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Se fossi io

Prose di Vito Russo



INDICE:

Prosa a quattro occhi: Miopi
Racconto metropolitano: Piazze
Raccontino fiabesco: Il partito democratico

Raccontino: Irlanda
Raccontino: Le penne
Prosa civile: La fontana
Prosa poetica: La finale
Prosa poetica: Il verme
Prosa poetica: Animali da cortile
Mini-raccontino: Presenza
Mini-raccontino: Bar
Prosa poetica: Primo dell’anno
Mini-raccontino: Mattazione



Prosa a quattro occhi: Miopi

Il legislatore ignora la vista dei miopi, l’andirivieni delle pupille sul monitor, il saliscendi delle palpebre. Non sente il fiato sul collo, il lavoro che scorre nei sogni e nelle vene come un virus.
In guerra si deve combattere, con le proprie armi, ci siamo detti.
Devo concentrarmi sulle persone, le relazioni, le atmosfere, anche gli oggetti, mi ripeto. Ogni sera mi fanno compagnia almeno tre bionde. A volte è necessario aggrapparsi alla materia, per toccare il fondo, e trovare lo slancio per risalire.
L’azionista non vede i tavolini dei bar del centro di Milano, la noia di stare davanti a uno schermo, il ronzio del computer, unica musica conosciuta, la lacrima elettronica all’esterno dell’occhio per la naturale luminosità, le scrivanie gomito a gomito, i tuffi nell’erba bagnata nelle mattine di giugno, l’odore di terra e di formiche, i peluche rubati, le rose di carta.
Invece questo resta, se è vero che i miopi non possono perdersi di vista.

© 2009

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Racconto metropolitano: Piazze  
 
Quando il 9 si ferma, in piazza della Repubblica piove. Non è una pioggia particolarmente intensa, ma neanche una pioggerellina, ha l’andamento costante, regolare, verticale, snervante. È la classica pioggia milanese, di quelle che durano ininterrotte per tre o quattro giorni. Non porto con me l’ombrello, l’ho perso chissà dove. All’inizio questa piazza mi era insopportabile, mi disorientava con la sua vastità, punto di incontro di una quantità di strade e viali difficile da calcolare con precisione. È questa l’impressione che piazza della Repubblica lascia per la prima volta. Non si sa dove andare, hai voglia ad aprire la cartina in mezzo al traffico! Si resta sempre bloccati. È il trionfo del caos metropolitano, del via-vai delle auto che si alternano a ritmi veloci e lenti, a seconda dell’ora della giornata, dei grattacieli alti, a punta, di vetro, brutti. Adesso la sto scoprendo pian piano nei suoi angoli più nascosti, e sta finendo per essermi quasi familiare.
Attraverso viale Vittorio Veneto e l’inizio dei Bastioni di Porta Venezia. Le suole delle scarpe scivolano sui binari bagnati. Poi attraverso la piazza per il suo lato più corto. Alla mia sinistra via Turati, a destra – do un’occhiata istantanea – quel mostro fascista della Stazione Centrale, dove finisce via Vittor Pisani. All’inizio, per fare prima, provavo ad attraversare la piazza in diagonale, mettendo a dura prova i miei riflessi e la mia incolumità. Ora ho imparato che il verde del primo semaforo dura giusto il tempo necessario per attraversare quel lato, e subito dopo, si accende il verde che mi consente di arrivare al capo della strada dove c’è la fermata della 43. La mia tecnica di attraversamento pedonale si è affinata a piccoli passi, in modo lento e graduale.
La 43, di solito, la aspetto in media per 15-20 minuti, soprattutto la sera, dopo le sette, o nel week-end. Per non parlare delle sere in cui l’Inter o il Milan giocano in casa, visto che fa capolinea in zona San Siro, e allora passa molto più raramente, anche perchè il traffico per via Turati e via della Moscova è davvero molto lento.
Alla fermata c’è un’edicola, e mi fermo sotto la pensilina per ripararmi dalla pioggia. Il giornalaio è giovane, sulla trentina, pelato, con una barbetta di tre giorni. Ad un tratto lo stronzo mi dice di allontanarmi, ché non si può stare lì. Ed io mi sposto sul lato del chiosco, sbuffando, dato che penso che nessuno comprerebbe un giornale il venerdì sera alla sette, in piazza della Repubblica, con quella pioggia. E poi in questa piazza non ci sono pedoni, ma solo autobus, tram, taxi, e macchine, macchine, quindi – penso – è davvero difficile che la mia presenza abbia ostacolato le sue vendite. E poi se uno vuol comprare un giornale, lo compra e basta.
Sul lato la pensilina sarà profonda una trentina di centimetri, tanto quanto basta a ripararmi. Ma su quel lato c’è anche una porticina che consente di entrare e uscire dal chiosco.
Allora lo stronzo viene fuori, mi sfiora la giacca aprendo bruscamente la porta, e mi fa: “Ehi, qui non si può stare, ché già ho i maroni girati!”
E io mi incazzo e gli faccio: “A me i maroni li fai girare tu, milanese pezzo di merda!”
Mi agito, impreco.
È rigido nel volto, nei muscoli facciali, nella schiena anche. Sembra che i milanesi stiano fermi, o camminino, tutti con una postura diritta, perfettamente perpendicolare al pavimento, dai piedi alla testa. Sembra che i milanesi abbiano una mazza di scopa infilata nel culo, che poi attraversa la colonna vertebrale.
Sogno una bella molotov contro la sua edicola.
Non ci sono più i terroristi di una volta.
Cerco nella mia memoria, nei miei studi di diritto privato, un articolo del codice civile che sveli se il possesso della striscia di marciapiede riparato dalla pensilina del chiosco sia dell’edicolante o pubblico. La proprietà è senz’altro pubblica, ma il possesso? Non ne vengo a capo.
Finisce lì. Non mi resta che aspettare l’autobus sotto la pioggia, seduto sulla panchina, a due passi, sul lato del chiosco.
Estraggo l’I-Pod dalla mia borsa verde militare e infilo gli auricolari: ascolto Giro in Si di Daniele Silvestri, poi If dei Pink Floyd, poi Molto lontano di Paolo Conte. Sono davvero stanco, le palpebre si abbassano lentamente, agevolate del ticchettio leggero sulle pelle delle gocce di pioggia attraverso la fessura tra gli occhiali e le sopracciglia. Respiro piano, sempre più piano.
 
Mi ritrovo in una tipica strada di un centro storico pugliese. Potrebbe essere Cisternino o Ostuni. La strada è stretta e io la percorro in salita. Il pavimento è fatto di chianche. Le case a due piani, ai miei lati, sono ricoperte di calce bianca, con i soliti tre scalini che conducono ai portoncini di legno o anticlorodal color bronzo. Il cielo è azzurro, sereno, il tramonto sarà vicino. È l’inizio dell’estate. Eppure sono in Abruzzo, non so perchè, ma so di essere in Abruzzo. E io salgo, salgo, i muscoli delle gambe sempre più tesi, sicuri. È una giornata come tante, dopo il lavoro. La strada finisce in una piazzetta a pianta circolare, con un diametro di quindici-sedici metri. Al termine della salita c’è un bar vecchissimo, con la vetrina scura e sporca, che non lascia intravedere l’interno del locale. Sulla destra rispetto all’ingresso, l’insegna scolorita, in lamiera, arrugginita ai lati, con la scritta in stampatello, rossa su fondo bianco, con i tre caratteri disposti in verticale.
B
A
R
Fuori tre sedie di plastica, di quelle da lido balneare, ma bianche, di quelle da dopolavoro o circolo degli anziani che giocano a carte, alla birra. Due frigo da bar, di quelli per i gelati. Incollate sui lati verticali, le tabelle di latta con le immagini colorate e i prezzi dei gelati confezionati. Mi chiedo perché abbiano solo gelati Algida e Sammontana. Niente Sanson, che pure è il quarto produttore in Italia. Penso che in due anni la quota di mercato del gelato Sanson è passata dal 4,7% al 5,6%. Si trovano soltanto all’Esselunga, per ora, e in pochissimi bar. Ma di questo passo tra vent’anni troverò il gelato Sanson anche qui. Forse, visto che il mercato del gelato industriale è in forte e costante calo.
Apro uno dei due congelatori. Scelgo subito il Croccante, quella specie di cremino ricoperto di cioccolato e noccioline, e all’interno una crema al gusto di amarene. Ne andavo pazzo quando vendevo costumi da bagno in estate, ai mercati ambulanti delle province di Bari e Taranto. Lunedì: Grumo Appula; Martedì: Massafra; Mercoledì: Putignano; Giovedì: Ginosa; Venerdì: Turi; Sabato: Taranto, quartiere Tamburi, la piazza migliore, se non fosse per la puzza dell’Ilva, per qualche furto e qualche pallottola, ogni tanto. Verso le due si smontava la baracca – quasi un’ora di lavoro -  e  si andava a prendere un gelato. Lo scartavo subito, lo mangiavo sul furgone di ritorno a casa e mi addormentavo subito dopo, durante il viaggio.
Infilo il mio Croccante nella borsa. Quando sto per andarmene, dal bar viene fuori la proprietaria. È una signora anziana ma sveglia, sugli ottanta. Bassa e grassa, con i capelli grigi, raccolti in un turbante, gli occhi scuri, le guance gonfie e sporgenti, che sembrano sorridere costantemente. La riconosco. Aveva un bar vicino a casa di mia nonna, quando ero bambino, e ci andavo con mia cugina a comprare le patatine sotto-marca. È la moglie di Ciccill u’mbrugghione.
Allora devo giustificare il fatto di aver aperto il congelatore. Afferro un Magnum classico e apro il mio portafogli.
Ma le mi fa: “Ma ce ti si pust n’da borse?
Ha scoperto il mio tentativo di furto. Sono costretto a tirar fuori il Croccante e pagare un conto salato.
 
Mi sveglio di soprassalto, agitato. Michela dormiva serenamente, ma si sveglia al movimento delle lenzuola. Apre gli occhi lentamente, scuri, grossi. Le sue pupille si restringono rapidamente. Sbadiglia. Mi sorride, mi abbraccia.

© 2008

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Raccontino fiabesco: Il partito democratico

C’era una volta una grande fattoria dove tante specie di animali stavano in un unico cortile. Chiaramente era facile che le galline stessero sempre insieme, così come i conigli, i maiali, le capre e così via, malgrado non mancassero incomprensioni anche all’interno della stessa specie. Bene o male, però, si tirava a campare, scambiandosi favori, cortesie, concessioni, ipocriti ammiccamenti di facciata. 
Un bel giorno, però, maiali e galline, seguendo l’esempio di altre fattorie, decisero di coalizzarsi, così da poter spuntare razioni di cibo maggiori, a danno delle altre bestie. In maniera democratica, quasi come un partito democratico, nominarono il gallo Walter a loro rappresentante. Lui risultava simpatico a tutti con quel chicchirichì dolcificato, era in grado di catalizzare le attenzioni e il consenso del fattore su di se, di sintetizzare le idee e le istanze del gruppo, di fare da portavoce e rappresentante, malgrado in realtà galline e maiali avessero esigenze e priorità del tutto diverse, e sotto sotto litigavano in continuazione, e non avevano ancora neppure istituzionalizzato la loro unione. Ad esempio nell’alimentazione erano differenti: sebbene le galline stessero diventando sempre più simili ai maiali, e mangiavano di tutto, restava un patrimonio genetico profondamente diverso. Insieme però formavano il gruppo più numeroso del cortile, e pensarono bene di rendere manifesta la loro egemonia, imponendo alle altre bestie le loro volontà e preferenze. Molti protestarono, ma altre specie pensarono anche di poterne ricavare dei vantaggi. 
Il fattore non sapeva bene che pesci prendere per non scontentare nessuno, da che parte stare, fin quando un giorno, il cane da guardia andò di matto e sterminò l’intero cortile.

© 2007

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Raccontino: Irlanda

Tutti i bagni sono puliti e hanno la carta igienica. Anche questo dell’autogrill, che sa di pesce e di colla al limone. Le giornate sono lunghe. La cucina è sporca e fa schifo. Il caffé anche, soprattutto. È bello chiacchierare con Marie, sentire la lingua che si scioglie. È bello anche camminare con Eliska, tra un ponte e una mostra, parlare, scherzare a volte, stare in un pub a bere whisky. A volte è noioso però. Penso che glielo dirò quando la rincontrerò. 
La sera Murphys, Johansson, Southern Comfort, e spagnole, polacche, francesi, ceche. Senza amore si sta sospesi e senza sesso a volte sembra tutto quasi inutile. 
La sera torno a casa un po’ brillo, fumando e cantando musica italiana ad alta voce. La gente per strada è ubriaca, e vomita, cade, sbatte la testa. Lo stabilimento di birra manda fumi e odori pastosi di luppolo. La pioggia leggera, ma fitta, fa del fiume una specie di scolapasta, un tappeto d’acqua bucherellato. Le case sono basse e colorate. Le luci gialle dei lampioni si specchiano nelle pozzanghere, dando l’impressione di un’Europa vecchia, di prima dell’invasione americana.

© 2007

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Raccontino: Le penne

Mio padre ha una passione per il fai da te. Lui pretende di risolvere tutte le piccole questioni domestiche da solo, pur essendo consapevole di non averne i mezzi.
C’è un posto in casa dove teniamo le penne, nella credenza del salotto.
Ogni volta che ci vado perché ho bisogno di scrivere, e non mi va di cercare una penna tra le mie cose, ne prendo una, ma, puntualmente, non scrive.
Praticamente mio padre colleziona penne che non funzionano. A quel punto la cosa più logica da fare mi sembra quella di gettare via la penna e prenderne un’altra. Che, chiaramente, non funziona ancora. E così via la terza, la quarta.
Io le getto tutte, salvo poi beccare mio padre che le raccoglie dal sacchetto della spazzatura per rimetterle a posto. Allora io lì mi incazzo.
Perché se c’è una cosa che mi fa incazzare in questa civiltà dei consumi sono le cose che non funzionano come dovrebbero.
Ma mio padre si ostina a voler riparare queste benedette penne. Magari ne sostituisce la cartuccia, o semplicemente la accorcia per adattarla alla lunghezza della parte esterna dell’oggetto. Oppure cambia la molla metallica che fa scattare la punta delle penne usate di solito come gadget pubblicitari, e di cui è piena la mia casa.
Ma la cosa più assurda, mio padre è arrivato a mettere le penne nel forno.
Lui dice che non funzionano perché l’inchiostro è duro, raffreddato, quindi basta riscaldarlo un po’ per provocarne lo scioglimento e riportare la penna alla piena funzionalità.
Io mi chiedo se sia possibile litigare e urlare per queste fesserie.
E mia madre che non sa da che parte stare. Ogni tanto tira fuori queste penne dal forno, come se si trattasse di lasagne o polpettone.
Qualche volta se ne dimenticherà e ci ritroveremo a condire la teglia fumante con un filo d’olio e rosmarino, come le patate.
Una volta in campagna abbiamo costruito un piccolo impianto fognario per gli escrementi delle mie piccole bestiole da cortile, per evitare i cattivi odori.
Allora io facevo un po’ da ingegnere e lui da operaio. Io la mente e lui il braccio. Anche se un sacco di volte gli ho chiesto di insegnarmi a fare da braccio. Ma dopo un po’ perdo la pazienza e lascio stare tutto, vado a fumarmi una sigaretta nel boschetto adiacente.
Però questa fogna ogni tanto si intasa, smette di funzionare, perché il letame si blocca nelle tubazioni impedendo il passaggio e lo scorrimento. Così si accumula tutto all’esterno, e non è un bello spettacolo.
E allora tocca smontare e riparare tutto, in attesa che la mia mente partorisca un’alternativa meno scomoda. Oppure che mio padre decida di cambiare idraulico.
Perché ci sarebbe un idraulico che dovrebbe riparare l’intero impianto fognario e rifare il bagno in campagna. Ci metterebbe allora un quarto d’ora a sistemare definitivamente il problema dei bisogni di galline, anatre e conigli.
Solo che questo idraulico è un caro amico di mio padre. Tutti sono amici suoi.
E sto stracazzo di idraulico preferisce bere e giocare alla birra nel circolo dei cazzeggiatori dalla mattina alla sera, invece di lavorare. E questo lavoro resta sospeso ormai da mesi. Ma mio padre non se la sente di cercare un altro idraulico e tradire la fiducia dell’amico suo.
Quindi nell’attesa ci arrangiamo col fai da te.
E io sono costretto a scendere di casa per comprare una penna quando ho bisogno di scrivere. Oppure a rubare le matite di mia madre. Che ormai si è fatta furba, conosce l’andazzo e usa solo matite. Così risolve il problema alla radice.
Devo cercare di capire però dove le tiene nascoste le matite, perché io le uso una volta ma poi le perdo subito.

© 2007

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Prosa civile: La fontana

Un’impalcatura di lamiera nasconde quello che l’occhio non vede, ciò che non è dato scorgere. Come una siepe leopardiana al rovescio, impedisce di andare di qua da quella, dall’esterno verso l’interno, nell’intimo delle chianche. Nega ai comuni passanti la scoperta del cantiere attorno alla fontana, che verrà prossimamente sostituita con un esemplare più moderno, a celebrazione dell’ennesimo centenario, secondo l’ultimo compromesso politico in ordine cronologico. Occorre far ricorso all’immaginazione. Un’altra porcheria per mettere a freno le intemperanze dei cittadini in calore. Si progettano mostre d’antiquariato, si negano e concedono fumosi finanziamenti pubblici a seconda dei gusti e delle amicizie del talebano di turno, per dare nuovo lustro alla comunità. Un rimpasto di giunta serve sempre a rigenerarsi l’immagine, come un intervento chirurgico di plastica facciale. Intanto si compiono riti propiziatori per lasciare tutto così com’è. Almeno fino alla prossima tornata elettorale. Poi si vedrà.

© 2006

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Prosa poetica: La finale

Poichè la vita non è una
telenovela, e ignora l'happy end
(Gianni Clerici)

Si accontenta di una birra fredda davanti alla finale degli US-Open l’indice che misura il battito del cuore, le scintille che infiammano la notte, in questo undici settembre duemilacinque. Il ginocchio è dolorante e il referto incomprensibile apre scenari ad una gamba sola. L’annuncio in diretta non fa scalpore. Se qualcuno crede in Dio si circonda di cattivi presagi e prega la sconfitta del nemico. Ma stasera fuggo i disagi, le noiose letture poetiche. È l’ora delle amanti sospettose quando la schiuma si gonfia e dissolve al ritmo dettato dal polso caldo. È il miracolo della solitudine.
Ha vinto il migliore come previsto.

© 2005

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Prosa poetica: Il verme

Ora che gli amici sono andati, è rimasta l’ombra di un verme microscopico sulla pagina, a distrarmi dalle promesse che mi ero fatto, con troppa fiducia di me stesso. La lancetta dei secondi rimbomba nella stanza nonostante il televisore acceso. L’ennesimo distacco ha lasciato un odore di bruciato nelle narici, a segnare che forse è finito il tempo dei facili proclami, degli entusiasmi spensierati. Certo, non invidio il suo rotolare sulla carta, l’aggrapparsi ad una lettera qualsiasi, ma non è poi così diverso questo mio spegnere le luci e addormentarmi.

© 2005

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Prosa poetica: Animali da cortile

In inverno producono di meno. Io li nutro quanto basta alla loro sopravvivenza. Non hanno la lungimiranza delle api, che fanno scorte di fiori per il freddo. È necessario darsi una disciplina, mi dico, avere una strategia, per trovare un lavoro, per fare poesia.

© 2005

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Mini-raccontino: Presenza

Può succedere che noi non ci vediamo per una settimana o anche due, oppure che ci vediamo tutti i giorni. L’ultima volta che sei stata qui abbiamo visto un film e cenato con pizza e mandarini.
Le sere hanno contorni sempre diversi e sempre uguali e scivolano senza opporre resistenza. Il tempo si fa vedere solo quando non lo vorresti a condizionare il lavoro, lo studio, i passi, gli incontri, il non far niente.
Nei periodi in cui si allenta la morsa e concede pause e respiri lenti, me ne vado in campagna ad aspettare la sera. Mi occupo degli animali e delle piante, passeggio tra gli alberi, leggo, a volte con passione, altre con distacco, sempre più spesso. Il rumore di un’auto che attraversa il viale non mi distrae, fa parte del vento che muove le foglie e dei cani che abbaiano. Tu non ci sei, ma è come se ci fossi, e fatico a distinguere sulla terra umida le orme dei miei passi da quelle dei tuoi.
 

© 2005

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Mini-raccontino: Bar

Seduto al bar con la voglia di stare fermo per un giorno, perché la vita si ritrovi sulle zampe di una mosca su una fetta di torta all’arancia. Rossana mi dà del bastardo per solidarietà femminile. Molti pensano che parlare sia un fatto necessario, emissione di suoni, stare ad una festa, un atto sessuale misurato. Ho letto una frase una volta e non ricordo di chi fosse questo “si sta come a volte si è pensato di poter stare”.

© 2005

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Prosa poetica: Primo dell’anno

Nevica. Al semaforo rosso. Ascolto la stessa canzone per la terza volta e scrivo. I giri sono al minimo. È un arpeggio che adoro. Canto e i pochi al volante mi guardano male. Tutto è lento: auto, vecchi, aria. Gli alberi sono spogli. Il termometro segna due gradi.

© 2002

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Mini-raccontino: Mattazione

Quando sono arrivato l'avevano già ucciso, gli stavano bruciando le setole mentre il sangue gli colava dal naso e dalla gola. Aveva gli occhi sbarrati, con un'espressione mista tra terrore e compiacimento. Poi gli abbiamo aperto i tendini delle zampe posteriori e lo abbiamo appeso a testa in giù. Il nonno con un taglio secco ne ha inciso il ventre e ha tirato fuori le budella e gli organi inutili. Lo terremo a scolare un paio di giorni e il ventisette ne faremo una porchetta.

© 2001

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