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INDICE: Libri: "Il gesto di Ettore" di Luigi Zoja Mostre: Piero Manzoni a Milano, gli Achromes Libri: "Mnemosyne" di Michele Montorfano Libri: "Il chiarore" di Carla Saracino Libri: "Introduzione al mondo" di Idolo Hoxhvogli Libri: "L'innocenza del male" di Antonio Lillo Libri: "L'ombra della salute" di Alberto Pellegatta Libri: "Pieghevole per pendolare precario" di Piero Simon Ostan Libri: "Bestie e dintorni" di Amos Mattio Libri: "L'appello della mano" di Lino Angiuli Concerti: "Le luci della centrale elettrica" all'Arci Bellezza di Milano Libri: "Polvere del bene" di Giacomo Leronni Libri: "Un giorno l'altro" di Lino Angiuli "Il gesto di Ettore" di Luigi Zoja (anche su maintenant1.wix.com/maintenantmensile) Nel saggio “Il gesto di Ettore” lo psicologo junghiano Luigi Zoja,
traccia il percorso antropologico, sociologico e soprattutto psicologico che
l’idea del padre ha seguito nel corso della storia dell’umanità, in particolare
nella cultura occidentale. Vito Russo "Achromes" di Piero Manzoni a Palazzo Reale a Milano (anche su maintenant1.wix.com/maintenantmensile)
Vito Russo
Torna all'indice "Mnmosyne" di Michele Montorfano (anche su lestroverso.it) Michele Montorfano ha da poco esordito con Mnemosyne,
una silloge non facilmente penetrabile nel suo senso più
profondo. Per cui, parafrasando Montale, è utile iniziare
l’analisi chiarendo innanzitutto cosa questo libro non è. Certamente Mnemosyne (Lietocolle,
2013) non è un libro storico, sebbene tutta la prima sezione del
libro, che è la più corposa, ruoti attorno a un evento
storico preciso come l’olocausto nazista. Il titolo stesso della
raccolta (memoria in greco), potrebbe trarre in inganno il lettore meno avveduto. E
non si tratta nemmeno di un libro di cosiddetta “poesia
civile”, cosa che risulterebbe stucchevole e fuori tempo, a 70
anni dagli episodi a cui fa riferimento. L’autore
non è mosso da intenti storiografici né tanto meno
didattici o pedagogici, ma certamente Montorfano ha qualcosa da dire, e
lo fa usando il pretesto della storia e della scienza, lo fa usando lo
strumento espressivo dell’allegoria.Mnemosyne è un libro
che parla in realtà del bene e del male, e per farlo porta
questi concetti al loro apice, utilizzando l’episodio storico che
nell’immaginario collettivo comune è simbolo indiscutibile
di atrocità, un evento in cui le idee stesse di humanitas e pietas sono completamente saltate. La
descrizione degli esperimenti medici ed eugenetici nazisti è
condotta con distacco e freddezza, con uno stile a tratti addirittura
documentaristico, utilizzando un lessico medico-scientifico. Non a caso
domina l’ipermetro, la spersonalizzazione, un andamento
sintattico nominativo, la paratassi. Mario Santagostini nella
prefazione ha definito anti-letteraria la lingua di questo libro.
È vero che l’autore utilizza un lessico che non aderisce
alle tradizioni poetiche più codificate, soprattutto nella prima
sezione, ma quello stesso lessico viene alzato a livelli di invenzione
linguistica davvero notevoli. L’uso che Montorfano fa di certi
ossimori, di certi accostamenti di immagini, della metafora, contrasta
con il lessico, e produce delle rotture violente e delle lacerazioni
visive nell’immaginazione del lettore. Sono possibili almeno due accostamenti con la poesia italiana più recente: Macello di Ivano Ferrari e Guerra di
Franco Buffoni. Abbiamo in Mnemosyne la stessa analisi del crudele, del
macabro, lo stesso orrore per la materia corrotta che c’è
in questi libri. Tuttavia Ferrari vuole esibire la morte, descrivere le
leggi violente della sopraffazione, lo stile di Buffoni è
più narrativo, Guerra è un libro più corposo e dai molteplici registri, attraverso i quali l’io interviene con slanci morali. L’intento
di Montorfano non è soltanto descrittivo, ma nemmeno moralistico
nel senso comune del termine. Con questa raccolta compatta
l’autore vuole dirci che siamo tutti coinvolti, che la linea di
demarcazione tra il bene e il male non esiste, che non ci sono i buoni
e i cattivi. E questo spiega il tono di freddezza e distacco: se
l’assenza di giudizio deve essere veicolata al lettore, deve per
prima cosa essere praticata con la parola. Ecco come la pedagogia di
Montorfano è l’assenza di pedagogia: si potrà
invece parlare di a-morale o di morale negativa, di pedagogia negativa. La
prima sezione del libro è una ripetizione ossessiva e fredda del
dolore e dell’orrore dei lager. Montorfano non si limita a
rappresentare lucidamente il male, ma inserisce nella rappresentazione
anche il soggetto, o, meglio, i soggetti. E lo fa confondendoli: le
vittime e i carnefici si mescolano continuamente, – non a caso
domina la terza persona – fino a quando l’io lirico
interviene in alcuni misurati passaggi: “Io scrivo i nomi degli
orchi accanto a quelli dei santi”. Questi
versi ricordano i versi di un poeta diversissimo da Montorfano, la cui
vicenda è a dir poco singolare nel panorama poetico italiano del
Novecento, ed è Giorgio Caproni. In Res Amissa,
Caproni si interrogava sul concetto di ambiguità, e si chiedeva:
“Se non sono ladrone / o omicida, forse / è soltanto
perché / non ne ho avuto occasione?”. Giorgio
Caproni non ha avuto epigoni. Montorfano ha dei riferimenti e maestri
letterari forti (i greci e i francesi, soprattutto), ma appare evidente
come Montorfano non sia epigono di nessuno. Mentre gran parte della
poesia che si scrive in Italia negli ultimi anni si muove in spazi
ristrettissimi, ruota attorno al concetto di vuoto, materiale, morale,
spesso biografico, o quanto meno esistenziale, raggiungendo in alcuni
casi delle vette notevoli, la poesia di Michele Montorfano è
invece animata da un’ansia e da una tensione comunicativa
fortissima, che lo porta invece a rischiare e a volare alto. Una
tensione comunicativa che si nutre anche di strappi visionari, al
limite orfici, a mediare la lettura, ma che pervade la raccolta tutta. Nell’ultima sezione, intitolata Distruzione e salita di Lilith, la volontà di dire dell’autore tocca il suo apice. Questa
volta Montorfano non utilizza riferimenti storici ma una figura
mitico-religiosa. Nelle antiche religioni mesopotamiche e ebraiche
Lilith è una figura femminile demoniaca, caratterizzata dagli
stereotipi diabolici della femminilità: adulterio, stregoneria,
lussuria, malattia. Il
riferimento – che è già nel titolo – alla
distruzione e alla salita di Lilith svela ancora una volta il piano di
scivolosa ambiguità che l’autore intende attraversare con
il lettore. Qui l’io lirico interviene attraverso il personaggio
tragico nella narrazione (non a caso si utilizza il termine narrazione,
perché qui il verso si allunga fino a divenire prosa), un
personaggio che è voce e simbolo di perdita, impotenza,
solitudine. Ma Michele Montorfano sembra dire che solo attraversando il
buio e cadendoci dentro possiamo trovare la luce e la parola:
“Questo è lo scheletro troncato. / Questa è la mia
lingua che entra in te, che ti svilisce fino all’indole. /
Costruisci un verso come il resto di un incendio.”
Mnmosyne, Michele Montorfano, Lietocolle, 2013 Vito Russo Torna all'indice "Il chiarore" di Carla Saracino (anche su incrocionline.wordpress.com) “Il
chiarore”, la seconda raccolta poetica della pugliese Carla Saracino, si
interroga sul significato e sulla percezione della vita e della morte, entità
mescolate e insieme presenti nel reale, difficilmente conoscibili come distinte. Carla Saracino, Il chiarore, LietoColle, 2013
Vito
Russo Torna all'indice “Introduzione al mondo” di Idolo Hoxhvogli La prima domanda
che ci si pone leggendo “Introduzione al mondo”, libro d’esordio del
ventottenne Idolo Hoxhvogli, è una domanda di stile. Siamo di fronte ad un
romanzo destrutturato, a delle prose parapoetiche, ad un pamphlet filosofico, sociologico, politico?
In realtà la prova dell’autore milanese di origini albanesi, ha una sua struttura contenutistica e formale consapevole, ma sembra volutamente sfuggire a facili etichettature di genere, e questo non è un male, anzi, è la ragione che rende quanto meno suggestivo e accattivante il libro e, come vedremo, è anche una scelta etica dell’autore. Non si tratta di un romanzo o di racconti, nella concezione classica, poiché se esiste una struttura narrativa, questa procede a singhiozzi. Si tratta invece di frammenti narrativi, che mantengono una loro organicità strutturale d’insieme. Sembra essere piuttosto lontano anche dalla prosa poetica, poiché ne mancano certe suggestioni, manca il gusto sacro della parola e l’intenzione poetica, e se consideriamo ad esempio una definizione di poesia di Giovanni Raboni (secondo cui “La poesia non è né uno stato d’animo a priori né una condizione di privilegio, né una realtà a parte né una realtà migliore. È un linguaggio: un linguaggio diverso da quello che usiamo per comunicare nella vita quotidiana e di gran lunga più ricco, più completo, più compiutamente umano; un linguaggio al tempo stesso accuratamente premeditato e profondamente involontario, capace di connettere fra loro le cose che si vedono e quelle che non si vedono, di mettere in relazione ciò che sappiamo con ciò che non sappiamo.”), non c’è nulla di profondamente involontario in questa Introduzione al mondo, anzi l’obiettivo dell’autore è forse quello di ordinare coscientemente il caos, a partire da una circoscrizione del male che lo genera, di prenderne coscienza con metodo profondamente intellettualistico. Se si sfoglia il Devoto-Oli, il pamphlet è considerato semplicemente uno “scritto di carattere polemico o satirico”. Eppure questo non è solo un pamphlet, e sembra mancare anche l’intenzione del saggio. È presente piuttosto una certa omogeneità narrativa di carattere fiabesco e soprattutto allegorico, a tratti addirittura tecnico-scientifico. Ecco che l’originalità letteraria di Hoxhvogli sta tutta nello stile. Poiché ci sembra che lo spessore letterario superi quello filosofico. Si tratta infatti di un libro ostico, ma senz’altro molto ben scritto, con lucida visionarietà. È una lettura che si inceppa, e al cui termine si ha l’impressione di aver preso un feroce cazzotto in faccia. Perché forse è davvero la ferocia ad essere il filo conduttore del libro. Una ferocia e una rabbia indirizzate verso il mondo intero, e verso il lettore, che del mondo e del caos è elemento partecipante più o meno consapevole, incapace tuttavia di cogliere quella stessa ferocia che si annida nei rapporti sociali. Una serie di allegorie morali si susseguono, e qui al termine morale si vuole restituire il candore e l’autenticità che dovrebbero essergli propri. Quel candore e quell’autenticità assenti nella società descritta, che l’autore, senza furbizia, ma anzi forse peccando di ingenuità contenutistica (la pars destruens è infatti ossessivamente prevalente su quella construens), analizza impietosamente e ci restituisce spogliandola di borghesi ipocrisie. È l’ipocrisia infatti che nella prima parte del libro governa “La città dell’allegria”, in cui domina la paura dello straniero, la paura della solitudine, tanto che la collettività ha deciso di impiantare degli altoparlanti che urlino perennemente la parola “Allegria”, e chi si oppone a tale stato di cose è “democraticamente” e formalmente respinto perché elemento di minoranza. Si tratta della riproposizione immaginifica dell’imbambolimento collettivo e dell’afasia a cui la società di massa e videocratica ci sottopone nel chiuso dei nostri salotti. Nella seconda parte (“Civiltà della conversazione”) l’autore si scaglia invece contro l’industria dell’editoria e dell’informazione, pretesto per attaccare ancora il mondo globalizzato tutto, con le sue etichette, i suoi qualunquismi, quel mondo in cui “nove mesi dopo aver fatto l’amore, nascono cadaveri” che hanno sostituito i bisogni primari del corpo, con il bisogno delirante di vivere il mercato e la finanza mandando “a spasso derivati e obbligazioni”, investendo “in cimiteri e armi da fuoco”. Anche Dio è impotente, i valori di cui è portatore sono maceri come il legno della sua croce, poiché l’ingiustizia ne ha spento l’ardore. Anche Dio sembra vittima dell’assopimento che ha travolto gli uomini, così in un clima surreale che ricorda “Il signore delle Mosche” di William Golding, il porco economico, il porco politico, il porco stupratore, il porco pedofilo, sono “senza redenzione”. La “Fiaba per adulti” che conclude il libro, è l’introduzione al mondo della bambina Allegra, che, con le mestruazioni, conosce la crudeltà, l’inganno. La strada preparata dagli adulti è fatta di ciottoli che “le rimbalzano dentro”, come se il male, da elemento esterno all’uomo, sia diventato – per dirla alla Pasolini - antropologicamente endogeno alla natura umana. Idolo Hoxhvogli, Introduzione al mondo, Scepsi & Mattana editori, 2011 Vito Russo
Torna all'indice "L'innocenza del male" di Antonio Lillo (anche su antonio-spagnuolo-poetry.blogspot.it) Alcuni libri maturano col tempo nella percezione del
lettore. Capita anche quando con l’autore, tra i saliscendi della Valle
d’Itria, si è percorso un bel pezzo di strada, con la lentezza che la poesia e
l’amicizia meritano.
Ho riletto di recente “L’innocenza del male” di Antonio Lillo, edito da Lietocolle nel 2009. Lillo è un poeta non laureato, per dirla alla Montale, ma è anche un poeta che utilizza i mezzi espressivi dei maestri del secondo Novecento con impeccabile padronanza. Operazione condotta con consapevolezza e sfacciataggine, come quando ad esempio Lillo rivela il rapporto con la poetica di Vittorio Sereni, soprattutto. Ma sono tanti i contatti “nobili”, espliciti e non, come con Pasolini, Fortini, Penna, Pagliarani, lo stesso Montale e la cosiddetta Linea Lombarda. Nel solco di questa tradizione, accade che i sentimenti, nominati, prendano invece la forma immaginifica del verso, come la sofferenza, che, “caricandosi, s’aggruma a tappo in gola”. È come se il reale, attraverso l’azione, e, soprattutto, attraverso la parola, e grazie alla parola, prenda realmente corpo, al punto da pensare che prima della parola ci sia solo il nulla. Così l’amore “si / presenta tuo durante il bacio / in ascensore. Poi sparisce all’ora di / sciacquare / i peli caduti sul fondo della doccia”. Pare essere questa la conclusione umana e poetica del poeta di Locorotondo: “E se / la poesia la politica il semplice fare / non fossero altro che un esserci in fondo?” È il movimento delle cose, degli oggetti, degli animali prima che delle persone, l’azione insomma, che rivela l’esistenza, come il semplice incresparsi della carta, o la fuga terribile di un ratto che scava gallerie dentro il corpo, e al poeta non resta che cercare di lasciare un’impronta nell’altro. In fondo, l’azione poetica, atto solitario, rivive solo nel momento in cui stabilisce un contatto con l’altro. Lillo è infatti anche un poeta narcisista, che si compiace del suo modus vivendi et scribendi, ma al tempo stesso ha l’umiltà di non prendersi troppo sul serio, come quando semplicemente scrive “Forse mi do troppa importanza”. Se il soggetto dominante infatti è l’io, non mancano molte forme impersonali, e soprattutto, spesso sono gli animali (ratti, cani, gatti, anitre, canarini, pesci), le piante, o altre volte anonimi vicini di casa, o pescatori, o clandestini, a occupare cinematograficamente la scena poetica. Sul piano del predicato invece, è frequente l’uso dell’imperfetto o del passato remoto, ma pare trattarsi solo di un espediente stilistico o retorico, perché domina appunto l’azione, lenta, lentissima, ma continua, sulla stasi, quasi che il poeta viva un eterno presente, tempo per attualizzare il passato e immaginare il dispiegarsi del futuro. Lo spazio in cui il fare, la vita, trionfano, è la provincia, con la sua incantevole distanza e indifferenza dal e al potere, e questo spiega anche l’uso frammentario di un dialetto che dà voce a personaggi buffi ed eroici, come nel cinema felliniano: un poeta che suona nella banda ai funerali, o il soggetto stesso che si ritrova chiuso in un portone assolato ad aspettare un amico e il mondo intero. “L’innocenza del male” è un libro che, nella sua ricercata disomogeneità, si rivela in continuo movimento, in costante tensione estetica e umana, a significare un crescente, incontenibile, innamoramento per la vita: “balliamo sgraziati / da lento fuoco / abbracciati”. Ma se qualcuno chiedesse all’autore il motivo per cui scrive, Lillo, col suo cinico romanticismo, risponderebbe che conta solo di conquistare qualche bella ragazza, magari citando Simone Cattaneo. Antonio Lillo, L'innocenza del male, LietoColle, 2009 Vito Russo
"L'ombra della salute" di Alberto Pellegatta (anche su antonio-spagnuolo-poetry.blogspot.it)
Mondadori, attraverso il direttore editoriale Antonio Riccardi, ha deciso di salutare ogni anno la giornata mondiale della poesia (21 marzo) con la pubblicazione di voci emergenti nella collana Specchio, in una veste snella e a basso costo. Si tratta senz’altro di un’iniziativa interessante, trattandosi di una delle collane più prestigiose nel panorama dell’editoria poetica italiana, e che premia e legittima il lavoro non solo di giovani autori di qualità, ma anche di tanti piccoli e medi editori di settore che quotidianamente tastano il polso della poesia contemporanea. Nel battesimo di questa iniziativa, spicca la raccolta “L’ombra della salute”, del trentatreenne milanese Alberto Pellegatta. La prima qualità distintiva della poesia di Alberto Pellegatta è una profonda riconoscibilità formale, una compattezza linguistica che non cede a nessun eccesso verbale, a nessuna sbavatura strutturale, lessicale e sintattica, indice evidente di una maturità espressiva sorprendente. Costruiti facendo leva su una sintassi piana, netta, precisa, i suoi versi si imprimono facilmente nell’immaginario e nella memoria del lettore e ci restano a lungo, perché sono profondamente sensoriali, evocativi, perché si nutrono di accostamenti di immagini lontani dal linguaggio e dalle logiche del parlato, ma di derivazione quotidiana e naturalistica e di esito quasi onirico. La poesia di Pellegatta, soprattutto nella prima e nella terza sezione della raccolta, racconta di una materia in continua evoluzione, o piuttosto dissoluzione verso particelle elementari. Senza scomodare l’abusata linea lombarda, risulta evidente in molti punti l’affinità con la poetica pulviscolare del milanese Maurizio Cucchi: “Il meccanismo, nell’insieme / è sferico, e musicale. Eppure è quantico / fragile e infinitesimale / nel dettaglio”. Il poeta assiste alla rovina e registra il disfacimento dell’esistenza senza atteggiamenti introspettivi, essendo egli stesso parte di una realtà fisica che si riduce a un minimo che diviene un tutto liquido, gelatinoso o gassoso, intangibile, indistinto, caotico (“Girandole di gas nel vuoto concavo / che ci contiene tutti. Non c’è nessun centro e l’orlo / si cuce su se stesso. Il tempo è spazio che si espande.”). Il suo occhio infatti – perché è la vista il senso dominante –, costantemente rivolto all’esterno, fotografa immagini tendenti al buio, al grigio, all’oscurità. Si tratta spesso di atmosfere urbane, di una Milano ovattata, che non dà punti di riferimento, che disorienta (“Non c’è nessuna casa. Andando avanti così / non ci saranno neanche i viali nei quadranti / le mani i nani i cani – le circonvallazioni.”), come se alla disgregazione materica e geografica verso il nulla corrispondesse una dissoluzione intellettuale, ontologica e, finanche, antropologica e sociologica. Non è difficile notare echi montaliane nella poetica di Pellegatta, evidenti se si considera ad esempio il tema del rapporto tra l’individuo e la morte, intesa come non-esistenza, o il frequente utilizzo delle negazioni (“Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.”), come nel testo forse più potente ed espressivo della silloge: “Chi separa e scarta secondo un progetto / crea esuberi incessanti. // Scriviamo senza calore / non ciò che avreste voluto / ma quello che non avete / pensato. Non per riscatto / ma per vendetta. // Non è mai / ciò che abbiamo scritto.” Anche quando l’autore presenta atmosfere e toni più caldi e si abbandona all’abbraccio della relazione con un “tu”, il tema dominante resta quello del collasso, della rovina, del vuoto, da cui il poeta può solo suggerire la protezione, verso una salute latinamente intesa come salvezza: “La congiura vicino alle pagine, tosse / acqua, pesci, rane: difenditi dalla natura.” Alberto Pellegatta, L'ombra della salute, Mondadori, 2011 Vito Russo
Torna all'indice "Pieghevole per pendolare precario" di Piero Simon Ostan (anche su "Incroci n. 24") Pieghevole per pendolare precario, la seconda raccolta poetica del trentaduenne Piero Simon Ostan, si propone, fin dal suo titolo, come un ritratto umano e poetico di una generazione. Col suo sguardo vispo e sociologicamente attento, rivolto agli eventi anche minimi della quotidianità e, lato sensu, a un mondo, a questo mondo, il poeta veneto gioca un ruolo attivo interrogandosi incessantemente sull’esistenza, senza atteggiamenti rinunciatari. Il libro intero poggia le sue basi sulla compresenza di una forte aderenza al reale e ai suoi affanni, sentita come necessaria, e un anelito di vivace e orgogliosa speranza. Da questa fusione scaturisce l’energia morale ed espressiva che si fa materia viva. Se nel testo che apre la raccolta Simon Ostan si rivolge alla musa, affinché lo sostenga nell’atto poetico, affinché i versi siano “versi / che camminano sicuri / sulla corda / come equilibrista”, riconoscendo proprietà antidolorifiche, perfino immobilizzatrici e anestetiche alla letteratura (“immobilizzami tutti gli arti / mollami tutti gli acciacchi / ai lati della spina dorsale / con pomata poetica”), nella raccolta la poesia è strumento per raccontare di una generazione che, con dignità e ironia, non si rassegna alle teorie parassitarie dei bamboccioni e dei fannulloni, ma costruisce il futuro attraverso una commistione virtuosa tra un civile ancoramento al vero e una pur faticosa e spesso omologata progettualità privata: “i conti in tasca farseli / dei soldi racimolati / nel salvadanaio sotterrato / sperando germogli / prima o poi in un baleno / il momento propizio del mutuo, / risalga la china l’inflazione / cali il prezzo del mattone / si faccia matura la terra // si scrollino di dosso le mani / aggrappate sulla cotoa / dea mama”. Le atmosfere domestiche non descrivono il semplice accumularsi di dati biografici, poiché l’autore è cosciente delle debolezze dell’individuo e consapevole che relazioni autentiche sfuggono a meccanismi pseudo-poetici, ma sono l’espediente per misurarsi con il concetto di alterità. Pur desiderando costruirsi una barriera protettiva, il poeta si immerge nel magma dell’esistenza, e l’impulso vitale ne esce rafforzato da un codice comportamentale e valoriale che tenta di ribaltarne il punto di vista: “proviamoci anche noi / a guardarlo / dall’altra parte / questo mondo”. Non è il tempo infatti per starsene “ad incorniciare tramonti / dalla finestra” se non durante una pausa caffè, perché “la tangenziale di mestre / ti imbottiglia per bene / in botti di ferro / fregandosene della luna”, eppure non si può non provare stoicamente a costruirsi una vita meno desolante, “provare a sfidarla / ogni tanto / una buona volta / tutta questa gravità”. Anche lo stile letterario si nutre di questa dicotomia: se il tono dominante, soprattutto nella seconda parte del libro, è dimesso e scanzonato, e, a volte, con l’utilizzo di versi più lunghi, vicino alla prosa (“ti chiedo poi come sia andata la mia lettura / mi dici che è andata bene che ho poesie / collaudate, che sono sempre le stesse”), non mancano lampi di lirismo, e, soprattutto, emerge il ricorso alla tecnica espressiva di una giocosa ironia, in una sorta di sfida della parola al post-moderno: “infilarti in tangenziale / sulla corsia di sorpasso / a sfilare le macchine / con la linguaccia / in mostra”. Il lessico proviene prevalentemente dal parlato basso, e questo spiega il ricorso frequente a composti verbali e, soprattutto, nel mezzo dei singoli testi, a un dialetto a volte di matrice rurale, altre squisitamente quotidiano, come se il dialetto fosse al tempo stesso la lingua della memoria, del sogno, ma anche della fatica di vivere il presente. Così lo sguardo dell’autore si sofferma sugli aspetti autentici che la poesia vera sa cogliere. Questa commistione potrebbe far pensare ad un linguaggio viscerale, eppure ogni verso è accuratamente pesato, cesellato, misurato, per evitare strappi e forzature, ma senza asciugarlo del tutto fino al nulla, fino a renderlo fragile scheletro: ne resta infatti una polpa muscolosa, ispirata, parlante. Piero Simon Ostan, Pieghevole per pendolare precario, Le voci della luna, 2011 Vito Russo
Torna all'indice"Bestie e dintorni" di Amos Mattio Amos
Mattio è uno dei più promettenti poeti italiani della generazione dei nati negli
anni Settanta. Cuneese di nascita e milanese di adozione, Mattio è segretario
della Casa della Poesia di Milano, luogo in cui si anima il dibattito letterario
contemporaneo nella Capitale del Nord,
nell’affascinante cornice della Palazzina Liberty in largo Marinai d’Italia.
La sua prima raccolta di versi è Bestie e dintorni, edita da LietoColle. Bestie e dintorni è una raccolta che spiazza, per la sua delicatezza ed eleganza, per la sua originalità nel panorama poetico degli ultimi anni. Sul piano espressivo il tratto più originale si realizza nella rottura della antinomia onirico/naturalista. Mattio apre la silloge con un bestiario e prosegue forgiando i suoi versi nei campi notturni, nella pioggia, in un treno, su una giostra, come in un lungo sogno ininterrotto. Mattio ripercorre in parte la strada tracciata da Federigo Tozzi ed Ermanno Krumm, come evidenzia Maurizio Cucchi nella puntuale prefazione, e da Giampiero Neri, per citare un altro classico contemporaneo. Tuttavia la poesia di Mattio è malinconica, oseremmo dire decadente. L’aggettivazione è abbondante ma puntuale, pronta a rilevare anche i più minimi dettagli. Ne è sintomo l’attenzione che l’autore rivolge ad esempio ai colori: “Le ali / perse nel cobalto richiamano / tinte irreali, rubino, / screziato vermiglio, e pallori / verdi di germogli, colori / d’estate e di fuoco”. Il tema prevalente della raccolta è quindi il descrittivo, teso ad elaborare immagini crepuscolari, atmosfere ovattate, allusive, evocative, orfiche quasi; eppure non mancano momenti riflessivi, in cui però sono gli oggetti ad essere personificati (“Lo specchio […] mi guarda / pensoso, e feroce sorride”), a fare da contraltare allo sguardo osservatore del poeta, ai suoi “occhi / resi muti dal troppo dolore”. Mattio quindi osserva il reale nel più minimo particolare, e lo descrive con la sua personale sensibilità, ma non indica un percorso univoco, non entra a gamba tesa nella pagina, estrae anzi lentamente la sua trama e la dona all’immaginario del lettore, non vuole travolgerlo, ma renderlo partecipe, accompagnarlo nell’interpretazione delle cose, della natura, degli oggetti, degli animali. È come se Mattio facesse della parola una patina tra sé e la realtà, e invitasse il lettore a scavarla delicatamente per cogliere il cuore dell’esistenza, e interpretarla a proprio piacimento, rielaborarla con occhi propri. Dal punto di vista strettamente formale, Mattio utilizza un lessico piuttosto semplice in una struttura tradizionale, ma si segnalano scelte sintattiche coraggiose, che Mattio può permettersi per la padronanza stilistica che dimostra: costruzioni inusuali, ardite, lontane dal linguaggio parlato (“Sonnecchiava / l’aria tra i cuscini e viva / rideva ancora attraverso / timida la soglia), il ricorso a modi verbali indefiniti e a periodi senza principale, l’utilizzo molto frequente del soggetto dopo il predicato. Il verso di Mattio resta comunque impeccabile, ben plasmato, non una sillaba è di troppo, ad indicare che è possibile usare la parola con precisione, con dedizione, come materia delicata che, come la luna, “china lo sguardo timida e accoglie / fugace un’altra anima e arrossisce”. Amos Mattio, Bestie e dintorni, LietoColle, 2004 Vito
Russo
Torna all'indice“L'appello della mano” di Lino Angiuli (anche su "Punto. Almanacco della poesia italiana. 2011 - 1" e musicaos.it)
Concerto de "Le luci della centrale elettrica" all'Arci Bellezza di Milano (anche su milanoweb.com)
Lunedì 17 marzo l’ARCI Bellezza
di Milano ha ospitato una delle novità più interessanti del panorama musicale
italiano. Le luci della centrale
elettrica è lo pseudonimo di Vasco Brondi, cantautore ferrarese vincitore
delle targa Tenco opera prima 2008 con il suo disco di esordio, Canzoni da spiaggia deturpata.
Le atmosfere cupe e graffianti del disco sono state esaltate dagli spazi angusti, che a stento contenevano i circa 200 presenti, dall’acustica, di conseguenza sacrificata, dal sudore dei presenti presto evaporato sulle pareti. Tuttavia, anche chi non conosceva il disco ha apprezzato il sound impuro, le chitarre distorte, la voce che alternava toni ora urlati, ora delicati, l’originalità dei pezzi in cui il ritornello è quasi inesistente. Le Canzoni da spiaggia deturpata sono il dolente e rabbioso grido di allarme di una generazione senza punti di riferimento (“cosa racconteremo ai figli che non avremo di questi cazzo di anni zero?”, oppure “sarà la prima volta che non andrò a votare, sarà la prima volta che non andrò a puttane”, o, ancora “rovistando tra i futuri più probabili, cerco solo futuri inverosimili”), in uno stile nuovo, poiché mescola generi e maestri apparentemente distanti: dal punk, al grunge urlato di Kurt Cobain, al rock dei CCCP, alla tendenza visionaria del primo De Gregori, all’irriverenza e allo stile destrutturato di Piero Ciampi e soprattutto di Rino Gaetano, omaggiato e citato in Nei garage a Milano Nord. Vasco Brondi dà il meglio di sé nel lirismo dei testi, illuminati da potenti intuizioni da decadentismo urbano. Così il pubblico ha riassaporato atmosfere ottocentesche da spleen parigino, traslate nelle periferie emiliane e milanesi dei giorni nostri (“le istruzioni per abbracciarsi e per ballare negli scompartimenti delle metropolitane, sarà l’effetto serra il nostro carcere speciale, le fotocopie del cielo milanese, che Milano era veleno, che Milano era veleno, era un deserto al contrario un cielo notturno illuminato a giorno da stelle cianotiche”). Durante il concerto ha alternato le canzoni del disco alla lettura di brani tratti dal suo blog . Il pubblico ha così assistito stupito, incantato da una voce inaspettata, chiedendosi “Ma questo da dove sbuca?”. Le luci della centrale elettrica vanno riascoltate in ambienti con un’acustica all’altezza, e tuttavia l’iniziativa del Bellezza va senz’altro apprezzata e incoraggiata. Non capita tutti i giorni a Milano, di ascoltare buona musica a prezzi bassi. Perché Vasco Brondi è semplicemente un cantautore come non se ne ascoltavano da tempo. Vito Russo
Torna all'indice “Polvere del bene”
di Giacomo Leronni Giacomo Leronni, Polvere del bene, Manni, 2008. Vito Russo
Torna all'indice“Un giorno l’altro” di Lino Angiuli (anche su musicaos.it) Ho riletto l’ultimo libro di Lino
Angiuli, Un Giorno l’altro, in una
sala d’aspetto di ospedale. L’ho riletto con gusto, con una voracità divertita
e quasi infantile, col sorriso stampato in faccia, sotto gli sguardi indiscreti dei miei
compagni d’attesa. Lino Angiuli, Un giorno l’altro, Aragno editore, 2005. |
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