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INDICE:

Libri: "Il gesto di Ettore" di Luigi Zoja
Mostre: Piero Manzoni a Milano, gli Achromes
Libri: "Mnemosyne" di Michele Montorfano
Libri: "Il chiarore" di Carla Saracino
Libri: "Introduzione al mondo" di Idolo Hoxhvogli
Libri: "L'innocenza del male" di Antonio Lillo
Libri: "L'ombra della salute" di Alberto Pellegatta
Libri: "Pieghevole per pendolare precario" di Piero Simon Ostan
Libri: "Bestie e dintorni" di Amos Mattio
Libri: "L'appello della mano" di Lino Angiuli
Concerti: "Le luci della centrale elettrica" all'Arci Bellezza di Milano
Libri: "Polvere del bene" di Giacomo Leronni
Libri: "Un giorno l'altro" di Lino Angiuli


"Il gesto di Ettore" di Luigi Zoja (anche su maintenant1.wix.com/maintenantmensile)

Nel saggio “Il gesto di Ettore” lo psicologo junghiano Luigi Zoja, traccia il percorso antropologico, sociologico e soprattutto psicologico che l’idea del padre ha seguito nel corso della storia dell’umanità, in particolare nella cultura occidentale.   
Inutile dire che si tratta di una malato ormai terminale, come - per citare la musica “pop” - cantava Franco Battiato in “Tramonto occidentale” già nel 1983, nel disco “Orizzonti perduti”: l'analista sa che la famiglia è in crisi, da più generazioni, per mancanza di padri.
Uno dei tratti distintivi della civiltà umana rispetto agli animali è proprio l’istituzione della famiglia, nata da quel patto tra i generi che trasforma il maschio in uomo, da animale che deve competere con i suoi simili attraverso la forza per l’accoppiamento e la conservazione del suo patrimonio genetico, a uomo che assolve ad una funzione che va oltre l’inseminazione della femmina, poiché la selezione favorisce i tratti genetici (e soprattutto quelli psicologici) di quei pre-uomini che si occupano dei loro figli, garantendo loro un’alimentazione più ricca, assicurando loro la propria cura.
Nasce la monogamia, una sessualità “umana”, non finalizzata unicamente e direttamente alla riproduzione, nasce il padre, la separazione di compiti tra i sessi, ma nasce anche la psiche, la nevrosi. Nasce la necessità per il maschio di conciliare istinto e costume.
La madre infatti è sempre esistita e la sua funzione verso i figli non ha subito grossi mutamenti psicologici, basando la propria condizione esistenziale sull’istinto alla cura, sul corpo, sull’evidenza della materia (mater, appunto), sulla natura. Il padre invece poggia la sua essenza e la sua funzione sociale sulle fondamenta d’argilla della cultura dell’autorità e della responsabilità. Il padre non è per sua essenza istintivo, in lui, al di là del dato biologico, è necessario sempre un atto di volontà, una scelta. L’uomo ha avuto bisogno di inventare rituali non naturali per esistere in quanto padre.
Nel tentativo di fronteggiare questa fragilità psichica, di evitare la regressione al modo animale e di valorizzare pubblicamente il ruolo precario del padre, si sviluppò la disparità sociale tra i generi, nacque il patriarcato, il mito del padre, che giunge all’esito estremo di negare la capacità generativa della femmina.
Nella cultura greca prima e romana dopo, la figura del padre raggiunge il massimo del suo potere nell’immaginario collettivo. Esso si nutre di simboli forti, di mito, appunto.
Emblematica a questo punto, e modernissima, risulta la figura di Ettore, il primo padre a pregare gli dei perché suo figlio possa essere più forte del padre. Ettore non riesce a chinarsi per abbracciare Astianatte perché ha dimenticato di indossare l’armatura. Quando se ne rende conto, sfila l’elmo, ed eleva il figlio in alto con le braccia, il pensiero, il desiderio. Questo gesto resterà impresso nell’immaginario collettivo come il marchio del padre, la scelta voluta anche se impacciata, combattuta tra aggressività e ragione, ma consapevole, amorevole.
La cultura romana non fa che sviluppare e rafforzare il primato del padre, estendendolo da un ambito esclusivamente pubblico ad uno anche privato, individuale.   
Con il Cristianesimo l’idea di padre comincia ad incrinarsi, poiché l’attenzione viene tutta spostata sul figlio. Gesù intrattiene con il Padre celeste un rapporto diretto. Giuseppe, il padre terrestre, è figura debolissima e priva di autonomia, autorità. Il concetto di carità cristiana anticipa l’egualitarismo moderno e antipaternalista. Rovesciando la prospettiva dell’Antico Testamento, con i Vangeli il figlio si pone sullo stesso piano del padre.
Con la rivoluzione industriale il concetto di padre subisce dei colpi fortissimi: il padre è ormai anche fisicamente sempre più distante fisicamente dai figli, si imbruttisce, ha l’unico scopo di lavorare quanto più possibile in luoghi lontanissimi dal nucleo familiare per provvedere al sostentamento. Ha ormai perso, con i valori dell’Illuminismo e con lo sviluppo degli stati moderni, anche le prerogative sull’educazione dei figli, trasferite all’autorità dello Stato.
Questa progressiva e inesorabile rarefazione e dissolvenza dei padri è probabilmente la base psicologica collettiva del rimpianto del padre e del desiderio di autorità da cui prenderanno corpo le dittature autoritarie del Novecento, e le nostalgie per la politica decisionista di oggi, per “l’uomo solo al comando”.
Oggi il padre sembra avere perso il ruolo di maestro per assumere unicamente quello di breadwinner, che procura denaro ai figli e tutt’al più ne cura il corpo, avvicinandosi al ruolo della madre.
L’elevazione simbolica di Ettore è scomparsa, e il padre è tale solo se ha successo sociale. Il padre torna cacciatore, ma di reddito. In questa involuzione regressiva verso il mondo animale (“ed io, mi sento un po’ un cannibale”, cantava sempre Battiato in Tramonto occidentale) fatto di competizione tra maschi, ha contagiato anche le madri. La competizione quotidiana non avviene più solo tra maschi, ma anche con la madre, con il figlio stesso. Il padre non è più immagine, simbolo, idea, spirito, ma unicamente materia, nei casi in cui riesce ancora ad essere fisicamente presente.
Il padre è sempre più concentrato sul suo successo socio-economico, e questa dimissione di responsabilità, pare l’unico modo di essere riconosciuto pubblicamente come padre. La maggior parte del tempo che passa con i figli viene trascorso davanti alla TV. Nel patriarcato era il padre a iniziare ed elevare il figlio, oggi è così fragile da cercare egli stesso la benedizione del figlio, dal figlio. E a non ottenerla: il figlio fugge dalla tavola della famiglia, il figlio giudica il padre, che ne risulta fatto a pezzi anche sul piano individuale.
La fine dei riti, dei simboli, dei miti, ha reso irreversibile la malattia del padre. Zoja non ha terapie. Sembra unicamente suggerire che solo la consapevolezza, la memoria, la conoscenza della propria identità storica, la sua continuazione almeno sul piano individuale, la responsabilità del singolo, possono essere l’unica possibile cura giusta. Anche questa è sempre una scelta, perché, parafrasando ancora Battiato, “per avere disciplina, ci vuole troppa volontà”.

Vito Russo

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"Achromes" di Piero Manzoni a Palazzo Reale a Milano (anche su maintenant1.wix.com/maintenantmensile)

Nel libro d’esordio di Valerio Magrelli, Ora serrata retinae, è contenuta questa poesia:

Esistono libri che servono
a svelare altri libri,
ma scrivere in generale è nascondere,
sottrarre alla realtà qualcosa
di cui sentirà la mancanza.
Questa maieutica del segno
indicando le cose con il loro dolore
insegna a riconoscerle.
 

Rileggendola, mi sono tornati alla mente gli Achromes di Piero Manzoni, che ho visto solo un paio di mesi fa in mostra a Milano.
I primi Achromes realizzati da Manzoni sono tele ricoperte di gesso o caolino o colla, lasciati ad asciugare senza nessun intervento da parte dell'artista. Siamo di fronte ad un monocromatico etereo, metafisico.
Successivamente, dal 1958, Manzoni realizza tele più complesse attraversate da righe orizzontali o verticali, gonfiori, grinze, fessure, scanalature, griglie. Infine Manzoni realizza Achromes artificiali con materiali e tecniche visive innovativi: cotone, vetro, carta, polistirolo, addirittura uova o panini plastificati. Qui è anche la materia, il corpo, che si rivela linguaggio in grado di trasferire una molteplicità di significati.
Domina senz'altro il bianco, ma grazie ad alcune tecniche artificiali, Manzoni realizza anche opere rosa, rosse, blu, addirittura fosforescenti, psichedeliche.
Di fronte a opere di questo tipo le possibilità interpretative dell'osservatore sono pressoché infinite, complementari all'intervento dell'artista, che è minimo, o minimale, concettuale senza dubbio, più che formale in senso stretto.
Anche Manzoni quindi lavorava per sottrazione di materia e colore. Restava una tela bianca, sporcata da residui di realtà, da pieghe, tagli, fessure, come se davvero il compito dell’artista fosse quello di eliminare tutto il superfluo per giungere allo stato puro delle cose, del dolore, e riconoscerlo senza fronzoli e finzioni.
L’osservatore resta davvero colto di sorpresa da questa assenza, e non può che assumere una posizione contemplativa. Tutto quello che ha fatto prima, quello che ha detto, visto, toccato, sentito, mangiato, di colpo svanisce per sottrazione, e si resta in una solitudine potente ed autentica, monocromatica.
Nel 1960, sul numero 2 della rivista Azimuth, Manzoni scriveva: “(...) io non riesco a capire i pittori che pur dicendosi interessati ai problemi moderni, si pongono a tutt'oggi di fronte al quadro come se questo fosse una superficie da riempire, di colori o di forme, secondo un gusto più o meno apprezzabile, più o meno orecchiato. Tracciano un segno, indietreggiano guardando il loro operato inclinando il capo e socchiudendo un occhio, poi balzano di nuovo in avanti, aggiungono un altro segno, un altro colore della tavolozza, e continuano in questa ginnastica finché non hanno riempito il quadro, coperta la tela: il quadro è finito: una superficie d'illimitate possibilità è ora ridotta ad una specie di recipiente in cui sono forzati e compromessi colori innaturali, significati artificiali. Perché invece non vuotare questo recipiente? Perché non liberare questa superficie? Perché non cercare di scoprire il significato di uno spazio totale, di una luce pura ed assoluta? (...) un quadro vale solo in quanto è, essere totale; non bisogna dir nulla: essere soltanto. (...) Inutili sono anche qui tutti i problemi di colore, ogni questione di rapporto cromatico (anche se si tratta solo di modulazioni di tono). Possiamo solo stendere un unico colore (...): non si tratta di “dipingere” blu nel blu o bianco su bianco (sia nel senso di comporre, che nel senso di esprimersi): esattamente il contrario: la questione per me è dare una superficie integralmente bianca (anzi, integralmente incolore, neutra) al di fuori di ogni fenomeno pittorico, di ogni intervento estraneo al valore di superficie: un bianco che non è un paesaggio polare, una materia evocatrice o una bella materia, una sensazione o un simbolo o altro ancora: una superficie bianca che è una superficie bianca e basta (una superficie incolore che è una superficie incolore) anzi, meglio ancora, che è e basta: essere (…)  Non si tratta di formare, non si tratta di articolar messaggi (...); non sono forse espressione, fantasismo, astrazione, vuote finzioni? Non c'è nulla da dire: c'è solo da essere, c'è solo da vivere”.
Eppure non è un vuoto totale quello davanti all’osservatore, è come se ci fossero delle ferite inconcepibili, inimmaginabili, che restano segno vivo davanti agli occhi, e svelano l’impotenza dello sguardo di fronte a una realtà che è fatta al suo centro di residui, rigonfiamenti, cotone, scanalature, fibre artificiali ma anche pietre e pani, scarti inaccessibili, croste amorfe, tagli che la materia della mano e dell'occhio non possono penetrare.
Non esistono tra gli Achromes tele semplicemente vuote. Manzoni non conduce mai il lavoro dell'artista alle conseguenze più estreme, e avrebbe potuto benissimo farlo se ci avesse creduto fino in fondo. Sottraendo il superfluo dalla vita, resta una polvere sottile, infinitesima, inafferrabile. La monocromia non è mai realmente compiuta nella sua vuota perfezione, perché quel dolore lascia aperta sempre una trama di speranza. Finché esisterà questa ferita, l'atto creativo avrà un senso. Eliminando il superfluo resta semplicemente la realtà primaria, pura, matericamente autonoma dall’artista che ha il solo ruolo di rivelarla, autonoma anche dall’osservatore stesso. L’opera non è affatto sintesi di una realtà complessa, è la realtà, punto. L’artista interviene semplicemente per disporre sulla tela gli elementi che si ordinano autonomamente in quanto segni significanti.
Sia l’artista che l’osservatore si spogliano della propria storia personale e collettiva, restano nudi, resta l’essere universale, che, interrogato, si rende riconoscibile tramite del linguaggio, e risponde con altre domande, con la nostalgia.
E questa realtà non è mai piatta poiché il monocromo non esiste. Non esiste l'assenza di vibrazioni. Il bianco non esiste. Il vuoto è solo una facile scorciatoia per spiegare l'inspiegabile. Il vuoto non esiste.

Vito Russo

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"Mnmosyne" di Michele Montorfano (anche su lestroverso.it)

Michele Montorfano ha da poco esordito con Mnemosyne, una silloge non facilmente penetrabile nel suo senso più profondo. Per cui, parafrasando Montale, è utile iniziare l’analisi chiarendo innanzitutto cosa questo libro non è. Certamente Mnemosyne (Lietocolle, 2013) non è un libro storico, sebbene tutta la prima sezione del libro, che è la più corposa, ruoti attorno a un evento storico preciso come l’olocausto nazista. Il titolo stesso della raccolta (memoria in greco), potrebbe trarre in inganno il lettore meno avveduto. E non si tratta nemmeno di un libro di cosiddetta “poesia civile”, cosa che risulterebbe stucchevole e fuori tempo, a 70 anni dagli episodi a cui fa riferimento. L’autore non è mosso da intenti storiografici né tanto meno didattici o pedagogici, ma certamente Montorfano ha qualcosa da dire, e lo fa usando il pretesto della storia e della scienza, lo fa usando lo strumento espressivo dell’allegoria.Mnemosyne è un libro che parla in realtà del bene e del male, e per farlo porta questi concetti al loro apice, utilizzando l’episodio storico che nell’immaginario collettivo comune è simbolo indiscutibile di atrocità, un evento in cui le idee stesse di humanitas e pietas sono completamente saltate. La descrizione degli esperimenti medici ed eugenetici nazisti è condotta con distacco e freddezza, con uno stile a tratti addirittura documentaristico, utilizzando un lessico medico-scientifico. Non a caso domina l’ipermetro, la spersonalizzazione, un andamento sintattico nominativo, la paratassi. Mario Santagostini nella prefazione ha definito anti-letteraria la lingua di questo libro. È vero che l’autore utilizza un lessico che non aderisce alle tradizioni poetiche più codificate, soprattutto nella prima sezione, ma quello stesso lessico viene alzato a livelli di invenzione linguistica davvero notevoli. L’uso che Montorfano fa di certi ossimori, di certi accostamenti di immagini, della metafora, contrasta con il lessico, e produce delle rotture violente e delle lacerazioni visive nell’immaginazione del lettore. Sono possibili almeno due accostamenti con la poesia italiana più recente: Macello di Ivano Ferrari e Guerra di Franco Buffoni. Abbiamo in Mnemosyne la stessa analisi del crudele, del macabro, lo stesso orrore per la materia corrotta che c’è in questi libri. Tuttavia Ferrari vuole esibire la morte, descrivere le leggi violente della sopraffazione, lo stile di Buffoni è più narrativo, Guerra è un libro più corposo e dai molteplici registri, attraverso i quali l’io interviene con slanci morali. L’intento di Montorfano non è soltanto descrittivo, ma nemmeno moralistico nel senso comune del termine. Con questa raccolta compatta l’autore vuole dirci che siamo tutti coinvolti, che la linea di demarcazione tra il bene e il male non esiste, che non ci sono i buoni e i cattivi. E questo spiega il tono di freddezza e distacco: se l’assenza di giudizio deve essere veicolata al lettore, deve per prima cosa essere praticata con la parola. Ecco come la pedagogia di Montorfano è l’assenza di pedagogia: si potrà invece parlare di a-morale o di morale negativa, di pedagogia negativa. La prima sezione del libro è una ripetizione ossessiva e fredda del dolore e dell’orrore dei lager. Montorfano non si limita a rappresentare lucidamente il male, ma inserisce nella rappresentazione anche il soggetto, o, meglio, i soggetti. E lo fa confondendoli: le vittime e i carnefici si mescolano continuamente, – non a caso domina la terza persona – fino a quando l’io lirico interviene in alcuni misurati passaggi: “Io scrivo i nomi degli orchi accanto a quelli dei santi”. Questi versi ricordano i versi di un poeta diversissimo da Montorfano, la cui vicenda è a dir poco singolare nel panorama poetico italiano del Novecento, ed è Giorgio Caproni. In Res Amissa, Caproni si interrogava sul concetto di ambiguità, e si chiedeva: “Se non sono ladrone / o omicida, forse / è soltanto perché / non ne ho avuto occasione?”. Giorgio Caproni non ha avuto epigoni. Montorfano ha dei riferimenti e maestri letterari forti (i greci e i francesi, soprattutto), ma appare evidente come Montorfano non sia epigono di nessuno. Mentre gran parte della poesia che si scrive in Italia negli ultimi anni si muove in spazi ristrettissimi, ruota attorno al concetto di vuoto, materiale, morale, spesso biografico, o quanto meno esistenziale, raggiungendo in alcuni casi delle vette notevoli, la poesia di Michele Montorfano è invece animata da un’ansia e da una tensione comunicativa fortissima, che lo porta invece a rischiare e a volare alto. Una tensione comunicativa che si nutre anche di strappi visionari, al limite orfici, a mediare la lettura, ma che pervade la raccolta tutta. Nell’ultima sezione, intitolata Distruzione e salita di Lilith, la volontà di dire dell’autore tocca il suo apice. Questa volta Montorfano non utilizza riferimenti storici ma una figura mitico-religiosa. Nelle antiche religioni mesopotamiche e ebraiche Lilith è una figura femminile demoniaca, caratterizzata dagli stereotipi diabolici della femminilità: adulterio, stregoneria, lussuria, malattia. Il riferimento – che è già nel titolo – alla distruzione e alla salita di Lilith svela ancora una volta il piano di scivolosa ambiguità che l’autore intende attraversare con il lettore. Qui l’io lirico interviene attraverso il personaggio tragico nella narrazione (non a caso si utilizza il termine narrazione, perché qui il verso si allunga fino a divenire prosa), un personaggio che è voce e simbolo di perdita, impotenza, solitudine. Ma Michele Montorfano sembra dire che solo attraversando il buio e cadendoci dentro possiamo trovare la luce e la parola: “Questo è lo scheletro troncato. / Questa è la mia lingua che entra in te, che ti svilisce fino all’indole. / Costruisci un verso come il resto di un incendio.”

Mnmosyne, Michele Montorfano, Lietocolle, 2013

                                                                                                                        Vito Russo

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"Il chiarore" di Carla Saracino (anche su incrocionline.wordpress.com)

“Il chiarore”, la seconda raccolta poetica della pugliese Carla Saracino, si interroga sul significato e sulla percezione della vita e della morte, entità mescolate e insieme presenti nel reale, difficilmente conoscibili come distinte.
In generale, soprattutto nella prima sezione del libro, domina un clima di dissoluzione, di malattia e dissolvenza agrodolce delle cose inanimate (“Sparirà questa stanza, spariranno / i suoi orpelli comprati e mai amati”), nella seconda prevalgono toni di vitalità.
La silloge si apre in uno scenario di perdita, distacco, apparente decadenza: il soggetto non ha alcun potere di intervento sullo status quo e può solo prenderne malinconicamente atto (“E’ quasi l’ora del deserto, / quasi la fine, arida, della superficie”). Ma la natura stessa delle cose apre dei varchi, pur frammentari, e si pone già oltre la morte: “questo dire delle meraviglia / senza continuazione, questo vedere / in un volto l’altro volto potuto, / questo essere nella natura cosa morta / che la natura ha già superato”.
La poesia di Carla Saracino è una poesia perennemente sospesa, fuori dal tempo, assoluta, a-cronicistica, a-cronologica, persino a-storica, tant’è che la prima parte della raccolta è intitolata programmaticamente “Chiudere il tempo”.
In un tempo assente, quindi, la vita coincide con la morte. Ma quando l’io lirico emerge con potenti illuminazioni, il poeta dimentica l’anonimato e le regole dello stare al mondo (come in uno dei passaggi più ispirati del libro: “Niente è migliore del morire / fuorché la speranza di disimparare / a vivere”), che altro non sono che manifestazioni della morte in vita. Il poeta percepisce invece una vita vera e incondizionata, quell’innocenza antimoderna e finanche primordiale che sta al punto di inizio del cosmo. È quindi un vitalismo assoluto che domina e pervade il mondo poetico di Saracino, in un continuo evocare la morte nella vita e la vita nella morte per superarla, nel punto in cui la poesia si fonde ipnoticamente con quella vita autentica, e diviene uno stato esistenziale rivoluzionario, perché scardina le convenzioni sociologiche e relazionali costituite fuori dalla natura.
È quello che accade nella seconda parte del libro, intitolata “Via delle cenate”, una via immaginaria e contemporaneamente vivida di un Sud esistenziale, prima che geografico. Qui la poetessa pugliese rompe gli indugi e si abbandona totalmente alla bellezza, persino all’effimero, alla vanità di quelle cose apparentemente piccole, fino a percepire di non esistere più, di essere sopraffatta dall’amore per la vita.
In una lingua antimoderna, quasi sempre connotata da un istintivo e sacrale lirismo, da un energico ma controllato espressionismo, dominano i luoghi ovattati di una provincia minima, essenziale, dimenticata – appunto – dalla storia, e per questo “eletta” dalla poesia, alla poesia. Il poeta torna a quelle origini antropologiche ed estetiche sconosciute al presente, a quegli alberghi bruciacchiati di riviste, alle case abbandonate del materano, dove è possibile esultare, disobbedire, e finisce per non essere presente a se stesso, in un narcotico stato di torpore, per dimenticare: “Vorrei poter ricordare ma non ho / nessuna attenzione per i nomi e le date”. Eppure nel ritorno al dimenticato è possibile il ritorno all’esistenza pienamente vissuta, così che dalla morte si torna a ”La punta dell’ordine, il chiarore”.
La vita non viene scelta ma subita (“Anch’io una volta dovetti nascere”) e finisce quindi per essere una parte della morte, per essere contenuta nella morte come in un macroinsieme, ma il poeta è quell’individuo capace di trasformare lo stato di costrizione in abbandono a-sensoriale, a-materico, in catarsi (“Ogni giorno la vita progredisce per cancellare”): l’io si fonde nell’altro così come la poesia si fonde nella vita.
Nella morte dunque il poeta si scopre innamorato di quel “dolce rumore della vita”, naturale prigionia che lo accompagna come un filo rosso, fino ad annullarsi in quegli “affetti, accumulati per ossessione / di felicità”.

Carla Saracino, Il chiarore, LietoColle, 2013

                                                                                                                            Vito Russo


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“Introduzione al mondo” di Idolo Hoxhvogli
 
La prima domanda che ci si pone leggendo “Introduzione al mondo”, libro d’esordio del ventottenne Idolo Hoxhvogli, è una domanda di stile. Siamo di fronte ad un romanzo destrutturato, a delle prose parapoetiche, ad un pamphlet filosofico, sociologico, politico?
In realtà la prova dell’autore milanese di origini albanesi, ha una sua struttura contenutistica e formale consapevole, ma sembra volutamente sfuggire a facili etichettature di genere, e questo non è un male, anzi, è la ragione che rende quanto meno suggestivo e accattivante il libro e, come vedremo, è anche una scelta etica dell’autore.
Non si tratta di un romanzo o di racconti, nella concezione classica, poiché se esiste una struttura narrativa, questa procede a singhiozzi. Si tratta invece di frammenti narrativi, che mantengono una loro organicità strutturale d’insieme. Sembra essere piuttosto lontano anche dalla prosa poetica, poiché ne mancano certe suggestioni, manca il gusto sacro della parola e l’intenzione poetica, e se consideriamo ad esempio una definizione di poesia di Giovanni Raboni (secondo cui “La poesia non è né uno stato d’animo a priori né una condizione di privilegio, né una realtà a parte né una realtà migliore. È un linguaggio: un linguaggio diverso da quello che usiamo per comunicare nella vita quotidiana e di gran lunga più ricco, più completo, più compiutamente umano; un linguaggio al tempo stesso accuratamente premeditato e profondamente involontario, capace di connettere fra loro le cose che si vedono e quelle che non si vedono, di mettere in relazione ciò che sappiamo con ciò che non sappiamo.”), non c’è nulla di profondamente involontario in questa Introduzione al mondo, anzi l’obiettivo dell’autore è forse quello di ordinare coscientemente il caos, a partire da una circoscrizione del male che lo genera, di prenderne coscienza con metodo profondamente intellettualistico. Se si sfoglia il Devoto-Oli, il pamphlet è considerato semplicemente uno “scritto di carattere polemico o satirico”. Eppure questo non è solo un pamphlet, e sembra mancare anche l’intenzione del saggio. È presente piuttosto una certa omogeneità narrativa di carattere fiabesco e soprattutto allegorico, a tratti addirittura tecnico-scientifico.
Ecco che l’originalità letteraria di Hoxhvogli sta tutta nello stile. Poiché ci sembra che lo spessore letterario superi quello filosofico. Si tratta infatti di un libro ostico, ma senz’altro molto ben scritto, con lucida visionarietà.
È una lettura che si inceppa, e al cui termine si ha l’impressione di aver preso un feroce cazzotto in faccia. Perché forse è davvero la ferocia ad essere il filo conduttore del libro. Una ferocia e una rabbia indirizzate verso il mondo intero, e verso il lettore, che del mondo e del caos è elemento partecipante più o meno consapevole, incapace tuttavia di cogliere quella stessa ferocia che si annida nei rapporti sociali.
Una serie di allegorie morali si susseguono, e qui al termine morale si vuole restituire il candore e l’autenticità che dovrebbero essergli propri. Quel candore e quell’autenticità assenti nella società descritta, che l’autore, senza furbizia, ma anzi forse peccando di ingenuità contenutistica (la pars destruens è infatti ossessivamente prevalente su quella construens), analizza impietosamente e ci restituisce spogliandola di borghesi ipocrisie.
È l’ipocrisia infatti che nella prima parte del libro governa “La città dell’allegria”, in cui domina la paura dello straniero, la paura della solitudine, tanto che la collettività ha deciso di impiantare degli altoparlanti che urlino perennemente la parola “Allegria”, e chi si oppone a tale stato di cose è “democraticamente” e formalmente respinto perché elemento di minoranza. Si tratta della riproposizione immaginifica dell’imbambolimento collettivo e dell’afasia a cui la società di massa e videocratica ci sottopone nel chiuso dei nostri salotti.
Nella seconda parte (“Civiltà della conversazione”) l’autore si scaglia invece contro l’industria dell’editoria e dell’informazione, pretesto per attaccare ancora il mondo globalizzato tutto, con le sue etichette, i suoi qualunquismi, quel mondo in cui “nove mesi dopo aver fatto l’amore, nascono cadaveri” che hanno sostituito i bisogni primari del corpo, con il bisogno delirante di vivere il mercato e la finanza mandando “a spasso derivati e obbligazioni”, investendo “in cimiteri e armi da fuoco”. Anche Dio è impotente, i valori di cui è portatore sono maceri come il legno della sua croce, poiché l’ingiustizia ne ha spento l’ardore. Anche Dio sembra vittima dell’assopimento che ha travolto gli uomini, così in un clima surreale che ricorda “Il signore delle Mosche” di William Golding, il porco economico, il porco politico, il porco stupratore, il porco pedofilo, sono “senza redenzione”.
La “Fiaba per adulti” che conclude il libro, è l’introduzione al mondo della bambina Allegra, che, con le mestruazioni, conosce la crudeltà, l’inganno. La strada preparata dagli adulti è fatta di ciottoli che “le rimbalzano dentro”, come se il male, da elemento esterno all’uomo, sia diventato – per dirla alla Pasolini -  antropologicamente endogeno alla natura umana.
 
Idolo Hoxhvogli, Introduzione al mondo, Scepsi & Mattana editori, 2011

Vito Russo

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"L'innocenza del male" di Antonio Lillo (anche su antonio-spagnuolo-poetry.blogspot.it)

Alcuni libri maturano col tempo nella percezione del lettore. Capita anche quando con l’autore, tra i saliscendi della Valle d’Itria, si è percorso un bel pezzo di strada, con la lentezza che la poesia e l’amicizia meritano.
Ho riletto di recente “L’innocenza del male” di Antonio Lillo, edito da Lietocolle nel 2009.
Lillo è un poeta non laureato, per dirla alla Montale, ma è anche un poeta che utilizza i mezzi espressivi dei maestri del secondo Novecento con impeccabile padronanza. Operazione condotta con consapevolezza e sfacciataggine, come quando ad esempio Lillo rivela il rapporto con la poetica di Vittorio Sereni, soprattutto.  Ma sono tanti i contatti “nobili”, espliciti e non, come con Pasolini, Fortini, Penna, Pagliarani, lo stesso Montale e la cosiddetta Linea Lombarda.
Nel solco di questa tradizione, accade che i sentimenti, nominati, prendano invece la forma immaginifica del verso, come la sofferenza, che, “caricandosi, s’aggruma a tappo in gola”. È come se il reale, attraverso l’azione, e, soprattutto, attraverso la parola, e grazie alla parola, prenda realmente corpo, al punto da pensare che prima della parola ci sia solo il nulla. Così l’amore “si / presenta tuo durante il bacio / in ascensore. Poi sparisce all’ora di / sciacquare / i peli caduti sul fondo della doccia”. Pare essere questa la conclusione umana e poetica del poeta di Locorotondo: “E se / la poesia la politica il semplice fare / non fossero altro che un esserci in fondo?”
È il movimento delle cose, degli oggetti, degli animali prima che delle persone, l’azione insomma, che rivela l’esistenza, come il semplice incresparsi della carta, o la fuga terribile di un ratto che scava gallerie dentro il corpo, e al poeta non resta che cercare di lasciare un’impronta nell’altro. In fondo, l’azione poetica, atto solitario, rivive solo nel momento in cui stabilisce un contatto con l’altro. Lillo è infatti anche un poeta narcisista, che si compiace del suo modus vivendi et scribendi, ma al tempo stesso ha l’umiltà di non prendersi troppo sul serio, come quando semplicemente scrive “Forse mi do troppa importanza”. Se il soggetto dominante infatti è l’io, non mancano molte forme impersonali, e soprattutto, spesso sono gli animali (ratti, cani, gatti, anitre, canarini, pesci), le piante, o altre volte anonimi vicini di casa, o pescatori, o clandestini, a occupare cinematograficamente la scena poetica.
Sul piano del predicato invece, è frequente l’uso dell’imperfetto o del passato remoto, ma pare trattarsi solo di un espediente stilistico o retorico, perché domina appunto l’azione, lenta, lentissima, ma continua, sulla stasi, quasi che il poeta viva un eterno presente, tempo per attualizzare il passato e immaginare il dispiegarsi del futuro. Lo spazio in cui il fare, la vita, trionfano, è la provincia, con la sua incantevole distanza e indifferenza dal e al potere, e questo spiega anche l’uso frammentario di un dialetto che dà voce a personaggi buffi ed eroici, come nel cinema felliniano: un poeta che suona nella banda ai funerali, o il soggetto stesso che si ritrova chiuso in un portone assolato ad aspettare un amico e il mondo intero.
“L’innocenza del male” è un libro che, nella sua ricercata disomogeneità, si rivela in continuo movimento, in costante tensione estetica e umana, a significare un crescente, incontenibile, innamoramento per la vita: “balliamo sgraziati / da lento fuoco / abbracciati”.
Ma se qualcuno chiedesse all’autore il motivo per cui scrive, Lillo, col suo cinico romanticismo, risponderebbe che conta solo di conquistare qualche bella ragazza, magari citando Simone Cattaneo.
 
Antonio Lillo, L'innocenza del male, LietoColle, 2009

Vito Russo


"L'ombra della salute" di Alberto Pellegatta (anche su antonio-spagnuolo-poetry.blogspot.it)

Mondadori, attraverso il direttore editoriale Antonio Riccardi, ha deciso di salutare ogni anno la giornata mondiale della poesia (21 marzo) con la pubblicazione di voci emergenti nella collana Specchio, in una veste snella e a basso costo. Si tratta senz’altro di un’iniziativa interessante, trattandosi di una delle collane più prestigiose nel panorama dell’editoria poetica italiana, e che premia e legittima il lavoro non solo di giovani autori di qualità, ma anche di tanti piccoli e medi editori di settore che quotidianamente tastano il polso della poesia contemporanea.

Nel battesimo di questa iniziativa, spicca la raccolta “L’ombra della salute”, del trentatreenne milanese Alberto Pellegatta.
La prima qualità distintiva della poesia di Alberto Pellegatta è una profonda riconoscibilità formale, una compattezza linguistica che non cede a nessun eccesso verbale, a nessuna sbavatura strutturale, lessicale e sintattica, indice evidente di una maturità espressiva sorprendente. Costruiti facendo leva su una sintassi piana, netta, precisa, i suoi versi si imprimono facilmente nell’immaginario e nella memoria del lettore e ci restano a lungo, perché sono profondamente sensoriali, evocativi, perché si nutrono di accostamenti di immagini lontani dal linguaggio e dalle logiche del parlato, ma di derivazione quotidiana e naturalistica e di esito quasi onirico.
La poesia di Pellegatta, soprattutto nella prima e nella terza sezione della raccolta, racconta di una materia in continua evoluzione, o piuttosto dissoluzione verso particelle elementari. Senza scomodare l’abusata linea lombarda, risulta evidente in molti punti l’affinità con la poetica pulviscolare del milanese Maurizio Cucchi: “Il meccanismo, nell’insieme / è sferico, e musicale. Eppure è quantico / fragile e infinitesimale / nel dettaglio”. Il poeta assiste alla rovina e registra il disfacimento dell’esistenza senza atteggiamenti introspettivi, essendo egli stesso parte di una realtà fisica che si riduce a un minimo che diviene un tutto liquido, gelatinoso o gassoso, intangibile, indistinto, caotico (“Girandole di gas nel vuoto concavo / che ci contiene tutti. Non c’è nessun centro e l’orlo / si cuce su se stesso. Il tempo è spazio che si espande.”). Il suo occhio infatti – perché è la vista il senso dominante –, costantemente rivolto all’esterno, fotografa immagini tendenti al buio, al grigio, all’oscurità. Si tratta spesso di atmosfere urbane, di una Milano ovattata, che non dà punti di riferimento, che disorienta (“Non c’è nessuna casa. Andando avanti così / non ci saranno neanche i viali nei quadranti / le mani i nani i cani – le circonvallazioni.”), come se alla disgregazione materica e geografica verso il nulla corrispondesse una dissoluzione intellettuale, ontologica e, finanche, antropologica e sociologica.  
Non è difficile notare echi montaliane nella poetica di Pellegatta, evidenti se si considera ad esempio il tema del rapporto tra l’individuo e la morte, intesa come non-esistenza, o il frequente utilizzo delle negazioni (“Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.”), come nel testo forse più potente ed espressivo della silloge: “Chi separa e scarta secondo un progetto / crea esuberi incessanti. // Scriviamo senza calore / non ciò che avreste voluto / ma quello che non avete / pensato. Non per riscatto / ma per vendetta. // Non è mai / ciò che abbiamo scritto.”
Anche quando l’autore presenta atmosfere e toni più caldi e si abbandona all’abbraccio della relazione con un “tu”, il tema dominante resta quello del collasso, della rovina, del vuoto, da cui il poeta può solo suggerire la protezione, verso una salute latinamente intesa come salvezza: “La congiura vicino alle pagine, tosse / acqua, pesci, rane: difenditi dalla natura.”

Alberto Pellegatta, L'ombra della salute, Mondadori, 2011

Vito Russo

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"Pieghevole per pendolare precario" di Piero Simon Ostan
(anche su "Incroci n. 24")

Pieghevole per pendolare precario
, la seconda raccolta poetica del trentaduenne Piero Simon Ostan, si propone, fin dal suo titolo, come un ritratto umano e poetico di una generazione.
Col suo sguardo vispo e sociologicamente attento, rivolto agli eventi anche minimi della quotidianità e, lato sensu, a un mondo, a questo mondo, il poeta veneto gioca un ruolo attivo interrogandosi incessantemente sull’esistenza, senza atteggiamenti rinunciatari.
Il libro intero poggia le sue basi sulla compresenza di una forte aderenza al reale e ai suoi affanni, sentita come necessaria, e un anelito di vivace e orgogliosa speranza. Da questa fusione scaturisce l’energia morale ed espressiva che si fa materia viva. Se nel testo che apre la raccolta Simon Ostan si rivolge alla musa, affinché lo sostenga nell’atto poetico, affinché i versi siano “versi / che camminano sicuri / sulla corda / come equilibrista”, riconoscendo proprietà antidolorifiche, perfino immobilizzatrici e anestetiche alla letteratura (“immobilizzami tutti gli arti / mollami tutti gli acciacchi / ai lati della spina dorsale / con pomata poetica”), nella raccolta la poesia è strumento per raccontare di una generazione che, con dignità e ironia, non si rassegna alle teorie parassitarie dei bamboccioni e dei fannulloni, ma costruisce il futuro attraverso una commistione virtuosa tra un civile ancoramento al vero e una pur faticosa e spesso omologata progettualità privata: “i conti in tasca farseli / dei soldi racimolati / nel salvadanaio sotterrato / sperando germogli / prima o poi in un baleno / il momento propizio del mutuo, / risalga la china l’inflazione / cali il prezzo del mattone / si faccia matura la terra // si scrollino di dosso le mani / aggrappate sulla cotoa / dea mama”.
Le atmosfere domestiche non descrivono il semplice accumularsi di dati biografici, poiché l’autore è cosciente delle debolezze dell’individuo e consapevole che relazioni autentiche sfuggono a meccanismi pseudo-poetici, ma sono l’espediente per misurarsi con il concetto di alterità. Pur desiderando costruirsi una barriera protettiva, il poeta si immerge nel magma dell’esistenza, e l’impulso vitale ne esce rafforzato da un codice comportamentale e valoriale che tenta di ribaltarne il punto di vista: “proviamoci anche noi / a guardarlo / dall’altra parte / questo mondo”. Non è il tempo infatti per starsene “ad incorniciare tramonti / dalla finestra” se non durante una pausa caffè, perché “la tangenziale di mestre / ti imbottiglia per bene / in botti di ferro / fregandosene della luna”, eppure non si può non provare stoicamente a costruirsi una vita meno desolante, “provare a sfidarla / ogni tanto / una buona volta / tutta questa gravità”.
Anche lo stile letterario si nutre di questa dicotomia: se il tono dominante, soprattutto nella seconda parte del libro, è dimesso e scanzonato, e, a volte, con l’utilizzo di versi più lunghi, vicino alla prosa (“ti chiedo poi come sia andata la mia lettura / mi dici che è andata bene che ho poesie / collaudate, che sono sempre le stesse”), non mancano lampi di lirismo, e, soprattutto, emerge il ricorso alla tecnica espressiva di una giocosa ironia, in una sorta di sfida della parola al post-moderno: “infilarti in tangenziale / sulla corsia di sorpasso / a sfilare le macchine / con la linguaccia / in mostra”. Il lessico proviene prevalentemente dal parlato basso, e questo spiega il ricorso frequente a composti verbali e, soprattutto, nel mezzo dei singoli testi, a un dialetto a volte di matrice rurale, altre squisitamente quotidiano, come se il dialetto fosse al tempo stesso la lingua della memoria, del sogno, ma anche della fatica di vivere il presente. Così lo sguardo dell’autore si sofferma sugli aspetti autentici che la poesia vera sa cogliere. Questa commistione potrebbe far pensare ad un linguaggio viscerale, eppure ogni verso è accuratamente pesato, cesellato, misurato, per evitare strappi e forzature, ma senza asciugarlo del tutto fino al nulla, fino a renderlo fragile scheletro: ne resta infatti una polpa muscolosa, ispirata, parlante.

Piero Simon Ostan, Pieghevole per pendolare precario, Le voci della luna, 2011

Vito Russo

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"Bestie e dintorni" di Amos Mattio (anche su milanocultura.com e musicaos.it)
 
Amos Mattio è uno dei più promettenti poeti italiani della generazione dei nati negli anni Settanta. Cuneese di nascita e milanese di adozione, Mattio è segretario della Casa della Poesia di Milano, luogo in cui si anima il dibattito letterario contemporaneo nella Capitale del Nord, nell’affascinante cornice della Palazzina Liberty in largo Marinai d’Italia.
La sua prima raccolta di versi è Bestie e dintorni, edita da LietoColle.
Bestie e dintorni è una raccolta che spiazza, per la sua delicatezza ed eleganza, per la sua originalità nel panorama poetico degli ultimi anni. Sul piano espressivo il tratto più originale si realizza nella rottura della antinomia onirico/naturalista.
Mattio apre la silloge con un bestiario e prosegue forgiando i suoi versi nei campi notturni, nella pioggia, in un treno, su una giostra, come in un lungo sogno ininterrotto. Mattio ripercorre in parte la strada tracciata da Federigo Tozzi ed Ermanno Krumm, come evidenzia Maurizio Cucchi nella puntuale prefazione, e da Giampiero Neri, per citare un altro classico contemporaneo. Tuttavia la poesia di Mattio è malinconica, oseremmo dire decadente.
L’aggettivazione è abbondante ma puntuale, pronta a rilevare anche i più minimi dettagli. Ne è sintomo l’attenzione che l’autore rivolge ad esempio ai colori: “Le ali / perse nel cobalto richiamano / tinte irreali, rubino, / screziato vermiglio, e pallori / verdi di germogli, colori / d’estate e di fuoco”.
Il tema prevalente della raccolta è quindi il descrittivo, teso ad elaborare immagini crepuscolari, atmosfere ovattate, allusive, evocative, orfiche quasi; eppure non mancano momenti riflessivi, in cui però sono gli oggetti ad essere personificati (“Lo specchio […] mi guarda / pensoso, e feroce sorride”), a fare da contraltare allo sguardo osservatore del poeta, ai suoi “occhi / resi muti dal troppo dolore”.
Mattio quindi osserva il reale nel più minimo particolare, e lo descrive con la sua personale sensibilità, ma non indica un percorso univoco, non entra a gamba tesa nella pagina, estrae anzi lentamente la sua trama e la dona all’immaginario del lettore, non vuole travolgerlo, ma renderlo partecipe, accompagnarlo nell’interpretazione delle cose, della natura, degli oggetti, degli animali. È come se Mattio facesse della parola una patina tra sé e la realtà, e invitasse il lettore a scavarla delicatamente per cogliere il cuore dell’esistenza, e interpretarla a proprio piacimento, rielaborarla con occhi propri.
Dal punto di vista strettamente formale, Mattio utilizza un lessico piuttosto semplice in una struttura tradizionale, ma si segnalano scelte sintattiche coraggiose, che Mattio può permettersi per la padronanza stilistica che dimostra: costruzioni inusuali, ardite, lontane dal linguaggio parlato (“Sonnecchiava / l’aria tra i cuscini e viva / rideva ancora attraverso / timida la soglia), il ricorso a modi verbali indefiniti e a periodi senza principale, l’utilizzo molto frequente del soggetto dopo il predicato.
Il verso di Mattio resta comunque impeccabile, ben plasmato, non una sillaba è di troppo, ad indicare che è possibile usare la parola con precisione, con dedizione, come materia delicata che, come la luna, “china lo sguardo timida e accoglie / fugace un’altra anima e arrossisce”.
 
Amos Mattio, Bestie e dintorni, LietoColle, 2004

Vito Russo

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“L'appello della mano” di Lino Angiuli (anche su "Punto. Almanacco della poesia italiana. 2011 - 1" e musicaos.it)

Leggere un libro di Lino Angiuli significa farsi delle domande, ma significa anche trovare delle risposte alte, che centrano le questioni poetiche ed esistenziali dritte al cuore, senza comode scorciatoie.
L'appello della mano, il suo ultimo lavoro letterario, è un manifesto poetico, ma insieme morale e religioso.
Angiuli elabora il suo messaggio senza la minima concessione alla retorica letteraria tradizionale, senza assecondare nessun cliché, usando sempre l'ironia come fil rouge e strumento comunicativo privilegiato. Se questi elementi sono una costante nell'opera del poeta di Valenzano, sorprende, nell'ultima silloge, una tensione etica insperata per qualsiasi lettore che si cimenti e confronti con la poesia degli ultimi anni. Lontano da localismi, autoreferenzialismi, lirismi, relativismi, insomma, come lui stesso ama dire, da tutti gli -ismi mai concepiti, con L'appello della mano Angiuli fa un ulteriore salto di qualità sul piano dei contenuti, ma il racconto resta fresco, grazie alla vis ironica che ne è il tramite.
La poesia di Angiuli, lungi dal soffermarsi sulle miserie della contemporaneità con piagnistei altrove troppo presenti, e senza alcun indugio nel privato, tiene fermo il baricentro su una concezione collettiva dell'esistenza tutta. Lino Angiuli è un poeta che ha qualcosa da dire, e lo dice senza artifici, elaborando un umanesimo moderno, scevro da atteggiamenti nostalgici, nel quale tutto è al centro dell'attenzione del poeta.
Ne risulta un'unione carnale e insieme spirituale tra gli uomini, le stagioni, il mare, il Creato intero, in cui l'autenticità è ”intravedere il firmamento / buttarsi addosso a un lenzuolo di terra / per il forte desiderio d'accasarsi con l'argilla”. Anche la morte smette di essere uno spartiacque (“vivi o morti  che differenza fa?”). Nel panteismo angiuliano (“è una vita che mi giro di qui e di lì senza accorgermi / che tu stai dentro una boccata d'aria come a casa tua”), la materia si personalizza fino a spiritualizzarsi: “si alleggerisce il rimorchio delle ossa e / niente più siepe caro giacomoleopardi”.
Ancora una volta, e con maggiore evidenza rispetto alle raccolte precedenti, la silloge è incastonata in una struttura metrico-stilistica che rende omogeneo il discorso letterario, colonna portante di quello linguistico ed etico.
La tensione morale tocca il suo apice nelle orazioni settimanali della seconda sezione, di sette prose composte da sette mini-prose di sette versi ciascuna. Angiuli compone la sua dichiarazione programmatico-poetica: “Intanto io mi darò da fare per rispolverare una ad una / quelle invisibili parole da voi depositate nei saecula / saeculorum dentro l'umido cavo dell'orecchio buono / parole scasate dal vocabolario dove abitiamo adesso”.  Angiuli prosegue il suo percorso letterario teso a ridare dignità alle lingue non ufficiali. Stavolta però non usa il suo dialetto, ma sviluppa una lingua altra e universale, frutto di mille contaminazioni lessicali e sintattiche: notevoli sono latinismi, inglesismi, francesismi, ispanismi, germanismi, e persino slavismi e arabismi, ma, soprattutto, emerge l'utilizzo frequente di espressioni ricavate da un parlato basso di derivazione dialettale: verbi come screscere, acquacquagliare, scarvottare, scassare, trapanare, sdivacare, abbottare, scimunire, stipare, arricreare, o aggettivi e sostantivi come tiraturo, guantiera, arruzzinito, abituro, zoche, lastro, solo per citarne alcuni.
Il poeta è un giullare che registra le contraddizioni della contemporaneità, ma non si limita ad osservare e denunciare con sdegno, ad esprimere il suo j'accuse all'Occidente, né ad arroccarsi su posizioni teocentriche, poiché “mi chiedo ognittanto perché poi dovrebbe farlo lui / quando volendo potrei imparare benissimo da solo / ad assaggiare uno stozzo di fame da spartire con voi”.
Per Angiuli la poesia è quindi strumento comunicativo e morale insieme, utile ad unire ciò che appare (o si vuol far apparire) diviso dai mille fondamentalismi, valorizzando le specificità: “Tutto quello che volete ma non venitemi / a dire che giuseppe vale più di yussef / solo perché è spuntato qui anziché lì”.
Mai come ne L’appello della mano il senso diviene esplicito, manifestato senza esitazioni, e si capisce come ci sia una corrispondenza stretta tra significante e significato: così come il poeta abbatte qualsiasi barriera linguistica, lasciando intendere un superamento delle divisioni culturali (“mi pento e mi dolgo nella tua lingua se necessario”), allo stesso modo la sua poesia si fa testamento esistenziale e sociologico della memoria, degli affetti, fondato su una pietas non cristiana, ma squisitamente umana e universale, perché “adesso che il nespolo d'inverno non si usa più / dobbiamo rappezzarlo noi e ripiantarlo insieme”.

Lino Angiuli, L'appello della mano, Aragno Editore, 2010.

 Vito Russo

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Concerto de "Le luci della centrale elettrica" all'Arci Bellezza di Milano (anche su milanoweb.com)

Lunedì 17 marzo l’ARCI Bellezza di Milano ha ospitato una delle novità più interessanti del panorama musicale italiano. Le luci della centrale elettrica è lo pseudonimo di Vasco Brondi, cantautore ferrarese vincitore delle targa Tenco opera prima 2008 con il suo disco di esordio, Canzoni da spiaggia deturpata.
Le atmosfere cupe e graffianti del disco sono state esaltate dagli spazi angusti, che a stento contenevano i circa 200 presenti, dall’acustica, di conseguenza sacrificata, dal sudore dei presenti presto evaporato sulle pareti.
Tuttavia, anche chi non conosceva il disco ha apprezzato il sound impuro, le chitarre distorte, la voce che alternava toni ora urlati, ora delicati, l’originalità dei pezzi in cui il ritornello è quasi inesistente.
Le Canzoni da spiaggia deturpata sono il dolente e rabbioso grido di allarme di una generazione senza punti di riferimento (“cosa racconteremo ai figli che non avremo di questi cazzo di anni zero?”, oppure “sarà la prima volta che non andrò a votare, sarà la prima volta che non andrò a puttane”, o, ancora “rovistando tra i futuri più probabili, cerco solo futuri inverosimili”), in uno stile nuovo, poiché mescola generi e maestri apparentemente distanti: dal punk, al grunge urlato di Kurt Cobain, al rock dei CCCP, alla tendenza visionaria del primo De Gregori, all’irriverenza e allo stile destrutturato di Piero Ciampi e soprattutto di Rino Gaetano, omaggiato e citato in Nei garage a  Milano Nord. Vasco Brondi dà il meglio di sé nel lirismo dei testi, illuminati da potenti intuizioni da decadentismo urbano. Così il pubblico ha riassaporato atmosfere ottocentesche da spleen parigino, traslate nelle periferie emiliane e milanesi dei giorni nostri (“le istruzioni per abbracciarsi e per ballare negli scompartimenti delle metropolitane, sarà l’effetto serra il nostro carcere speciale, le fotocopie del cielo milanese, che Milano era veleno, che Milano era veleno, era un deserto al contrario un cielo notturno illuminato a giorno da stelle cianotiche”).
Durante il concerto ha alternato le canzoni del disco alla lettura di brani tratti dal suo blog .
Il pubblico ha così assistito stupito, incantato da una voce inaspettata, chiedendosi “Ma questo da dove sbuca?”.
Le luci della centrale elettrica vanno riascoltate in ambienti con un’acustica all’altezza, e tuttavia l’iniziativa del Bellezza va senz’altro apprezzata e incoraggiata. Non capita tutti i giorni a Milano, di ascoltare buona musica a prezzi bassi.
Perché Vasco Brondi è semplicemente un cantautore come non se ne ascoltavano da tempo.
 
Vito Russo

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“Polvere del bene” di Giacomo Leronni

Giacomo Leronni è al suo esordio editoriale in raccolta, eppure i testi di Polvere del bene sono densi di una ricchezza espressiva mai scontata. In realtà Leronni ha all’attivo diversi interventi su riviste poetiche, per cui è al tempo stesso esordiente e veterano. I versi della silloge però, pur lasciando trasparire i suoi dichiarati riferimenti letterari, sono carichi di leggerezza, o meglio, di freschezza, delicatezza, originalità stilistica e genuinità contenutistica, etica, oserei dire.
Ho incontrato Giacomo più di una volta, qualche anno fa, ma non posso certo dire di conoscerlo, eppure Polvere del bene mi ha restituito con la massima fedeltà, i tratti della sua personalità che avevo colto. La sua poesia è discreta, umile, non urla, attinge al silenzio, all’osservazione, senza per questo rintanarsi nell’intimismo puro. Mi pare che la raccolta denoti la massima fedeltà tra scrivente e scrittore. È questa la peculiarità, a mio avviso, di Polvere del bene.
Leronni è poeta discreto, sì, ma non rinuncia a considerare la scrittura poetica come strumento di riflessione corale, di confronto, di dialogo storico-civile: “[…] Non è il momento / degli abiti puri, della legna / serbata con cura per il fuoco. / Fra mura precarie / il sisma dei gesti / esalta l’inconsistenza. / Avvizzisce la mente: / dimora restia / parola azzardata / la meno clemente”. Lo sguardo del poeta non indugia a lungo su se stesso, Giacomo montalianamente non promette “la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro informe, […] la formula che mondi possa aprirti”, anzi, del suo messaggio dichiara umilmente che “farà poca fatica chi l’incontra / meno ci vorrà a dimenticarlo / - il deserto ne copre già la fonte - / meno di quanto costa, certo, / perlustrare a vuoto l’orizzonte”. Giacomo prende atto del ruolo che il poeta può ancora ricoprire nell’era della globalizzazione, un ruolo marginale, non certo un modello, un eroe, né un punto di riferimento, poiché il poeta è parte delle dinamiche complesse della modernità, e non può certo tracciare percorsi da seguire. Sono altre le sfide del poeta-uomo, e per affrontarle è necessario osservare il mondo “con parole d’oro e piuma”, portare la propria visuale oltre gli individualismi, verso l’orizzonte. È questa la vera sfida del poeta, dell’uomo moderno. La parola poetica, semmai, conserva intatta la sua forza anestetica, è strumento per prendere coscienza di sé e del dolore: “Scrivi se ti dispensa il viaggio / dalla tela della menzogna / scuoti la notte cava / del dubbio, del dolore. / Scrivi, inchioda l’inverno / al suo rancore, fora la bolla / d’amarezza, dilapida lo scherno, / […] abbandonati alla corrente: / scrivi almeno tu, frenetico / la mirabile vita assente”. Scrivere è sinonimo di osservare, comprendere: “La comprensione conduce / a sentieri sbilenchi / e per ricavarne farina / devi fidarti del sommerso / della china. Frugando / talvolta scopri sterpi, insetti / rivoltanti, spine: un terreno / incolto produce comunque / come fa la frase quando giunge / allo snodo del perché e del dunque”. L’atto della scrittura diviene quindi un gesto naturale, materiale, fisiologico: “I miei archivi contengono / il pane: pane sono le carte / e quando scrivo impiego / le lingue del nutrimento”.  
Giacomo attinge ad elementi paesaggistici, come il vento, la notte, il mare, l’orizzonte, la piazza, la campagna, ma anche domestici, e perfino sociologici, per tessere la trama dei suoi versi in un quadro insieme realistico e onirico, come in questa lirica, una delle più compiute, a mio avviso, della raccolta: “Qui un libro, là un cestino / più oltre un vaso che trasuda pace. / La volta della stanza / lusinga l’occhio e fuori persevera / l’odissea del buio. / Sei disteso sul letto. Intorno / la scrittura allinea i nomi // l’orologio preme sulla polvere / la incalza. Puoi invogliare l’ombra / blandirla. Indossi il pigiama: / la stoffa si impiglia, cede. / Spunta dal tessuto un viso non tuo / un involto di carne che la notte / non ha deriso”.
Dal punto di vista tecnico-stilistico, Polvere del bene non è certo un libro semplice, ma non eccede mai in tentazioni barocche, altezzose ed elitarie. Versi liberi, intervallati qua e là da notevoli endecasillabi puri (uno su tutti: “liberare nel sangue la consegna”), originali associazioni lessicali, alcune rime, mai scontate, assonanze e consonanze, sono gli strumenti utilizzati da Giacomo per non appiattire mai la narrazione, per restituire una musicalità e una dimensione lirica piuttosto alta al discorso poetico. Anche la sintassi, caratterizzata da un uso originale della punteggiatura e dal ricorso frequente a periodi senza predicato, esula spesso dal linguaggio comune.
La corporeità è tema centrale in tutta la raccolta - gli occhi ne sono l’emblema - ma è sempre sfumata  in una lotta con elementi spirituali: “Occhi, fioriti nella memoria / fino alla grazia insonne / occhi che il pulviscolo risana / vene solcate dall’aridità: / in giorni come questo / il corpo può arrischiare / finché non lo dissolve la coscienza”.
Spesso Giacomo presenta immagini ovattate, prive di margini netti e ben definiti, cariche invece di dissolvenze, di gesti delicati, morbidi, corrispondenti all’etica del silenzio, dell’ascolto: “[…] Le case dileguano nella nebbia / tutto sembra arreso: occhi / ragione, confini. / È il primo giorno, la prima volta: / il silenzio inizia la raccolta”. 
Non mancano intensi momenti di abbandono amoroso, altra impetuosa chiave di salvezza, assieme alla scrittura, momento in cui la lotta corpo-spirito si scioglie in un abbraccio: “La vena sacrilega dell’amore / pulsa sulla tela del raggiro: / ti resto fedele oltre il morso / acconsento alla stretta che divora”.
Sempre nel solco dell’antinomia materia-antimateria, si chiude la raccolta, con una lirica esemplare nel trasmettere il messaggio cardine di Polvere del bene, un messaggio di ascolto, disincanto, di fede nella scrittura, ma anche umanità, amicizia: “Nella penombra del bene / quando il corpo tergiversa / e cede la fitta del pensiero / giungi all’osso della comunione. / La voce ricalca il desiderio / che hai visto vivere, temere: / una bellezza esiste / gli amici garantiscono per te”.

Giacomo Leronni, Polvere del bene, Manni, 2008. 

Vito Russo

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“Un giorno l’altro” di Lino Angiuli
(anche su musicaos.it)

Ho riletto l’ultimo libro di Lino Angiuli, Un Giorno l’altro, in una sala d’aspetto di ospedale. L’ho riletto con gusto, con una voracità divertita e quasi infantile, col sorriso stampato in faccia,  sotto gli sguardi indiscreti dei miei compagni d’attesa.
Perché mi pare che la prima qualità che balza agli occhi leggendo i versi di Angiuli, sia l’ironia. Quell’ironia che spesso manca ai poeti “appesantiti”. L’ironia che gli fa scrivere nel suo dialetto “… allore da’ / pigghie u sacche e la sporte amiche mi’ / ca ‘nge ne sciame ‘nzìeme tutteddu’ / a ccogghie qualche ottobre de razze”.
Angiuli è convinto della forza terapeutica della parola poetica, è evidente. Nei versi di questa raccolta è quasi totalmente assente la punteggiatura. La sintassi del linguaggio accademico, ufficiale, giornalistico, va a farsi benedire. Anche il lessico è lontano dai modelli poetici più scontati, eppure il poeta Lino Angiuli non rinuncia mai alla comunicazione. Sceglie le sue parole in una cucina, in un orto, in un armadio impolverato, eppure sa accarezzarle con dolcezza, restituendo alle stesse dignità non solo letteraria ma umana anche. E lo fa con una mirabile consapevolezza poetica, mai manieristica. Ma soprattutto, lo fa con sincerità.
Angiuli non bara, non finge.
Egli recupera un codice etico personale fatto insieme di solitudine e amicizia, perché “insieme si può fare molto / ma sopra tutto uno per uno”. Nella campagna trova lo spazio ideale, tra una margherita, limpidi rosoli, una ventata di scirocco e una quercia da guardare in faccia ad occhi chiusi, “fino a sentirsi quercia o almeno ghianda / eccola la ricetta per scasare dal cerchio” perché “intorno alla città si gonfia / l’anello degli scarti umani / è un horror vacui quotidiano // che plastiche non colmeranno / barattoli non riempiranno / e stelle non imbianchiranno”.
I versi di Angiuli sanno farsi quindi anche poesia civile: “Intanto il capitale impera / coi suoi monili luccicanti / che ficcano le mani in tasca // nelle città delle vetrine / le rose fingono profumi / malgrado gli undicisettembre // la banconota è sull’altare / tra grigi incensi i sacerdoti / compiono sacrifici umani”.
Le prima sezione della silloge è intitolata “Puntini puntini”. Ogni poesia si apre e si chiude con i punti di sospensione, a significare che i versi attraversano un unicum di suggestioni e sentimenti. Nella sezione sono presenti componimenti in lingua e nel dialetto di Valenzano, il paese natale del poeta. Ma il lettore si immerge e non ne coglie il distacco linguistico, così come capita a chi ascolta Angiuli leggere i suoi versi. Il poeta opera abilmente una mescolanza di scelte linguistiche, lessicali, contenutistiche, ontologiche. Resta ancorato al suo retroterra culturale e territoriale, per capire meglio le dinamiche e le strutture globalizzanti. Ma non ne resta spiazzato, è pronto al confronto, all’incrocio tra diverse identità: contadina, poetica, globale appunto: “ma io tengo un piede incollato al tempo / e l’altro altrove per fortuna / menomale così posso spassarmela / presso le botteghe del maestrale”.
La seconda sezione (“Pensieri di donna”) presenta un inventario di personaggi letterari femminili che, attraverso Beatrice, Chiara, Dulcinea, Felicita, Francesca, Ginevra, Isotta, Laura, Silvia, raggiungono il culmine lirico-ironico in Maria. Una Maria cantata dantescamente: “Ma chi me li dà e dove li cerco io / gli alfabeti giusti” […] per “Una che accumula i titoli da indossare / lungo la processione di lunghissimi rosari / (esempio: delle Grazie della Neve / d’Altomare della Scala della Fonte / della Grotta del Buoncammino della Madia / magari pure del Cappero o della Melacotta)? // […] Diamoci dunque del tu Maria / madre sorella e moglie del mio più bel fratello / […] voglio solo chiamarti Maria aggiungendo / al limite / magari / quasi / diciamo / un mezzo cosissia”. Sembra di imbattersi in una religione laica, pagana, rivelata, monoteista e panteista insieme, che eleva e redime.
La terza sezione dà il titolo all’intera raccolta (“Un giorno l’altro”). Il primo verso di ogni poesia comincia con “Mi faccio…”, seguito da un sostantivo, e termina con “come dico io”. Angiuli costruisce la sua personale visione delle cose partendo sempre dalla quotidianità. La poesia gli consente di farsi un mondo a suo piacimento e riscattare il dolore. È evidente la fiducia salvifica dell’autore nella parola, attraverso la quale è possibile “scegliere dal mazzo delle chiavi quella giusta / per aprire l’acqua senza farle male”. Il corpo assume quindi rilevanza religiosa per mezzo della parola, così il poeta può dire “mi faccio un giorno l’altro come dico io / mi faccio una rima che finisca in dio”.
La quarta e ultima sezione (“Novene”) si compone di liriche di uguale struttura metrica: tre terzine di tre novenari. Tutte cominciano col medesimo incipit: un avverbio col prefisso in-. È questa la sezione esplicitamente e chiaramente più impegnata. Il poeta tesse la sua trama poetico-morale senza mai cedere al distacco e al disincanto, perché è vero che “Intanto il sangue degli agnelli / continua a imbrattare i giornali / e cola dai televisori”, e “Invece la solitudine è / capace di parlarti in faccia / quando non puoi scansarne l’occhio” ma è possibile “magari nascere di nuovo / come dal cardo il carboncello / o dal letame il cicorione”, e “Inoltre ciò che conta è l’alba” mentre “l’acacia si stropiccia gli occhi / che faccio che non faccio pensa / ma in petto già cova germogli”. Il racconto di Angiuli parla di materia che va fuori da sé per farsi spirito ed elevarsi in nome e per mezzo della poesia, dove vuole una poesia intesa “come un raschio luminoso / sul volto opaco del gran buio”.

Lino Angiuli, Un giorno l’altro, Aragno editore, 2005.

 Vito Russo

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