strada e grida in direzione del villaggio: - Aiuto! Aiuto!

La gente accorre e libera la giovane dalla tensione del cappio.

- Non è stata appesa per molto tempo… - dice un uomo che tasta il suo collo.

- Veloci, ragazze! Portate dell’acqua! - ordina un altro signore inginocchiato accanto al corpo immobile di Caterina.

Qualcuno porta l’acqua e iniziano a rianimarla.

Mentre la distendono sul telo, la Kašubova, che le sistema la gonna, posa una mano sulla pancia rigonfia e, dopo aver preso un profondo respiro, mugola tra i denti: - Ma questa ragazza è… incinta!

Caterina è riportata alla vita contro voglia.

 

Nei giorni e nelle settimane che seguono, cerca di evitare la gente più che può. Va in panico alla sola idea di incontrare chicchessia e ha timore di restare sola con se stessa.

Di giorno in giorno, nei suoi occhi, si accentua la paura: gira per casa con occhi sbarrati, cieca, rapita da un malessere crescente. A peggiorare la situazione ci si mette pure la gente del villaggio che, nel corso delle settimane e dei mesi, fa volare la notizia di casa in casa alzando il dito accusatore e giudicando il peccato della poveretta.

Le malelingue iniziano a confabulare, ad elucubrare, a congetturare e a intessere trame dal sapore amaro.

Il nome di Šulgan balza al primo posto nella lista dei presunti padri del nascituro: una supposizione abbastanza plausibile se si considera il quesito ancora irrisolto dell’estinzione del debito e del ritorno della mucca Rosalina a casa di Caterina. Quando Caterina viene a conoscenza di questo nuovo pettegolezzo ne resta disgustata: lei e Šulgan? Neppure dopo morta!

Šulgan, dal canto suo, non esita a denunciare alcune pettegole storcendo il polso ad altrettanti debitori.

 

Il postino torna da Caterina con una nuova lettera di Štefan.

"So tutto, Caterina: so di come hai gestito l’economia della casa. La gente del villaggio mi ha scritto tutto, ma io non credo ai loro pettegolezzi. Potrò rendermi conto della verità quando tornerò. Arriverò domenica prossima. Aspettami vicino alla stazione."

Le parole di Štefan suonano lontane alle orecchie di Caterina.

Ora non le importa più nulla.

Sa che verrà.

Sa cosa gli dirà: poi decida quel che vuole.

Il pianto le sale dalla gola agli occhi e lei lo lascia uscire senza opporvi alcuna resistenza. Grandi lacrime scivolano sulle guance chiare: lacrime liberatorie.

Piange su se stessa.

Piange per Štefan, che ora vede come un uomo buono.

Piange per Michal, che per ben due volte è entrato nella sua vita pronto a ferirla, facendo del male a se stesso.

 

Ancora una volta l’arrivo della lettera si propaga per la campagna: - Štefan ha scritto a Caterina che le manda i soldi per il battesimo… - e ridono tutti dando sfogo alla loro ignoranza.

Nessuno parla più di Michal Valancák se non che per dire che si trova a Zilina dove annega i suoi pensieri - e i suoi misfatti - nell’alcol ubriacandosi nelle varie taverne della città.

Da quel mattino di maggio, non si è più visto al villaggio e di lui, nel ricordo di Caterina, resta solo una risata e una frase gettata lì, con un non so che di felicità: - Quindi… avrò un bambino?

 

Domenica pomeriggio Caterina si reca alla stazione.

Sotto il suo cappello bianco luccicano due grandi occhi grigi e sul viso compare un leggero sorriso: è come se il sole, alto nel cielo, si riflettesse in lei.

La ferrovia corre proprio accanto alla strada: le rotaie sono due serpenti che riposano e godono quieti del tepore solare.

Ecco la stazione: nel giardino fioriscono garofani color sangue e vicino ad ogni casa c’è una balaustra verde con una palla di vetro sulla sommità di un paletto.

Il martello colpisce tre volte la campana.

- Il treno arriverà presto? - chiede Veronica.

- Presto, presto. - sussurra Caterina.

La gente che passa sulla strada guarda Caterina, pulita e luccicante, e gli occhi di ognuno si posano sul ventre ancora non molto appariscente, ma già percettibilmente rigonfio sotto il grembiule.

Sbuffi bianchi appaiono all’orizzonte: allegri riccioli frizzanti.

Il respiro della caldaia e il fremito ritmato del convoglio si avvicina.

Dalla curva sbuca la locomotiva e dietro di lei tutti i vagoni.

Avanza.

Stride.

Si ferma.

Caterina guarda tutti i vagoni. Sono verdi, puliti e brillano nella luce del giorno.

La gente scende dalle carrozze.

Aspetta finché il treno non si muove sbuffando e liberando nuove nuvolette di vapore bianco.

Lo osserva passare lento e brontolone lungo i binari, accanto alla strada.

In piedi nel suo angolo con la piccola Veronica al suo fianco, lo guarda sparire al di là della collina.

Non lo ha visto scendere.

Non è sceso.

Non è arrivato.

La gente si dirada.

La stazione si spopola.

Solo sul fondo del marciapiede, dove si è fermato l’ultimo vagone del convoglio, la sagoma scura di un uomo che dà di spalle. Non può essere lui.

- Papà non è arrivato?

Caterina ha un nodo in gola: - Andiamo.

Prende la figlioletta per mano e s’incammina verso casa.

Attraversano i binari.

Un leggero pulviscolo si solleva ad ogni loro passo e nelle orecchie, nella testa, in tutto il corpo, fischia, mormora, si espande un suono incerto: un attimo è come una bufera e subito dopo è come l’acqua… come dei passi… passi silenziosi, felpati, lontani dietro di loro.

Caterina ha fretta.

Veronica accelera il passo accanto a lei e nella sua piccola testa risuona il fi-fi-fi-fischio penetrante del treno.

Una voce dimenticata: - Caterina. - sente chiamare.

Non può essere… è una fissazione che le è rimasta in testa… no, forse viene dal cuore o… certo, è solo il vento che strofina le foglie dell’acero…

Di nuovo quella voce, più forte, più decisa: - Caterina!

Si ferma: la piccola Veronica al suo fianco.

Si volta.

Sta davanti a lei: una manica vuota, il volto pieno di cicatrici, il naso con ampie aperture, mutilato. Le labbra ricucite non possono più in alcun modo nascondere i denti gialli. Vorrebbe sorridere, ma sa che a questo sorriso inizierebbero a piangere entrambi lì, sulla strada: nei suoi occhi si manifesta evidente il forte senso di angoscia che lo pervade dal di dentro.

Cerca Caterina con lo sguardo. Lei, in piedi sulla strada annaffiata dal sole con una lacrima che luccica in un angolo dell’occhio. È bellissima… così…

Veronica inizia a piangere.

Caterina trattiene lo stupore: inghiotte una lacrima e resta muta. Suo marito è un mostro, un mostro orribile.

Iniziano a camminare, tutti e tre assieme, come una famiglia.

Caterina si muove come fosse cieca. Nella sua testa sente il fragore della tempesta e un pensiero malvagio: eccolo… Štefan! Partito al mondo per salvare la sua famiglia dalla miseria e dalla fame che torna - non per colpa sua, per carità! - menomato, monco, sfigurato al punto da non poter essere più riconosciuto. Sì, l’uomo, il marito che torna dalla moglie… una moglie che porta dentro di sé la vita concepita da un amore estraneo, come fosse una sgualdrina… e chissà… forse generò questa nuova vita proprio nel momento in cui estraevano dalla miniera il corpo insanguinato di Štefan! Pur sapendo quale miseria, quale dolore, quali patimenti avesse sopportato fino a quel momento, Caterina sente forte dentro di sé l’impulso di buttarsi ai suoi piedi, abbracciare le sue ginocchia e gridare con voce dolente: - Perdonami!… Perdonami, Štefan!

Štefan percepisce con la coda dell’occhio lo sguardo implorante e fedele di Caterina. La sua vista - unica cosa viva tra la deturpazione del volto - segue la sua mano che accarezza il viso della moglie e la percorre fino a dove si riconosce la vita originata dall’infedeltà.

Pensa: - Allora è vero… - ma questo pensiero non dura e, come un cavallo selvaggio, fugge via perdendosi nei meandri del tempo.

Però è vero… è vero che Caterina ha tradito la sua fedeltà… proprio come dicevano i maldicenti del villaggio nella lettera: "…tua moglie è diventata una puttana, vedrai… si è riportata a casa la mucca…" scriveva la gente per mano della cattiveria.

Pensa: - Come possono giudicare?… cosa sanno loro?… ed io?… posso giudicare, io?… quante lacrime hanno solcato questo viso giovane e già segnato della durezza della vita?… Sì, quante lacrime hanno liberato questi occhi dolci che ora guardano con tanta fedeltà il mio volto sfregiato?

Contempla Caterina: la osserva camminare al suo fianco, muta, su una strada inondata di sole. Un piccolo riflesso accanto ai suoi occhi. Un’ennesima lacrima scappa dal giogo che ne trattiene molte. È splendida… bellissima… padrona della bellezza che bacia le ragazze di Kysuce e sana.

Il cuore di Štefan, reso sensibile dalla sua menomazione fisica, capta il sentimento di dolore della giovane.

Voleva bene a Caterina e in questo istante avrebbe voluto volerle ancora cento volte più bene… però l’anima piange come un uccello ferito.

Caterina ha una visione: - Ora mi osserva, resta muto, ma tra non molto inizierà a picchiarmi e mi batterà finché non avrà più forza! - come desidera che lui la picchi… il giusto castigo per togliersi un peso dal cuore. E lei cadrebbe sulle ginocchia davanti a lui e lo inciterebbe: - Perdonami e colpiscimi… picchiami… battimi e perdonami!

Inizia a piangere.

Vorrebbe parlargli, raccontargli di tutti i mesi trascorsi senza di lui, della povertà nera, della disperazione e della tristezza. Ma non ha parole: un groppo insormontabile le bloccava prima che possano raggiungere la bocca. Tra le lacrime balbetta suoni incomprensibili.

Lui le accarezza il viso.

Non le chiede il perché di quel pianto.

Non le chiede se la disgusti l’idea di essere ancora sua moglie (la risposta potrebbe ucciderlo).

No!

Le accarezza il viso e, con il cuore impazzito nel petto, un fiume di lacrime che gli offuscano la vista e la voce spezzata le chiede: - Caterina,… tra noi… sarà ancora come prima?

Si ferma sulla strada e spalanca due occhi carichi di dolore: sulla bocca, come un fiore quiescente da lungo tempo, compare l’abbozzo di un sorriso: - A casa… a casa ti racconterò tutto.

Lo bacia sulla faccia cicatrizzata, lo prende per mano e riprendono il cammino.

Tra i rami di un albero, sul bordo della strada, s’ode il canto di un uccello.