INDICE:
Prosa a quattro occhi: Miopi Racconto metropolitano: Piazze Raccontino fiabesco: Il partito democratico Raccontino: Irlanda Raccontino: Le penne Prosa civile: La fontana Prosa poetica: La finale Prosa poetica: Il verme Prosa poetica: Animali da cortile Mini-raccontino: Presenza Mini-raccontino: Bar Prosa poetica: Primo dell’anno Mini-raccontino: Mattazione Prosa a quattro occhi: Miopi Il legislatore ignora la vista
dei miopi, l’andirivieni delle pupille sul monitor, il saliscendi delle
palpebre. Non sente il fiato sul collo, il lavoro che scorre nei sogni e nelle
vene come un virus. Racconto metropolitano: Piazze Quando il 9 si ferma, in piazza della Repubblica piove. Non è una pioggia particolarmente intensa, ma neanche una pioggerellina, ha l’andamento costante, regolare, verticale, snervante. È la classica pioggia milanese, di quelle che durano ininterrotte per tre o quattro giorni. Non porto con me l’ombrello, l’ho perso chissà dove. All’inizio questa piazza mi era insopportabile, mi disorientava con la sua vastità, punto di incontro di una quantità di strade e viali difficile da calcolare con precisione. È questa l’impressione che piazza della Repubblica lascia per la prima volta. Non si sa dove andare, hai voglia ad aprire la cartina in mezzo al traffico! Si resta sempre bloccati. È il trionfo del caos metropolitano, del via-vai delle auto che si alternano a ritmi veloci e lenti, a seconda dell’ora della giornata, dei grattacieli alti, a punta, di vetro, brutti. Adesso la sto scoprendo pian piano nei suoi angoli più nascosti, e sta finendo per essermi quasi familiare. Attraverso viale Vittorio Veneto e l’inizio dei Bastioni di Porta Venezia. Le suole delle scarpe scivolano sui binari bagnati. Poi attraverso la piazza per il suo lato più corto. Alla mia sinistra via Turati, a destra – do un’occhiata istantanea – quel mostro fascista della Stazione Centrale, dove finisce via Vittor Pisani. All’inizio, per fare prima, provavo ad attraversare la piazza in diagonale, mettendo a dura prova i miei riflessi e la mia incolumità. Ora ho imparato che il verde del primo semaforo dura giusto il tempo necessario per attraversare quel lato, e subito dopo, si accende il verde che mi consente di arrivare al capo della strada dove c’è la fermata della 43. La mia tecnica di attraversamento pedonale si è affinata a piccoli passi, in modo lento e graduale. La 43, di solito, la aspetto in media per 15-20 minuti, soprattutto la sera, dopo le sette, o nel week-end. Per non parlare delle sere in cui l’Inter o il Milan giocano in casa, visto che fa capolinea in zona San Siro, e allora passa molto più raramente, anche perchè il traffico per via Turati e via della Moscova è davvero molto lento. Alla fermata c’è un’edicola, e mi fermo sotto la pensilina per ripararmi dalla pioggia. Il giornalaio è giovane, sulla trentina, pelato, con una barbetta di tre giorni. Ad un tratto lo stronzo mi dice di allontanarmi, ché non si può stare lì. Ed io mi sposto sul lato del chiosco, sbuffando, dato che penso che nessuno comprerebbe un giornale il venerdì sera alla sette, in piazza della Repubblica, con quella pioggia. E poi in questa piazza non ci sono pedoni, ma solo autobus, tram, taxi, e macchine, macchine, quindi – penso – è davvero difficile che la mia presenza abbia ostacolato le sue vendite. E poi se uno vuol comprare un giornale, lo compra e basta. Sul lato la pensilina sarà profonda una trentina di centimetri, tanto quanto basta a ripararmi. Ma su quel lato c’è anche una porticina che consente di entrare e uscire dal chiosco. Allora lo stronzo viene fuori, mi sfiora la giacca aprendo bruscamente la porta, e mi fa: “Ehi, qui non si può stare, ché già ho i maroni girati!” E io mi incazzo e gli faccio: “A me i maroni li fai girare tu, milanese pezzo di merda!” Mi agito, impreco. È rigido nel volto, nei muscoli facciali, nella schiena anche. Sembra che i milanesi stiano fermi, o camminino, tutti con una postura diritta, perfettamente perpendicolare al pavimento, dai piedi alla testa. Sembra che i milanesi abbiano una mazza di scopa infilata nel culo, che poi attraversa la colonna vertebrale. Sogno una bella molotov contro la sua edicola. Non ci sono più i terroristi di una volta. Cerco nella mia memoria, nei miei studi di diritto privato, un articolo del codice civile che sveli se il possesso della striscia di marciapiede riparato dalla pensilina del chiosco sia dell’edicolante o pubblico. La proprietà è senz’altro pubblica, ma il possesso? Non ne vengo a capo. Finisce lì. Non mi resta che aspettare l’autobus sotto la pioggia, seduto sulla panchina, a due passi, sul lato del chiosco. Estraggo l’I-Pod dalla mia borsa verde militare e infilo gli auricolari: ascolto Giro in Si di Daniele Silvestri, poi If dei Pink Floyd, poi Molto lontano di Paolo Conte. Sono davvero stanco, le palpebre si abbassano lentamente, agevolate del ticchettio leggero sulle pelle delle gocce di pioggia attraverso la fessura tra gli occhiali e le sopracciglia. Respiro piano, sempre più piano. Mi ritrovo in una tipica strada di un centro storico pugliese. Potrebbe essere Cisternino o Ostuni. La strada è stretta e io la percorro in salita. Il pavimento è fatto di chianche. Le case a due piani, ai miei lati, sono ricoperte di calce bianca, con i soliti tre scalini che conducono ai portoncini di legno o anticlorodal color bronzo. Il cielo è azzurro, sereno, il tramonto sarà vicino. È l’inizio dell’estate. Eppure sono in Abruzzo, non so perchè, ma so di essere in Abruzzo. E io salgo, salgo, i muscoli delle gambe sempre più tesi, sicuri. È una giornata come tante, dopo il lavoro. La strada finisce in una piazzetta a pianta circolare, con un diametro di quindici-sedici metri. Al termine della salita c’è un bar vecchissimo, con la vetrina scura e sporca, che non lascia intravedere l’interno del locale. Sulla destra rispetto all’ingresso, l’insegna scolorita, in lamiera, arrugginita ai lati, con la scritta in stampatello, rossa su fondo bianco, con i tre caratteri disposti in verticale. B
Fuori tre
sedie di plastica, di quelle da lido balneare, ma bianche, di quelle da
dopolavoro o circolo degli anziani che giocano a carte, alla birra. Due frigo
da bar, di quelli per i gelati. Incollate sui lati verticali, le tabelle di
latta con le immagini colorate e i prezzi dei gelati confezionati. Mi chiedo
perché abbiano solo gelati Algida e Sammontana. Niente Sanson, che pure è il
quarto produttore in Italia. Penso che in due anni la quota di mercato del
gelato Sanson è passata dal 4,7% al
5,6%. Si trovano soltanto all’Esselunga, per ora, e in pochissimi bar. Ma di
questo passo tra vent’anni troverò il gelato Sanson anche qui. Forse, visto che il mercato del gelato
industriale è in forte e costante calo.
A R Apro uno dei due congelatori. Scelgo subito il Croccante, quella specie di cremino ricoperto di cioccolato e noccioline, e all’interno una crema al gusto di amarene. Ne andavo pazzo quando vendevo costumi da bagno in estate, ai mercati ambulanti delle province di Bari e Taranto. Lunedì: Grumo Appula; Martedì: Massafra; Mercoledì: Putignano; Giovedì: Ginosa; Venerdì: Turi; Sabato: Taranto, quartiere Tamburi, la piazza migliore, se non fosse per la puzza dell’Ilva, per qualche furto e qualche pallottola, ogni tanto. Verso le due si smontava la baracca – quasi un’ora di lavoro - e si andava a prendere un gelato. Lo scartavo subito, lo mangiavo sul furgone di ritorno a casa e mi addormentavo subito dopo, durante il viaggio. Infilo il mio Croccante nella borsa. Quando sto per andarmene, dal bar viene fuori la proprietaria. È una signora anziana ma sveglia, sugli ottanta. Bassa e grassa, con i capelli grigi, raccolti in un turbante, gli occhi scuri, le guance gonfie e sporgenti, che sembrano sorridere costantemente. La riconosco. Aveva un bar vicino a casa di mia nonna, quando ero bambino, e ci andavo con mia cugina a comprare le patatine sotto-marca. È la moglie di Ciccill u’mbrugghione. Allora devo giustificare il fatto di aver aperto il congelatore. Afferro un Magnum classico e apro il mio portafogli. Ma le mi fa: “Ma ce ti si pust n’da borse?” Ha scoperto il mio tentativo di furto. Sono costretto a tirar fuori il Croccante e pagare un conto salato. Mi sveglio di soprassalto, agitato. Michela dormiva serenamente, ma si sveglia al movimento delle lenzuola. Apre gli occhi lentamente, scuri, grossi. Le sue pupille si restringono rapidamente. Sbadiglia. Mi sorride, mi abbraccia. © 2008 Raccontino fiabesco: Il partito democratico C’era una volta una grande
fattoria dove tante specie di animali stavano in un unico cortile. Chiaramente
era facile che le galline stessero sempre insieme, così come i conigli, i
maiali, le capre e così via, malgrado non mancassero incomprensioni anche
all’interno della stessa specie. Bene o male, però, si tirava a campare,
scambiandosi favori, cortesie, concessioni, ipocriti ammiccamenti di facciata. © 2007 Tutti i bagni sono puliti e hanno
la carta igienica. Anche questo dell’autogrill, che sa di pesce e di colla al
limone. Le giornate sono lunghe. La cucina è sporca e fa schifo. Il caffé
anche, soprattutto. È bello chiacchierare con Marie, sentire la lingua che si
scioglie. È bello anche camminare con Eliska, tra un ponte e una mostra,
parlare, scherzare a volte, stare in un pub a bere whisky. A volte è noioso
però. Penso che glielo dirò quando la rincontrerò. © 2007 Mio padre ha una passione per il
fai da te. Lui pretende di risolvere tutte le piccole questioni domestiche da
solo, pur essendo consapevole di non averne i mezzi. © 2007 Un’impalcatura di lamiera nasconde quello che l’occhio non vede, ciò che non è dato scorgere. Come una siepe leopardiana al rovescio, impedisce di andare di qua da quella, dall’esterno verso l’interno, nell’intimo delle chianche. Nega ai comuni passanti la scoperta del cantiere attorno alla fontana, che verrà prossimamente sostituita con un esemplare più moderno, a celebrazione dell’ennesimo centenario, secondo l’ultimo compromesso politico in ordine cronologico. Occorre far ricorso all’immaginazione. Un’altra porcheria per mettere a freno le intemperanze dei cittadini in calore. Si progettano mostre d’antiquariato, si negano e concedono fumosi finanziamenti pubblici a seconda dei gusti e delle amicizie del talebano di turno, per dare nuovo lustro alla comunità. Un rimpasto di giunta serve sempre a rigenerarsi l’immagine, come un intervento chirurgico di plastica facciale. Intanto si compiono riti propiziatori per lasciare tutto così com’è. Almeno fino alla prossima tornata elettorale. Poi si vedrà. © 2006
Poichè la vita non è una Si accontenta di una birra fredda
davanti alla finale degli US-Open l’indice che misura il battito del cuore, le
scintille che infiammano la notte, in questo undici settembre duemilacinque. Il
ginocchio è dolorante e il referto incomprensibile apre scenari ad una gamba
sola. L’annuncio in diretta non fa scalpore. Se qualcuno crede in Dio si
circonda di cattivi presagi e prega la sconfitta del nemico. Ma stasera fuggo i
disagi, le noiose letture poetiche. È l’ora delle amanti sospettose quando la
schiuma si gonfia e dissolve al ritmo dettato dal polso caldo. È il miracolo
della solitudine. © 2005
Ora che gli amici sono andati, è rimasta l’ombra di un verme microscopico sulla pagina, a distrarmi dalle promesse che mi ero fatto, con troppa fiducia di me stesso. La lancetta dei secondi rimbomba nella stanza nonostante il televisore acceso. L’ennesimo distacco ha lasciato un odore di bruciato nelle narici, a segnare che forse è finito il tempo dei facili proclami, degli entusiasmi spensierati. Certo, non invidio il suo rotolare sulla carta, l’aggrapparsi ad una lettera qualsiasi, ma non è poi così diverso questo mio spegnere le luci e addormentarmi. © 2005
Prosa poetica: Animali da cortile In inverno producono di meno. Io li nutro quanto basta alla loro sopravvivenza. Non hanno la lungimiranza delle api, che fanno scorte di fiori per il freddo. È necessario darsi una disciplina, mi dico, avere una strategia, per trovare un lavoro, per fare poesia. © 2005
Può succedere che noi non ci
vediamo per una settimana o anche due, oppure che ci vediamo tutti i giorni.
L’ultima volta che sei stata qui abbiamo visto un film e cenato con pizza e
mandarini. © 2005
Seduto al bar con la voglia di stare fermo per un giorno, perché la vita si ritrovi sulle zampe di una mosca su una fetta di torta all’arancia. Rossana mi dà del bastardo per solidarietà femminile. Molti pensano che parlare sia un fatto necessario, emissione di suoni, stare ad una festa, un atto sessuale misurato. Ho letto una frase una volta e non ricordo di chi fosse questo “si sta come a volte si è pensato di poter stare”. © 2005
Prosa poetica: Primo dell’anno Nevica. Al semaforo rosso. Ascolto la stessa canzone per
la terza volta e scrivo. I giri sono al minimo. È un arpeggio che adoro. Canto
e i pochi al volante mi guardano male. Tutto è lento: auto, vecchi, aria. Gli
alberi sono spogli. Il termometro segna due gradi. © 2002
Quando sono arrivato l'avevano già ucciso, gli stavano
bruciando le setole mentre il sangue gli colava dal naso e dalla gola. Aveva
gli occhi sbarrati, con un'espressione mista tra terrore e compiacimento. Poi
gli abbiamo aperto i tendini delle zampe posteriori e lo abbiamo appeso a testa
in giù. Il nonno con un taglio secco ne ha inciso il ventre e ha tirato fuori
le budella e gli organi inutili. Lo terremo a scolare un paio di giorni e il
ventisette ne faremo una porchetta. © 2001 |